Mi pare di aver capito che i problemi della vita hanno di certo una loro oggettività, però nel valutarli influisce in maniera notevole la psiche personale e lo stato d’animo con i quali si affrontano.
Faccio questa premessa volendo riflettere, tenendo ben conto della mia pochezza intellettuale, su un problema che pare interessi un po’ tutti, ma in maniera particolare il prete, perché su questo problema egli ha investito tutta la sua vita e che col tempo è divenuto il motivo e il supporto più importante della sua esistenza.
Eccovi quindi il problema: il domani di Dio, o meglio ancora, il tema del futuro della religione e della fede. Hanno un domani queste realtà o sono destinate, in tempi più o meno brevi, all’estinzione?
Ai tempi del sessantotto avevo affrontato e sofferto questo problema, ma ne ero uscito vittorioso. Allora i giovani cantavano, perfino in chiesa, nelle canzoni d’avanguardia: “Dio è morto”, però si intendeva la fine di un dio della reazione, del passato e di una religiosità arretrata che sopravviveva e si muoveva faticosamente, perché aveva mani e piedi legati dalla palla di piombo di una tradizione oscurantistica, reazionaria e formale! Tutti sappiamo com’è andato a finire il sessantotto; forse era solamente il dramma di una gioventù che si sentiva soffocata da norme, mentalità, ed autorità che non avevano intuito che la vita non sarà mai un fatto statico, perché la continua evoluzione è una legge connaturale all’esistere.
In questi ultimi tempi, poi, il divenire ha accelerato in maniera esponenziale i suoi ritmi, spiazzando un po’ tutti e in tutti gli aspetti della vita, scientifici, culturali, religiosi ed esistenziali.
Ora, però, questo problema mi pare mi si ripresenti come un fatto che coinvolge non solamente le generazioni emergenti, ma riguardi pure gli adulti e perfino gli anziani, che sono ancora “vivi” e non intendono giocarsi la vita senza pensare, indagare e discutere. Provo a riferire alcune esperienze e letture che hanno riacutizzato questa preoccupazione già presente nel mio spirito.
Recentemente ho letto una inchiesta sul domani delle religioni in “Il nostro tempo”, rivista di un circolo cattolico di Torino. In quel giornale, si riporta un’inchiesta condotta da gente intelligente ed obiettiva, che ha interrogato un numero quanto mai significativo di giovani dai 18 ai 35 anni su questa tematica e il risultato emerso è che il problema religioso per loro non esiste, perché ininfluente nella vita ed ormai insignificante.
Ai miei occhi di prete questa lettura è risultata alquanto agghiacciante.
Pochi giorni fa ho letto pure l’articolo di fondo de “Il Messaggero di Sant’Antonio” di settembre, rivista, che sotto il titolo “Omelia ai banchi vuoti della chiesa”, fa una analisi per me pressoché angosciosa, perché enumera il crollo delle vocazioni maschili e femminili, la chiusura di parrocchie, asili ed opere religiose per mancanza di personale.
Constatazione questa che è poi sotto gli occhi di tutti.
Ma voglio riferire su due altri dati, che mi sono stati offerti da persone più vicine, e l’impatto con queste considerazioni diventa più sentito, quando proviene da qualcuno che conosci e che è impegnato nel campo della pastorale. Mio fratello don Roberto, parroco di Chirignago, lascia trasparire una settimana si e l’altra si, sul suo periodico, la delusione e lo sconforto nel constatare che ragazzi, con i quali ha vissuto delle esperienze formative e religiose veramente forti, scompaiono dalla pratica religiosa e nella stragrande maggioranza non si sposano né in chiesa né in municipio. Leggendo gli scritti di don Roberto, prete convinto e ricco di intelligenza e di iniziativa, mi pare di avvertire il fiato grosso e la sensazione dello smarrimento e della fatica di tirare avanti!
In un numero di “Lettera aperta”, settimanale della parrocchia di Carpenedo, di un paio di settimane fa, don Gianni Antoniazzi, mio successore in quella parrocchia, ha infilzato come nello spiedo alcuni altri fatti, tra i quali: la chiusura del convento delle suore di clausura, perché le monache sono ridotte a due, l’annunciato abbandono dei frati antoniani della parrocchia del Sacro Cuore ed altre notizie ecclesiali poco esaltanti.
Infine ho letto nel bollettino parrocchiale di Santa Maria Goretti un corsivo di don Narciso, altro mio cappellano a Carpenedo, nel quale si annuncia in tono quasi trionfale il ritorno delle suore nella parrocchia; il guaio è che esse sono suore indiane, che cercano probabilmente l’America in Italia!
Mentre le ragazze italiane pare pensino ad altre cose piuttosto che alla religione.
Quale pensate possa essere il risultato nello spirito di un prete quasi novantenne di fronte a tutto ciò!?
Tutti potrebbero pensare che mi sento distrutto!
Invece no, proprio no!
Credo che questo crollo religioso sia solo, o quasi, apparente.
Sono convinto che solo dopo la morte c’è la resurrezione più bella, più sfavillante, e più preziosa. E’ successo così per Gesù, pietra angolare della nostra fede e così sarà anche per la nostra fede, siamo vicino all’alba di un nuovo giorno, questi per me sono i sintomi della primavera!
Gli uomini avranno sempre, prima o poi, la nostalgia della Casa del Padre.
Ricordate il figlio minore della parabola, sbatte in faccia di suo padre la porta di casa, “dammi ciò che mi aspetta”, “voglio vivere la mia vita”.
I fiori del male sono sempre smaglianti, però quando si trovò a doversi sfamare col cibo dei porci, disse: “Mi alzerò e tornerò da mio Padre”. L’uomo ha bisogno di Dio, nessuno gli potrà mai dare quello che solo Dio gli ha dato e gli da ancora.
Confesso, quindi, che, nonostante questi fatti assolutamente negativi, rimango sereno e essi, anzi, mi fanno guardare al domani con esaltante speranza, con felice certezza che andiamo, non verso il peggio, ma il meglio, il positivo.
Per quanto riguarda la religione, ossia quel complesso di pratiche, di istituzioni, di culture e di prassi di vita, sono ancor più sereno per quello che riguarda la fede.
Qualche giorno fa, preparandomi per il commiato di un concittadino, chiesi alla moglie se egli fosse stato praticante?
Ella, con onestà, mi rispose che di certo era credente, ma non praticava, però viveva da vero cristiano; e che cosa di diverso possiamo desiderare noi preti?
Don Gino, uno tra i migliori collaboratori del mio passato di parroco, si doleva nel suo periodico perché una coppia dei suoi ragazzi, felice e positiva, non s’era sposata in chiesa; leggendolo mi sono detto: “E’ più importante un matrimonio con la corsia e la marcia di Mendelssohn, o una coppia di giovani felici che vivono con ebbrezza il meraviglioso dono dell’amore?
Io, vecchio prete, opto per questa seconda ipotesi!
Concludo dicendo: non vorrei che qualcuno mi pensasse un nuovo Martin Lutero che affigge le sue tesi contro la Chiesa; rimango invece un povero prete che cerca il bene vero.
In questo versante mi pare di vedere, in lontananza, una luce tenue, luce che ci garantisce una uscita da questo tunnel, il quale preoccupa giustamente vescovi, preti e credenti.
Per me, oggi più che mai, la fede ha un domani!