Incontri al limite

Una gran parte del mio impegno pastorale lo svolgo celebrando il commiato di concittadini che mi precedono di qualche mese o, alla meglio, spero di qualche anno nell’incontro con il Padre. Confesso che questo ministero, che per molti anni avevo considerato marginale per la vita di un prete, con il passare del tempo scopro quanto sia importante. Non passa giorno in cui non trovi qualcosa di importante per la mia spiritualità e per la mia vita. Sento il bisogno di rendere partecipi anche i miei concittadini di questa “scoperta” che vado facendo mentre saluto, a nome dei familiari e degli amici, chi ci lascia per l’aldilà. Mi piacerebbe proprio saper scrivere un trattatello organico su questo argomento.

In passato, su richiesta dei titolari dell’impresa di pompe funebri Busolin, persone che mi sono particolarmente care e molto vicine, ho collaborato alla stesura del volumetto “L’albero della Vita” per l’elaborazione del lutto. La psicologa dottoressa Gardenal ha affrontato il problema a livello psicologico mentre io, in maniera molto elementare, ho curato l’aspetto squisitamente religioso. Di certo il commiato offre vastissimi e preziosi spunti di riflessione, motivi sui quali, quando ne avrò l’occasione, vorrei ritornare ma oggi desidero soffermarmi su un aspetto che mi pare particolarmente importante.

Io non celebro mai funerali di Capi di Stato, Pontefici o di personaggi che normalmente riempiono con titoloni le pagine dei giornali e gli schermi televisivi ma accompagno invece all’ultima dimora sempre povera gente senza storia e senza vicende importanti che caratterizzino la loro vita. Tutto questo mi ha fatto scoprire che è proprio questa povera gente, gente che fa il proprio dovere con semplicità e umiltà che regge la nostra società. Monsignor Vecchi era solito affermare che quando si entra in un edificio d’istinto si cercano i capitelli e le pietre lavorate e non ci si accorge che sono invece le umili pietre nascoste sotto l’intonaco a reggere l’edificio. Mi fa tanto piacere aver scoperto che la Provvidenza mi ha assegnato il compito di occuparmi di quelle persone che sono realmente le più importanti per il nostro mondo.

La vita è bella

Per moltissimi anni nella mia vita da prete avevo chiamato “funerale” il saluto ad una creatura che ci ha lasciato; ora da anni non adopero più questo termine perché lo considero cupo, insignificante e nebbioso, mentre uso la parola “commiato”, perché essa sottintende il saluto ad uno che parte per una meta bella e radiosa.

In passato nelle mie omelie puntavo soprattutto a ribadire la verità della vita ultraterrena, la paternità e misericordia di Dio e marginalmente tentavo di aiutare i fedeli a recuperare i valori vissuti, gli aspetti positivi e la testimonianza che il “caro estinto” lasciava in eredità a chi in genere l’aveva conosciuto, ma soprattutto a chi partecipava al suo commiato. Sono aspetti che pure oggi non trascuro, ma soprattutto oggi mi sento portato ad aiutare i fedeli che partecipano al rito religioso a vivere questo evento anche come una lezione di vita, una catechesi sulla paternità di Dio, un invito alla riconoscenza per il magnifico dono della vita ed un’apertura di credito sulla vita futura.

Mi sono accorto che l’occasione del commiato è tanto opportuna per far prendere coscienza ai fedeli che Dio è stato veramente generoso nel donarci l’opportunità di vivere, che il suo dono è veramente splendido e che la vita sarebbe ancora più bella se la vivessimo secondo le indicazioni che Egli, da Padre, ci ha dato.

Spesso continuo a dire che la morte non è una disgrazia, ma che essa pure è dono perché se il Signore ha fatto un mondo così bello e ci ha messo accanto dei compagni di viaggio così cari per il breve lasso di tempo in cui facciamo questa esperienza, quanto più bella sarà la vita futura che Dio ci ha promesso, sapendo che essa dovrà garantirci un’eternità felice.

Ho l’impressione che battendo su questo tasto i presenti accettino più facilmente la prova e si mettano nell’ordine di idee che chi stiamo salutando parte, si, da noi, ma parte per un mondo migliore.

Un altro elemento su cui faccio leva è osservare che possiamo contare, nei momenti difficili, sull’aiuto della persona cara che, essendo ora accanto a Dio, può intercedere per noi. A tal proposito cito talvolta la scena di un film di cui fu protagonista l’attore Paul Newman, che venendo a casa dopo aver vissuto un match da cui dipendeva il suo futuro e quello della sua famiglia, alza gli occhi al cielo e afferma: “Lassù qualcuno mi ama!”.

Pian piano mi sto accorgendo che la pastorale del lutto mi offre delle opportunità per passare le più grandi e risolutive verità su argomenti come la vita, Dio, il domani…

Finora non ho ancora imparato ad utilizzare il discorso sull’inferno, però mi pare che pian piano potrà tornar buono anche questo elemento, senza però agitare spauracchi o scendere ad immagini che mettano in ombra la bontà del Signore.

03.06.2014

Che tristezza un commiato così!

Oggi tutto è oggetto di standardizzazione perché prodotto in serie, con meno fatica e meno costo. Questo modo di operare impedisce la nascita del capolavoro, che per natura deve essere opera unica e toglie dignità ed, oserei dire, sacralità ad ogni evento che riguarda la vita dell’uomo. Questo metodo di vivere impoverisce terribilmente ogni attività umana e tutto ciò investe la nostra esistenza.

Qualche giorno fa sono stato costretto a fare delle considerazioni sul modo di accomiatarsi da una persona cara che il Signore ha chiamato a sé, seguendo le operazioni e la cornice del funerale di una creatura che, come quasi sempre, non conoscevo.

All’ora concordata il defunto è arrivato da non so dove, accompagnato da quattro addetti alle pompe funebri; la bara non aveva né Cristo né un fiore. La seguiva un gruppetto di cinque o sei persone, che hanno partecipato un po’ annoiate alla messa funebre. Terminata la messa, i quattro soliti addetti ripresero il carrello, lo infilarono nell’auto funebre, e via di corsa a Marghera per la cremazione, mentre i “famigliari” sono rimasti vicino alla chiesa a chiacchierare. Non una lacrima, non un grazie, perché forse per loro anche il sacerdote è ritenuto un addetto alle pompe funebri e rientra nel “tutto compreso”.

Solamente cinquant’anni fa, quando ero cappellano a San Lorenzo, la campana annunciava la morte di un componente della comunità, poi, il giorno del funerale, una folla partecipava al rito funebre. La liturgia era meno sbrigativa, la croce precedeva il corteo funebre che si snodava da San Lorenzo al cimitero; la seguivano decine di corone di fiori, quattro amici del morto tenevano i cordoni del carro funebre, le donne dietro il carro recitavano il rosario, mentre le serrande dei negozi di Piazza Ferretto venivano abbassate in segno di partecipazione e le campane diffondevano i mesti rintocchi.

Al cimitero poi, i becchini coprivano con solenni palate la fossa e la gente ritornava mesta, parlando delle qualità e delle vicende di vita del loro estinto.

Io non rimpiango il passato e ritengo che ogni tempo abbia i suoi riti e i suoi modi di celebrare gli eventi più significativi della vita, ma penso altresì che quando viene eliminata ogni “liturgia” religiosa e “civile”, quell’evento si riduca ad una realtà banale che non pone problemi, non suscita sentimenti e soprattutto impoverisce ulteriormente la dignità e il significato del nostro vivere.

Una bella verità da ricordare sempre

La ditta di pompe funebri “Busolin”, condotta da due giovani e cari amici, qualche anno fa mi ha commissionato una riflessione sull’evento della morte.

Fui felice di collaborare, a motivo della mia stima e della mia riconoscenza, ma anche perché il mio apporto mi dava modo di dare una lettura religiosa a questo triste evento.

Mi accadde però un guaio di impostazione, in quanto avevo capito che mi si chiedesse qualche indicazione di ordine pratico circa questo evento, mentre questi due giovani titolari dell’impresa di pompe funebri avevano pensato ad un volume contenente una ricerca da parte di una psicologa ed un’altra da parte di un sacerdote a livello religioso.

Quando mi si mostrò il contributo della psicologa, dottoressa Gardenale – uno studio ben fatto – compresi che la mia impostazione era sbilanciata perché povera e limitata ad aspetti solamente pratici. Tentai di rimediare offrendo una antologia di immagini, come tessere, di forma e di colore diverso, quale mosaico che raffigurasse una lettura positiva del triste evento, illuminato dalla fede.

Il mio discorso si presenta quindi nel volumetto, non come un approfondimento teologico, dotto e specifico, ma con una serie di immagini semplici e soprattutto facilmente leggibili a livello popolare. Non passerò alla storia come un teologo insigne, ma mi accontento di essere accettato come un modesto catechista che spera di farsi ascoltare.

Il volume ha avuto e continua ad avere un insperato successo, tanto che se ne sono stampate e diffuse quindici-ventimila copie e continua ad essere richiesto.

Qualche giorno fa pensai che se mi fosse possibile oggi aggiungerei un’altra bella tessera al mosaico sulla vita nuova. L’immagine mi è stata offerta da un film trasmesso in occasione della morte recente del famoso attore Paul Newman. Il protagonista del film interpretato da questo attore, racconta la storia amara di un ragazzo sbandato della periferia di una metropoli americana che trova la “salvezza” nel pugilato. Dopo alterne vicende il protagonista affronta un match dalla cui riuscita è in gioco la sua vita e quella della sua famiglia. Vince con immensa fatica e, prima di annunciare la vittoria a casa, guarda il cielo stellato e pronuncia la frase che offre la chiave di lettura di tutto il suo dramma: «Lassù qualcuno mi ama!» Quando cito questo pensiero durante il sermone dei funerali, avverto che i miei fedeli sono quasi sollevati e rincuorati da questa bella verità.

Un gesto di pietà fra eccessi opposti

Non mi sono mai piaciute le manifestazione plateali del dolore per la scomparsa di un familiare. Dicono che nel meridione siano una costante.

Io non lo so. Mi è capitato una volta solamente, tanti anni fa, al tempo in cui era massiccia la emigrazione dal sud, di assistere ad una di queste manifestazioni durante un funerale che ho celebrato io stesso.

Un’anziana signora di Adrano, la quale era stata trapiantata di brutto nel nostro Veneto, assolutamente incapace della seppur minima integrazione, tanto che quando dovevo comunicare con lei, avevo bisogno della sua nipotina che mi facesse da interprete, durante il funerale, prima cominciò a singhiozzare forte, poi a lasciarsi andare in esclamazioni desolate, infine si sdraiò nel pavimento della chiesa a mani e gambe divaricate, in preda ad un parossismo irrefrenabile. Dovetti dire dall’altare che non avrei continuato la messa se non si fosse calmata.

Non credo che oggi nel sud succedano ancora tali comportamenti.

Ora però nel nord s’è passati al lato diametralmente opposto. Spesso la gente, quasi sempre poca, assiste al rito funebre imperturbabile, apparentemente assente, per fermarsi poi nel sagrato a chiacchierare lungamente in maniera disinvolta come fossero usciti dalla proiezione di un film piacevole.

Pare che sia morto il dolore, e sia pure morta la sacralità della morte!

Stamattina però, quasi sorpreso, ho assistito all’inumazione delle ceneri di un vecchio genitore. La giovane figlia portò lungo il viale in braccio, l’urna delle ceneri del padre, come cullasse il suo bimbo, con una delicata e calda tenerezza materna, baciò l’urna con immenso affetto prima che fosse collocata nel loculo.

Il volto era bello con un cenno di sorriso, gli occhi erano umidi di lacrime d’affetto, mentre attaccava un mazzolino di fiori all’urna cineraria.

Per fortuna nel nostro vecchio mondo resiste ancora il seme vero della pietà filiale.

Parlare al prossimo come se fosse l’ultima volta che lo si fa

La chiesa che ufficio da più di quarant’anni si qualifica soprattutto per la funzione del commiato.

Nella chiesetta tra i cipressi non si fanno battesimi, non si celebrano matrimoni, né prime comunioni né cresime. Al di fuori degli incontri festivi di questa comunità solo apparentemente raccogliticcia, io celebro spesso la funzione del commiato e sempre in questa occasione mi viene chiesto voce e cuore per dire al proprio caro che parte per il grande viaggio che lo porta alla casa del Padre, le parole belle che sono state dette poco o male e purtroppo talvolta non sono mai state pronunciate.

Lo faccio tanto volentieri, e mi sento talmente partecipe alla sofferenza e all’amarezza dei familiari, tanto che spesso mi commuovo anche in maniera sensibile.
Spesso la gente mi ringrazia per tutto questo.

Qualche giorno fa mi è giunta perfino una lettera di un’anziana signora che mi aveva chiesto di celebrare il funerale del marito, ma che non mi era stato possibile accontentarla perchè già impegnato per un altro commiato. Ebbene questa signora mi ringraziava perché nella triste occasione dell’ultimo saluto al marito, si è ricordata delle parole che spesso mi aveva sentito pronunciare in occasioni simili nella mia vecchia parrocchia.

Monsignor Da Villa in occasione della prima comunione dei bambini diceva loro: “Quando vi accosterete all’Eucarestia, fatelo come fosse la prima volta, l’unica volta e l’ultima volta!”

Chissà che non mi si ricordi per una frase analoga: “Quando parliamo con il nostro prossimo, facciamolo col tono, la convinzione e l’intensità che lo faremmo se fosse l’ultima volta che abbiamo la possibilità di parlare con quella persona!”

“La speranza non delude”

Qualche domenica fa, un gruppo di genitori, che purtroppo hanno in comune la morte precoce di un figlio giovane, mi hanno chiesto di essere ospitati al don Vecchi per una giornata di riflessione e di preghiera.

La cosa era possibile e ben volentieri li ho accolti.

Anche lo scorso anno, era avvenuta la stessa cosa, ma mentre allora erano tutti di Mestre e Venezia, quest’anno provenivano da tutti i paesetti e le cittadine dell’interland.

Il gruppo che incontro mensilmente nella chiesetta di San Rocco, aveva organizzato l’incontro di questa ottantina di genitori, relativamente giovani, che si aiutano con l’amicizia e con la preghiera a rimarginare la ferita mortale e a ritrovare un po’ di serenità e di pace.

Ha celebrato l’Eucarestia don Massimiliano, un giovane ed intelligente sacerdote che con parole calibrate e ricche di fede ha tentato di dare uno sfondo di speranza e di fiducia al dramma di questa povera gente. Al don Vecchi ci siamo fatti in quattro per offrire loro una accoglienza fraterna ed un pranzo confortante.

Oggi, tempo in cui i valori fondamentali e la fede si sono di molto appannati ed indeboliti sono molte le persone che colpite dal lutto, sentono il bisogno di trovare qualcuno che le aiuti ad elaborarlo.

Ci sono psicologi, che a pagamento, applicano le regole del mutuo aiuto, però sono convinto che solo la fraternità e la fede riescono a rimarginare la ferita e a leggerla con frate Francesco, il poverello di Assisi, in maniera positiva.

Andandosene essi mi hanno donato una palla intessuta da fragili fili argentati con una frase di S. Paolo: “La speranza non delude”.

L’ho appesa alla lampada sopra la scrivania per ricordare questi fratelli e per ricordarmi che la speranza è un dono grande del Signore!