Mezzo secolo di vita da prete da rileggere

Finalmente, dopo tanti ripensamenti, ho deciso: riunirò in un armadio “l’opera omnia” della mia vita.

Già nel passato ho confessato che al momento di trasferirmi dalla mia immensa canonica – che la mia perpetua aveva definito con un po’ di disprezzo “un municipio” – al piccolo guscio di alloggio al “don Vecchi”, ho dovuto liberarmi della mia biblioteca. In verità non mi è costato molto, perché in effetti non mi serviva punto. Ho potuto portare con me solamente un armadio in noce di media grandezza ove ho stipato tutti i volumi che ho fin qui pubblicato, i quali sono in gran parte antologie di articoli apparsi nei molti periodici di cui mi sono occupato durante il lungo ministero pastorale. Quando voglio recuperare il mio passato, non avendo una buona memoria, devo fatalmente aprire uno dei tanti volumi che vanno pian piano ingiallendosi.

Sono stato un po’ perplesso per il luogo ove collocare il nuovo armadio e per il costo che m’è parso un po’ consistente, dato il valore di ciò che conterrà. Poi ho concluso che il mio mezzo secolo di vita da prete poteva perlomeno valere tale somma.

A giorni mi accingerò a mettere in bell’ordine i volumi de “La Borromea”, “Carpinetum”, “L’anziano”, “Lettera aperta”, di “Radiocarpini attualità”, di “Coraggio”, “L’incontro” e poi di tutte le pubblicazioni date alle stampe attraverso l'”Editrice Carpinetum”, prima, e poi quella de “L’incontro”.

Questa operazione mi aiuterà a mettere un po’ di ordine nel mio passato per verificare la mia testimonianza di prete della fine del secondo millennio e dell’inizio del terzo e per sondare lo sviluppo del mio messaggio nel susseguirsi di tanti anni.

M’è pure frullata per la testa l’idea che un domani questo materiale potrebbe aiutare chi volesse stendere una biografia, ma è stato solo un attimo che ho scacciato con la prontezza e la decisione con cui si caccia una vespa o un calabrone, avviandomi sul sentiero più giusto che quando andrò “in pensione dalla pensione” mi sarà più facile sorridere per le mie illusioni, sorprendermi per l’audacia delle mie utopie, ma soprattutto per chiedere perdono di tante pretese, tanti giudizi e soprattutto tanta mediocrità.

Politici cattolici del domani

Più volte ho ribadito la mia profonda convinzione che il cittadino, e soprattutto il cristiano, debba impegnarsi e adoperarsi per il bene della collettività. Se uno vuole avere dei servizi da parte dell’apparato statale deve concorrere perché esso lo possa fare. Chi rivendica solamente diritti e servizi standosene alla finestra a guardare e rimanendo con le mani in tasca è un illuso o, più facilmente, un egoista ed un ipocrita. Il servizio per il bene comune la nostra società lo definisce con un termine antico: “politica”, ossia impegno per la città nel senso più lato della parola.

Sono quindi assolutamente d’accordo con il presidente Napolitano quando afferma che l’impegno politico è in se stesso qualcosa di degno, nobile e alto. Però il triste è che gli uomini che attualmente gestiscono nella nostra nazione questa nobile mansione, che si rifà al comandamento evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”, sono in gran parte dei mestieranti interessati, preoccupati solamente di garantirsi lauti proventi e promuovere la loro parte per mantenere questa posizione di privilegio anche in futuro.

Credo che in passato raramente in Italia si sia provato un sentimento di disistima, di rifiuto e di disprezzo per una classe politica così partigiana, litigiosa, inconcludente, arrogante, arruffona ed incline ad ogni compromesso qual’è quella che oggi governa in Italia. Pare che la stragrande maggioranza dei cittadini sia nauseata e delusa, ma non riesce a disfarsene nonostante si affermi che in Italia vige il sistema democratico.

Pure il Papa ha raccolto questo sentimento di disagio universale e più volte ha auspicato una nuova classe politica fatta da membri della nuova generazione non ancora compromessa e squalificata. Il mondo cattolico pare che finalmente stia muovendosi. Recentemente s’è riunito in un convento a Todi per confrontarsi sulle possibili soluzioni.

L’iniziativa m’è sembrata un germe di speranza seminato in terra d’Italia, però confesso che ha creato un sentimento di disagio la presenza del cardinal Magnasco con la sua papalina rossa in capo ad offrire la sua mano inanellata per ricevere un reverenziale baciamano: gesto ormai fortunatamente fuori moda. M’è sembrata una intromissione un po’ intrigante di un clericalismo che tarda a morire.

Rimango convinto che preti, vescovi e Papa abbiano il nobilissimo compito di annunciare princìpi, di indicare orizzonti aperti, di promuovere utopie, lasciando ai laici ed onesti mediare in soluzioni concrete tali obiettivi per creare una nazione più sana e governi più tesi al bene comune.

Il Don Vecchi di Campalto è nato senza l’aiuto dalle istituzioni ma dal cuore della gente comune!

Il “don Vecchi” di Campalto è stato finito anche nei minimi particolari. Il 15 ottobre l’abbiamo inaugurato in maniera solenne davanti a cinque-seicento persone che sono sopravvissute ad un vento di bora che tirava glaciale, pur di vedere “il miracolo” sbocciato, come per incanto, sulla gronda della laguna.

All’inaugurazione ha partecipato la più bella gente di Mestre e dintorni, in un clima di entusiasmo e di ammirazione. C’era ben donde essere entusiasti di fronte ad un complesso di 64 alloggi, con servizi di prim’ordine, luoghi ampi e ben arredati, con lo scoperto vasto e già seminato e verde, con piante ed arbusti in fiore, pannelli solari e fotovoltaici già funzionanti.

Dalle autorità presenti non abbiamo avuto sostegni economici di nessun genere, ma noi, gente alla buona, ci siamo accontentati anche del dono dei loro complimenti e dell’invito ad andare avanti.

Questo miracolo è stato concepito, voluto e cresciuto nel cuore della povera gente, nonostante la crisi economica e i prelievi fiscali, il crollo delle borse e il dramma di Berlusconi che, col cuore sanguinante, ha dovuto mettere le mani nelle tasche dei poveri e che per darci il permesso a costruire questa struttura per gli anziani più poveri della città, per questo “lusso” che ci siamo presi, ha preteso il 21% del costo, ossia seicentocinquantamila euro – un miliardo e trecento milioni delle vecchie lire! Questa è l’Italietta per la quale più di un migliaio di parlamentari si danno da fare onde garantire serenità e sviluppo per i più poveri.

Credo che sia davvero doveroso da parte mia informare i miei concittadini su come le istituzioni hanno concorso per il “don Vecchi” di Campalto. Ebbene, ve lo faccio sapere chiaramente: tra la Regione Veneto, la Provincia, il Comune di Venezia, la Fondazione Carive della Cassa di Risparmio, l’Associazione Industriali, la Camera di Commercio, la Banca Antoniana, la Cassa di Risparmio di Venezia, solamente il Banco San Marco ha elargito 1000 (diconsi mille) euro, gli altri zero!

Sono quasi costretto a concludere che la crisi ha colpito solamente i ricchi ed ha risparmiato i poveri. Per fortuna!

Un bel segno dell’affetto di mio fratello don Roberto!

Don Roberto, mio fratello piccolo, parroco a Chirignago, in una di quelle sue sparate improvvise ed inaspettate, ha rivendicato per il fratello più vecchio (che sono io), in pensione, almeno la commenda di “Monsignore”, per un riconoscimento delle opere da lui compiute.

Don Roberto non ha inviato in curia una garbata e rispettosa richiesta, ma l’ha fatto pubblicamente nel periodico della sua parrocchia, “Proposta”, di cui è redattore, direttore e forse anche tipografo, da un quarto di secolo; l’ha fatto poi nel suo stile che si rifà a Montanelli o a Giuliano Ferrara: vivace, tagliente, ironico.

La cosa in verità mi ha fatto molto piacere, ben s’intende perché l’ho colta come un segno d’affetto fraterno, non certamente perché condivida la richiesta o la sua proposta. Se egli rivendicasse il titolo di monsignore per i miei meriti acquisiti nella Chiesa veneziana, io dovrei domandare per lui almeno la berretta cardinalizia per essersi tirato su una parrocchia veramente meravigliosa, per il vivaio di giovani che ha cresciuto, per la molteplicità d’iniziative pastorali e la partecipazione dei suoi parrocchiani alla vita della comunità.

Penso che oggi sia un segno d’onore essere soldati semplici come il piccolo Nemech del romanzo “I ragazzi della via Paal” ove tutti erano graduati fuorché lui. Da noi oggi non so chi non sia Monsignore!

La trovata di sapore goliardico del mio caro don Roberto mi spinge a fare una confidenza in proposito. Qualche anno fa monsignor Pizziol mi convocò a Villa Visinoni a Zelarino e mi disse che il Patriarca, e pure lui, avevano pensato bene di offrirmi il titolo di Monsignore, avendone a disposizione uno del “capitolo dei canonici” di Murano (ora a Murano non c’è da più di un secolo il capitolo, sono rimaste invece solamente le onorificenze relative).

Chiesi la grazia di soprassedere perché proprio non avrei mai saputo vedermi con bottoni e fascia rossa. Egli mi accordò senza tanta fatica il favore. Seppi poi che offrì ad un mio più giovane collega il titolo rimastogli a disposizione, confratello che fu ben contento di riceverlo e il vicario ben felice d’aver “preso due piccioni con una sola fava”.

Fortunatamente l’impennata di don Roberto è venuta “sede vacante” e perciò non corro alcun pericolo. L’uscita di don Roberto mi ha fatto felice perché segno di affetto e perché trovata divertente; spero però che non gli venga in mente di fare un’altra uscita del genere, altrimenti dovrò – ripeto – rivendicare per lui il cardinariato.

Un passaggio del testimone tutto in positivo

In quest’ultimo tempo è avvenuto il passaggio delle consegne alla presidenza della Fondazione che gestisce i Centri don Vecchi. Questo passaggio è stato da me deciso e fortemente voluto per i motivi che più volte ho confidato ai miei superiori: la mia età avanzata, gli acciacchi della mia salute e la convinzione che soltanto chi è di questa generazione la sa comprendere compiutamente e la può gestire in maniera adeguata.

In questo passaggio del testimone mi pare di essere stato particolarmente fortunato perché don Gianni, il mio successore, è un prete giovane, intelligente ed intraprendente, ha tutta la mia fiducia e sono inoltre convinto che darà un domani ai Centri don Vecchi e ciò non è poco per chi, come me, ama perdutamente la “sua creatura”.

Quando cinque anni fa si è deciso di costituire una fondazione, con la sua autonomia dalla parrocchia, don Danilo ebbe la cortesia di permettermi di essere io a scegliermi i consiglieri, cosicché la conduzione risultò facile e positiva. Ora il nuovo Consiglio ha deciso che io partecipi alle riunioni svolgendo ancora un ruolo attivo.

Sarà mio impegno essere assolutamente discreto e facilitare il nuovo Consiglio perché si muova in maniera assolutamente autonoma, non volendo diventare la suocera seccante ed impicciona. Sono anche tanto felice di poter collaborare con discrezione e misura aiutando questo giovane parroco che di impegni ne ha fin troppi. Sto quindi finalmente assaporando la stagione del nonno: poche responsabilità, però impegno serio per alleviare il peso di chi deve combattere la dura battaglia del quotidiano.

Mi convinco sempre più che la mia vita è stata particolarmente benedetta e che debbo veramente ringraziare il Signore che è stato tanto benevolo e comprensivo con me.

Lottare? Sì ma per qualcosa di buono!

Qualche giorno fa mi sono recato a Padova per un’ulteriore instillazione antitumorale. Il cancro, nella mia lunga vita, mi ha dato filo da torcere; la battaglia contro questo male oscuro è stata spesso dura e cruenta, ma finora sono sempre risultato vincitore, pur portando nel mio corpo i segni di serie ferite. Questa guerra però non è ancora finita; essa sta attaccandomi ancora, ed io però, con l’ausilio di validi consulenti, sto difendendomi con tutti i mezzi possibili. Dopo uno scontro ne esco indebolito, dolorante e spossato, senza però alcuna intenzione di arrendermi.

La volontà di vivere è così radicata e profonda che talvolta mi pare perfino irrazionale ed assurda. Se fossi capace di cogliere tutta la bellezza della vita, dei rapporti umani e di esprimere sempre e con tutti il meglio di me, sarebbe giusto lottare per prolungare questo bel dono di Dio, mentre invece, con questo strenuo impegno per allungare i miei giorni, finisco per esprimere un vivere stinto, poco vivace, spesso stanco e senza passione.

Gesù ha detto: «Sono venuto perché abbiate la gioia ed essa sia piena. Da molto tempo mi pare di comprendere sempre più che la religiosità autentica, la preghiera più valida sono quelle di vivere una vita serena, gioiosa, ricca di incanto, d’amore e di impegno. Mi pare di aver capito, da un punto di vista razionale, che il vivere è un bel dono, mentre corro il rischio talvolta di trasformarla in un castigo faticoso ed amaro da sopportare.

Per ora non cesso di far propositi, ma anche di registrare sconfitte. Nel mio animo però si radica sempre più la convinzione che la religiosità autentica è quella del “magnificat” di Maria e non quello del “miserere” di David. Lottare per qualcosa di buono è giusto, mentre sarebbe assurdo impegnarci solamente per prolungare la tristezza di un vivere senza entusiasmo e gioia.

Attualizzare il detto di Gesù “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”

Il Signore ti fa incontrare delle persone o ti fa fare delle esperienze che, se colte con spirito aperto e disponibile, ti possono essere di grande aiuto per tutta la vita.

Mi rifaccio ad uno di questi incontri, di mezzo secolo fa, che mi aiuta ancora. All’inizio del mio ministero sacerdotale, una delle cose che mi impegnavano e mi preoccupavano di più era il sermone domenicale. Tentavo ogni settimana di metterci, come è dovere di ogni prete, il meglio di me, ma rimanevo sempre preoccupato, avendo spremuto a fondo le mie risorse interiori per ogni predica, per che cosa avrei potuto dire l’anno successivo quando si sarebbe presentata puntualmente la stessa pagina del Vangelo.

Monsignor Da Villa, il mio parroco di allora, mi rasserenò, assicurandomi che la Parola di Dio è sempre nuova e perciò ogni volta che l’avessi incontrata mi avrebbe offerto una verità ulteriore.

Di fatto è sempre così. Qualche domenica fa mi è capitato di commentare la pagina del tributo da dare a Cesare e quello da dare a Dio. Da sempre avevo sentito commentare che Gesù voleva dire che è doveroso pagare le tasse allo Stato e a Dio con la preghiera. Cosa che sempre mi era apparsa semplicistica e meschinella.

Quest’anno, leggendo il brano, mi è parso che mi dicesse: “Cesare rappresenta la comunità, più o meno grande che sia, ed ognuno non può pretendere da essa prestazioni e servizi se non dà a sua volta il proprio apporto perché la comunità siamo noi, la formiamo noi. E qui il discorso mi pareva che filasse quanto mai, fosse più comprensibile e razionalmente accettabile.

Pensando però alle ingiustizie, agli sperperi, alle disuguaglianze di certe comunità, specie la più grande, qual’è lo Stato (avevo infatti appena letto che un dipendente della Regione Sicilia percepisce “legittimamente” una pensione di 1300 euro al giorno) capii quanto fosse altrettanto giusta l’affermazione di Gesù “date a Dio quello che è di Dio”. Di Dio è la giustizia, la misericordia e perciò il cristiano, il cittadino, l’uomo, deve operare e pretendere che lo Stato, inteso come collettività, sia uno Stato giusto, attento ai più deboli, forte con i più furbi e perciò questo secondo dovere è altrettanto importante quanto il primo.

Solo per questo abbinamento il discorso mi diventava razionalmente comprensibile ed accettabile. Mentre, se non ci fosse questa correlazione, ciò che lo Stato pretende risulterebbe una sopraffazione ed un’ingiustizia.

Con questa lettura, che almeno per me risulta nuova, ho compreso più a fondo la validità dell’affermazione di Cristo. Molto probabilmente quando tra tre anni mi capiterà di leggere lo stesso brano, capirò ulteriormente la valenza di un altro discorso di Cristo che afferma: “Cercate per primo il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi giungerà in sovrappiù!” Pagare le tasse senza pretendere ed operare che lo Stato sia sobrio, scrupoloso e giusto non mi pare sia nel pensiero di Cristo.

“Ama il prossimo tuo come te stesso” è un comandamento non sempre vissuto appieno

L’apertura del “don Vecchi 4”, impresa che mi ha impegnato alquanto in questi ultimi tre anni di vita di pensionato formale, è stato un evento che mi ha coinvolto quanto mai, non solamente perché queste imprese sono estremamente complesse e costose, ma soprattutto perché ha rappresentato per me il tentativo di raggiungere un obiettivo ideale che va ben oltre il fatto di poter offrire serenità e sicurezza ad un’ottantina di anziani.

Ormai da molti anni mi cruccia il fatto che nella Chiesa in generale, ma soprattutto nelle comunità locali, mentre si recepisce “il primo” comandamento di Cristo “Ama Dio con tutte le tue risorse” e si tenta di portarlo avanti attraverso la catechesi, l’omiletica e la nuova evangelizzazione, il “secondo”, che gli è estremamente connesso, così da farne un tutt’uno, “Ama il prossimo tuo come te stesso”, mi pare sia abbastanza negletto e praticamente considerato marginale nella proposta pastorale.

Bene o male le nostre parrocchie hanno messo in piedi un’impalcatura che va dagli edifici sacri ai discorsi di carattere religioso per parlare ed amare Dio, mentre in generale pare venga ritenuto quasi un optional del messaggio cristiano il comandamento della carità. Le nostre comunità hanno eretto delle chiese decorose, hanno un apparato per la catechesi, ben raramente però sono attrezzate in maniera seria per dare volto e sostanza alla solidarietà, elemento che esprime e trasforma in servizi concreti il comandamento dell’amore fraterno.

Non mi illudo minimamente di avere la capacità e le risorse per operare questo bilanciamento, ma almeno sento il dovere di premere perché la solidarietà abbia maggiore consistenza, perché convinto che il messaggio cristiano senza la componente assolutamente essenziale, la solidarietà, sarebbe monco, deforme e difficilmente accettabile dall’uomo di oggi.

Sono sempre più convinto che nel nostro tempo per i cristiani, presentare il biglietto da visita con scritto “solidarietà” sia più accettabile e comprensibile che presentare quello con scritto “fede”. Per questo motivo ho parlato del “don Vecchi” come “cattedrale di Dio” e della sua inaugurazione come “pontificale della solidarietà”.

Non è facile “amare Dio con tutte le proprie forze”, anche si corre il rischio di illudersi di farlo, mentre è altrettanto difficile “amare il prossimo come se stessi”, ma in questo caso è più facile verificarne le relative mancanze.

Il passaggio del testimone

Chi desidera che una stagione abbia le caratteristiche di un’altra stagione sarà sempre illuso e deluso. L’uomo d’oggi ha trovato sì dei surrogati perché d’inverno si possa godere del tepore della primavera o perfino dell’estate o, viceversa, che si possa vivere una stagione estiva che abbia le caratteristiche dell’autunno o perfino dell’inverno, però questi surrogati costano sempre cari e non hanno mai la totalità della ricchezza propria di ogni stagione.

Credo che questa legge della natura valga anche per le stagioni della vita dell’uomo. Una persona anziana può anche illudersi di avere la lucidità, la forza, la capacità di leggere i tempi nuovi; in realtà però avrà sempre l’impronta del suo tempo, farà quindi molta più fatica di un giovane e riuscirà sempre meno bene di lui ad affrontare i problemi della vita e ad adeguarsi alla nuova stagione della società in cui vive.

Il giorno dell’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto, quando ho ufficialmente annunciato il mio abbandono della presidenza della Fondazione e ho presentato don Gianni – appena quarantenne – come mio successore, pur col rimpianto per l’avvicendamento che ho voluto decisamente, ho provato pure una sensazione di liberazione per un compito che mi stava diventando idealmente sempre più pesante; ho avuto la sensazione di esprimere amore vero per ciò in cui ho tanto creduto e che ho amato, e nello stesso tempo la sicurezza di aver fatto quello che era giusto e saggio fare.

Per questo passaggio del testimone, in un momento in cui, fortunatamente, godo ancora di un po’ di lucidità e di energia, non mi riterrò minimamente dispensato dall’impegnarmi per quello che ho sempre creduto doveroso. Però il fatto che la barra del timone sia ora nelle mani di un sacerdote giovane ed intelligente mi dà pace e mi fa sentire coerente con le mie profonde convinzioni.

Il guardiano del nulla

Qualche tempo fa ho citato, non mi ricordo proprio in relazione a quale motivo, una storiella sulla vita militare, un racconto nato probabilmente da qualcuno che è critico della vita militare e del nostro esercito.

Eccovi la storiella. In una caserma in cui abbonda sempre il personale ed è quindi difficile trovare un’occupazione per aiutare i soldati di carriera a non annoiarsi troppo a causa dell’ozio, avendo il comandante fatto riverniciare una sedia, ordinò che un piantone vigilasse perché qualcuno, sedendosi, non rovinasse la pittura e, peggio ancora, non si rovinasse i pantaloni.

In un ambiente in cui spesso non è richiesta l’intelligenza, ma l’obbedienza, capitò che il maresciallo stabilisse che fosse mantenuta questa vigilanza anche il giorno dopo, cosicché la cosa continuò finché qualcuno di più intelligente e più libero non si chiese il perché di questa “guardia alla sedia”. E infine scoprì finalmente l’arcano.

Pensavo ad una delle tante storielle che circolano a buon mercato nei riguardi dei carabinieri o dell’esercito, ma ho scoperto che neanche al Comune le cose vanno diversamente.

Eccovi il fatto che ognuno può verificare. Nel parcheggio scambiatore sito in via Santa Maria dei Battuti, due o tre anni fa il Comune fece costruire due capanne di tela ove erano messe a disposizione delle biciclette per gli autisti che vi parcheggiavano la macchina per raggiungere il centro. Com’era prevedibile qualche malintenzionato ha rovinato quella custodia risparmiando solamente il tetto. Da un anno all’interno non ci sono più biciclette, ma solamente erbacce. E’ rimasto solamente il “custode” che dal mattino fino all’ora di pranzo, in un bugigattolo prefabbricato, custodisce “il nulla”. Passa il tempo leggiucchiando vecchi giornali e dormicchiando.

Immagino che un tempo a questo signore i servizi sociali del Comune abbiano affidato questo compito per potergli elargire una “paghetta” ed ora continuino, pur essendo venuto a mancare il motivo per cui lo si pagava.

Purtroppo il Comune non è tanto meglio dell’esercito, deve faticare per tener occupati i suoi quattromilaseicento dipendenti. Finché il denaro pubblico va sprecato per le casette degli zingari e per i tanti “operatori del nulla”, oppure impegnati a rendere difficile la vita ai propri cittadini, sarà sempre più difficile che essi paghino volentieri le tasse.

Papa Ratzinger

Per me, come deve essere per ogni cristiano, il Papa è il Papa, il successore di san Pietro e il rappresentante di Gesù in Terra. Questo vale per Papa Giovanni XXIII, per Papa Celestino quinto, per Papa Pio dodicesimo, come per Papa Borgia. Il Papa rappresenta Cristo, indipendentemente dalla sua santità o dalle sue doti personali.

Appena ieri ho confessato la mia profonda ammirazione e il fascino che ha esercitato nel mio spirito Papa Wojtyla per il suo charme fisico e spirituale, per il suo coraggio di sfidare il mondo e mantenere ben saldo il timone della Chiesa, nonostante questo mare insidioso che è il mondo attuale.

Papa Benedetto XVI, Papa Ratzinger, da un punto di vista umano mi piace molto meno; quella sua persona fragile, la voce fioca e stridula, quel suo italiano un po’ stentato, mi esaltano meno, però anche il nostro papa teologo e tedesco è il Papa in cui vedo il volto, il cuore e la parola di Cristo e, man mano che passa il tempo, anche da un punto di vista umano, sempre più l’apprezzo, sento nei suoi riguardi tenerezza ed amore veramente filiale. La sua umiltà, il suo domandare perdono per i peccati della Chiesa, le sue denunce per la fragilità del pensiero oggi corrente, la sua ammissione costante delle difficoltà e dei limiti della Chiesa di cui è capo, me lo rendono sempre più caro.

Papa Ratzinger non ha il fascino della persona, della voce, del coraggio di sfidare il mondo, però è impegnato a salvare la Chiesa e il mondo mediante la sua denuncia umile e dimessa, ma costante e lucida.

Ho particolarmente ammirato il nostro Papa nel suo ultimo viaggio nella sua terra e soprattutto nella terra di Martin Lutero, del quale ha colto il desiderio e il tentativo di purificare e salvare la Chiesa del suo tempo, che non era di certo meno irrequieta ed incoerente di quella dei nostri giorni. Mi ha toccato particolarmente quando ha affermato, in terra tedesca, dove la secolarizzazione e la diserzione religiosa è grave, che non è il numero dei cristiani che ci deve interessare, ma la qualità e la coerenza con l’insegnamento di Gesù.

L’ho ammirato quando poi ha condannato, pur con voce pacata, la pompa, le strutture appariscenti, il ritualismo, per invocare il ritorno alla sobrietà e alla povertà evangelica.

I Papi sono anch’essi strumenti nelle mani di Dio, il quale talvolta adopera la carezza e talvolta l’asprezza, ma sempre raggiunge il suo scopo, qualsiasi sia lo strumento che sceglie di adoperare.

La crisi ci insegna come sia inutile cercare il benessere senza voler fare fatica!

Tanti anni fa ho letto un volume che portava questo titolo: “La Bibbia aveva ragione”. Non ricordo più chi fosse l’autore di questo volume, ma ne ricordo invece bene il contenuto.

Un biblista esperto tentava di dare una lettura razionale a certi episodi della Bibbia, i quali, per il nostro mondo, figlio del secolo dei lumi, risultano irrazionali e perciò relegabili nel mondo della favola o della leggenda. Ricordo ad esempio come questo studioso rileggeva razionalmente l’episodio del passaggio del mar Rosso, o quello del sole che si sarebbe fermato per permettere alle schiere d’Israele di dare il colpo definitivo ai nemici contro i quali stavano combattendo.

Non sono in grado di valutare criticamente la validità dell’argomento di questo studioso, però in questi giorni, in rapporto all’angoscia che la crisi economica sta diffondendo nel mondo, m’è venuta in mente la cacciata di Adamo ed Eva dal “Paradiso terrestre” a causa del fatto che non avevano tenuto conto del precetto del Signore, per fare invece egoisticamente e superficialmente di testa propria e del conseguente monito del Padre celeste: “Partorirai i tuoi figli nel dolore e ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte”.

Questo castigo metteva definitivamente fine al “Paradiso terrestre”.  Ho però l’impressione che noi uomini del terzo millennio abbiamo l’illusione di poterlo recuperare. Ci hanno provato tutti inutilmente in questi ultimi secoli. Ci fu perfino all’epoca di Stalin o di Mao qualcuno che disse che finalmente ci erano riusciti, prima in Russia e poi in Cina. Però tutto crollò miseramente sotto i nostri occhi! Anche oggi, più o meno scopertamente, stiamo perseguendo la stessa utopia pensando che il consumismo aumenti all’infinito ricchezza e benessere, mentre, una volta ancora, tutto sta crollando sotto i nostri occhi. Ciò mi porta a concludere che il Paradiso terrestre, che donerebbe benessere a tutti senza faticare, senza soffrire, è una tragica illusione e che perciò la Bibbia, ancora una volta, ha ragione quando riferisce che il Signore sentenziò che da allora in poi l’uomo avrebbe sofferto e sudato per poter vivere.

Sarà bene che tenga conto di questa verità e che la insegni anche ai miei fedeli: la vita e il pane non ci arriveranno gratuitamente dal Cielo, ma dobbiamo guadagnarceli ogni giorno con fatica. Se continueremo nella ricerca del benessere senza fatica ci toccherà “il danno e pure la beffa”.

Il consumismo e lo spreco vanno abbandonati per uscire dalla crisi!

Ritorno su un tema che credo fondamentale se si vuole superare la crisi economica che incombe su tutto il mondo occidentale, ma che a dire il vero investe anche l’Estremo Oriente, anche se la sua economia pare che vada a tutto vapore. Infatti in India e soprattutto in Cina non è che la povertà sia una prospettiva paventata, perché in realtà non ha mai cessato di esistere: è ricco l’apparato statale, sono ricchi i quadri del partito, ma operai, contadini, non solo sono costretti a lavorare con ritmi ed orari che nei paesi occidentali non sono neppure immaginabili, ma hanno paghe che da noi non sarebbero mai accettate e perciò la crisi la soffrono da millenni perché non se ne sono mai liberati.

La verità di fondo che deve passare, lo si voglia o meno, è che il nostro mondo occidentale s’è costruito un lussuoso castello fittizio, di cartapesta, illudendoci di essere dei castellani che possono vivere da nababbi, mentre in realtà siamo in bolletta! Il mondo occidentale da mezzo secolo vive sopra le sue possibilità, da un lato sfruttando il terzo ed il quarto mondo e dall’altro illudendosi che il consumo produca eterna ricchezza.

I governi, i ministri delle finanze, le agenzie e le riviste economiche, gli organismi internazionali possono dire quello che vogliono, proporre leggi e riforme, però l’unica soluzione che risulterebbe valida è che dai più ricchi ai più poveri ci rassegniamo a vivere più sobriamente, non sprecando, riducendo i consumi e, ancora, recuperando “gli avanzi”.

Al “don Vecchi” io ho un osservatorio che mi permette di verificare tutto questo perché da un lato vedo che recuperiamo talmente tanti indumenti dimessi, ma in ottimo stato da non riuscire a smerciarli neppure chiedendo pochi centesimi, e dall’altro lato ho modo di vedere che ogni giorno anche i cittadini meno abbienti e ai margini della miseria, sono disposti a pagare un indumento tre quattro volte tanto purché sia nuovo.

C’è una mentalità condizionata dai mass-media che impongono una moda che cambia troppo rapidamente e poi siamo imbevuti di consumismo per cui “l’usa e getta” è diventato legge assoluta. Capisco fino in fondo che è ben difficile lanciare e far passare questo messaggio contro corrente, ma d’altronde non credo che ci sia altra soluzione risolutiva.

I medici, strumenti di Dio

Qualche giorno fa ho letto uno di quei raccontini che si rifanno o ai Padri del deserto o alle leggende del mondo islamico o alla cultura dell’estremo oriente che Antony De Bello ci ha tramandato attraverso quella simpaticissima serie di volumi che aprono gli occhi di noi occidentali sulla sapienza dell’induismo. Antony De Bello è stato un missionario attento al mondo culturale e religioso dell’India misteriosa, tentando di raccoglierne il meglio e innestandolo nel ceppo del pensiero cristiano ed offrendoci così un messaggio ed una proposta morale quanto mai suasive e ricche di fascino.

Il racconto di cui voglio parlare e che mi ha colpito e fatto pensare, faceva parte delle leggende del mondo islamico. Non ricordo i nomi e i particolari che rendevano particolarmente interessante il racconto, ma ne ricordo bene il messaggio che relativizzava e riduceva a posizioni reali la presunzione della medicina e l’illusione dell’uomo di oggi di sconfiggere in maniera decisiva il male mediante la scienza.

Ho concluso, spero con saggezza, che dobbiamo molto alla scienza medica – ad esempio sarei morto da decenni senza che la chirurgia fosse intervenuta per tempo – ma che comunque la nostra sorte rimane nelle mani di Dio, nel quale è bene ci abbandoniamo fiduciosamente.

Il racconto narrava di un signore che, con triste sorpresa, aveva incontrato la morte mentre era al mercato in un paese ben lontano dal suo; essa gli annunciò che l’indomani sarebbe andata a prenderlo. Questi, atterrito, una volta arrivato a casa tutto tremante, prese il cavallo più veloce che aveva e scappò in una città lontana molte miglia dalla sua perché la morte non lo trovasse. Sennonché l’indomani, mentre camminava in una viuzza, tutto contento di averla fatta franca, con angoscia e sorpresa mortale vide di nuovo il volto della morte, la quale gli disse: «Sono assai sorpresa perché mentre era fissato che ti incontrassi in questa città, ieri ti ho visto a molte miglia da qui e quindi pensavo che tu non ti presentassi all’appuntamento fissato.

I nostri vecchi dicevano saggiamente che “non si muove foglia che Dio non voglia”. Il progetto di Dio è fatto troppo bene perché qualcuno possa scompigliarlo: E’ saggio accettarlo fiduciosamente perché non è possibile sfuggirgli, ma soprattutto perché il buon Dio tiene sempre conto del nostro bene. Medici, medicine ed esperti di ogni scienza sono solamente strumenti nelle mani di Dio, mediante i quali egli segna il destino degli uomini.

Un bellissimo ritratto di Papa Wojtyla

Pensavo di avere una certa conoscenza del mondo della televisione, avendo un minimo di dimestichezza con i canali “canonici” della Rai e quelli di alcune televisioni del Veneto, però, con l’avvento del digitale terrestre, non faccio altro che scoprire sempre nuove emittenti.

In questi ultimi tempi ho scoperto Tele Medjugorje, imbattendomi un giorno per caso in un programma che, come in un collage, riferendosi costantemente al funerale di Papa Wojtyla, riportava le immagini più disparate del lungo tempo del suo pontificato svolto nel mondo intero. Fui letteralmente affascinato da questo meraviglioso mosaico di immagini riprese nei luoghi e nelle situazioni più disparate del suo ministero, commentato da brani cantati dalla voce calda di Bocelli, che presentavano la figura piena di fascino di questo ministro di Dio, talora capace di una dolcezza e di un calore umano appassionato nei riguardi dei bambini, delle donne e dei giovani, sempre consapevole d’avere un dono, un messaggio, una risposta grandiosa da offrire all’umanità in cerca di luce, di speranza e di certezze, talora in atteggiamento di sfida aperta contro le forze del male.

Man mano si susseguivano questi scorci dell’incontro con i popoli del mondo, passando gli anni il volto e la persona di Papa Wojtyla perdevano prestanza fisica, splendore e fascino umano, ma mai il coraggio, la fede in Dio e l’amore per l’uomo si affievolivano. Sembrava che la ricchezza del messaggio continuasse a fluire pure da un corpo dolorante che andava vieppiù dissolvendosi.

Sono rimasto talmente coinvolto da questa figura ieratica e profetica, che mi sembrava potesse stare accanto ad Abramo, Mosè, Francesco d’Assisi, Domenico di Guzman. Ho ringraziato di tutto cuore il buon Dio che m’ha fatto vivere in un tempo in cui Egli ha parlato mediante uno strumento così duttile e meraviglioso.

Ogni qual tanto la macchina da presa inquadrava il Vangelo posto sopra la semplice bara di cirmolo, le cui pagine si voltavano girate dal vento, quasi a dire che la vita di questo apostolo del nostro tempo era stata lievitata dal messaggio del Vangelo e per questo aveva fatto tanta presa sul cuore del mondo.