La bella iniziativa di Famiglia Cristiana che fa conoscere il messaggio dei profeti del nostro tempo!

L’iniziativa editoriale di “Famiglia Cristiana” credo che sia ottima: ripresentare il messaggio forte e coraggioso dei maggiori “profeti”, “religiosi” e “laici” del nostro tempo. Ritengo questa scelta quanto di più opportuno potessero fare i discepoli di don Alberione.

Il nostro tempo non sa proprio che farsene degli annunci, dei programmi e delle proposte dei riformatori di piccolo rango che la politica, la sociologia, la psicologia e perfino la “Chiesa strutturata” rilanciano un giorno si e un giorno si. Sono proposte fumose, inconsistenti e marginali, che stanno dimostrandosi, ogni giorno di più, fatue ed inefficaci.

Al capezzale del “grande ammalato” possono oggi dire una parola autorevole solamente i santi, i testimoni e i profeti che hanno il coraggio di proporre le grandi utopie della solidarietà, della speranza, del coraggio e della fede.

L’uomo di oggi è saturo e nauseato di “riformette” di leggine e di riforme che assomigliano tanto alla “toppa apposta al vestito logoro” o al “vino nuovo in otri vecchi”. Sono soluzioni che anziché risolvere i problemi finiscono per aumentare lo scoraggiamento, la nausea e la disperazione sociale.

Famiglia Cristiana – spero più per motivi ideali che per un’operazione di marketing – sta allegando ogni settimana alla rivista il messaggio vivo e palpitante, ricco di coraggio e di speranza, dei maggiori profeti del nostro tempo, da Gandhi a Papa Giovanni, da Martin Luther King a Madre Teresa di Calcutta… Ogni volume, che è pressoché donato, rappresenta una sorgente fresca e viva, la “fontana del villaggio”, in cui ognuno può trovare risposta ai bisogni più veri del suo spirito.

Al momento in cui butto giù queste note, ho tra le mani il grosso volume di un’autobiografia di Madre Teresa di Calcutta. La sua testimonianza di amore assoluto, disinteressato, alle creature fallite, sommerse dall’egoismo e dalla prepotenza del nostro tempo, mi mette in crisi e, quasi prendendomi per il bavero, mi fa capire che solamente questo tipo di amore potrà salvare l’uomo dal baratro del nichilismo.

Sono quasi tentato di dire ai miei fedeli: «Ascoltate le voci forti, i messaggi luminosi di questi uomini di Dio, piuttosto che i miei sermoni stinti e di corto respiro!».

La mia vecchia comunità sta imboccando la strada giusta

Mosè, a causa del suo dubbio sulla parola del Signore, non poté arrivare nella Terra Promessa, quella terra nei cui fiumi – avevano detto i messaggeri di Israele – “scorrevano latte e miele”.

Mosè non vi mise piede, però dall’alto del monte scorse quella terra che per mezzo secolo il suo popolo aveva sognato e dove fra poco avrebbe trovato la sua patria.

Questa mattina (so che quando uscirà questo numero de “L’incontro” saranno passate diverse settimane) ho appena letto sul Gazzettino che a metà ottobre la diocesi designerà come presidente della fondazione che governa i Centri don Vecchi, il giovane parroco di Carpenedo, don Gianni Antoniazzi.

A me fa piacere intravedere una comunità cristiana che finalmente recuperi tutte le sue dimensioni e potenzialità e si presenti alla città e al nostro tempo con il volto, le scelte e lo stile di vita che il Maestro Gesù aveva ipotizzato e progettato: una fede robusta che fa sentire alla comunità d’essere un popolo che cammina sotto lo sguardo del Padre e nello stesso tempo un popolo che procede tenendosi per mano, non abbandonando nelle anse del vivere relitti che non riescono a tenere il passo dei più forti.

Ho sempre sognato ad occhi aperti e mi sono speso senza risparmio perché fede e solidarietà fossero le due coordinate che facessero il punto ove realmente e sicuramente la parrocchia può incontrare il Signore. Un’utopia del genere non si realizzerà mai compiutamente, ma è già molto se si sceglie lucidamente di camminare verso di essa.

Ho la sensazione che la mia vecchia comunità stia imboccando la strada giusta e stia iniziando un cammino concreto e coerente, abbandonando discorsi ferruginosi ed estranei alla vita e alla storia reale del nostro tempo.

Io so che non potrò fare un granché perché questa comunità cammini con passo forte e sicuro verso questa meta e perciò mi riservo il ruolo di Mosè che prega con le braccia alzate perché i più giovani del nostro popolo combattano con coraggio, confrontandosi col mondo senza complessi di inferiorità o di superiorità e camminando sicuri verso il domani, consapevoli di dare volto al progetto del Signore.

Mandare i preti “a bottega” per formare parroci concreti e coraggiosi

E’ una legge sicura del mercato quella di investire il proprio denaro su titoli solidi e promettenti. Questo discorso vale per l’economia, ma vale pure per le parrocchie e soprattutto i parroci. Ove ci sono dei parroci coscienti d’essere i portatori, nella nostra società, del messaggio più valido, che credono che l’Evangelo di Cristo è valido oggi come lo era dieci o venti secoli fa, ove ci sono parroci che hanno imparato  a spendersi senza risparmio, là normalmente vi crescono comunità cristiane attive, vivaci e numerose.

Oggi ho l’impressione che la preparazione dei preti sia piuttosto teorica, verbosa, poco ancorata alla realtà della vita, soprattutto priva di esperienze concrete in cui essi possano verificare sul campo la possibilità di “far fiorire il deserto”, cioè di avere comunità vive ed efficienti nonostante il vento contrario, quali il relativismo, il consumismo e la secolarizzazione.

Credo che sia assolutamente necessario che i preti “vadano a bottega”, ossia che si formino all’interno di parrocchie coraggiose e coi piedi per terra.

Papa Luciani, quando era Patriarca di Venezia, mi confidava di voler attuare un progetto in linea con queste idee: voleva creare tre o quattro comunità con dei parroci molto validi e far passare per queste comunità tutti i giovani preti, perché si rendessero conto che è possibile quello che i pavidi, gli imboscati e i burocrati dicono ormai impossibile. Oggi constato che i giovani parroci, migliori in assoluto, sono quelli che han fatto esperienza in parrocchie guidate da parroci coraggiosi e coerenti.

Nella mia lunga esperienza di parroco incontrai un cappellano che affermava che oggi i ragazzini sono talmente impegnati che non è più possibile si impegnino anche nelle attività parrocchiali. Volli dimostrargli quanto fosse sbagliato il suo modo di pensare. Mi misi d’impegno e in pochi mesi gli presentai un gruppo di 100 chierichetti.

Anche nella pastorale necessitano maestri d’ascia, capomastri che posseggano “il mestiere” e lo trasmettano ai “garzoni della bottega”.

Il concepimento del don Vecchi e quella bistecca fiorentina…

L’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto e le promesse per il “don Vecchi” quinto, ossia quello che stiamo progettando con la Regione e che dovrebbe rappresentare un ulteriore passo in avanti, cioè il tentativo di mantenere nel proprio domicilio anche gli anziani che stanno perdendo decisamente l’autonomia a livello fisico, mi ha portato in questi ultimi tempi a ricordi ormai lontani.

Una ventina di anni fa, stavo faticosamente mettendo a fuoco nella mia mente il progetto che doveva permettere all’anziano di non essere costretto al ricovero in un ospizio, o alla amarezza di dover mendicare dai figli denari per sopravvivere o essere condannato alla solitudine in condomìni anonimi. Sennonché lessi con curiosità su “Famiglia Cristiana” che a Lastra a Signa, presso Firenze, avevano trasformato una casa di riposo in una specie di condominio per anziani.

Convinsi l’architetto Renzo Chinellato, che a quel tempo tentava di tradurre in un progetto le mie fantasticherie, ad andare nella lontana Toscana per vedere come stavano le cose. Scoprimmo il prototipo, in verità assai rozzo, anche perché risentiva di un adattamento, ma l’idea c’era tutta. Soprattutto mi accorsi che i residenti avevano un volto più sereno di quello di tutti gli ospiti delle case di riposo che avevo visti fino ad allora.

Il prototipo fu perfezionato, ingentilito, reso signorile a livello abitativo e più accessibile a livello economico e ne venne fuori il “don Vecchi” che risultava quale una “mercedes” in confronto alla “Balilla” di Lastra a Signa.

Il ricordo mi rimase però nel cuore come un’esperienza bella e positiva, suppongo anche per il fatto che l’architetto mi offrì il pranzo in una locanda di campagna in cui mangiammo pasta e fagioli e la bistecca fiorentina. Mi par di sentire ancora il profumo del braciere in cui danzavano le fiamme di legna dei boschi toscani e il gusto ineguagliabile di quel ben di Dio che è la bistecca di Firenze! Ne mangiai mezza, ma me ne sarebbe bastata un quarto per saziarmi e per sentire quanto era buona. La festa per il concepimento del “don Vecchi” non poteva essere più affascinante.

Tornammo a casa entusiasti, quasi illusi che nel “don Vecchi” ci sarebbe stato un caminetto con una enorme bistecca a rosolare sulla graticola. In realtà oggi ci dobbiamo adattare al menù del Catering Serenissima, ristorazione nella quale non è prevista la bistecca fiorentina!

Una pioggia che si sta facendo diluvio…

Sto vivendo la stagione in cui le persone ricordano con dolcezza e nostalgia le cose lontane ed invece, dopo un forte impatto con quelle attuali, queste ultime le dimenticano in un battibaleno. Forse vivo più intensamente a livello emotivo i ricordi che le esperienze quotidiane, perché mentre le prime mi accompagnano con soavità interiore, le seconde passano come meteore per scomparire presto e definitivamente.

Qualche giorno fa m’è giunta la notizia che un altro dei protagonisti della vita nella parrocchia dei miei tempi è all’ospedale con una prognosi un po’ preoccupante. In questi ultimi mesi se ne sono andati alcuni dei miei collaboratori più vicini e più impegnati; ora altri sono in condizioni precarie.

Queste notizie e questi eventi mi hanno fatto ricordare, per una strana associazione di idee, un cartone animato che per la gente della mia età è ormai un classico nella storia del cinema: Bambi. Il cartone animato di Walt Disney racconta le avventure di un cerbiatto che si affaccia alle prime esperienze della vita. Una storia narrata con immagini e suoni soavi, struggenti, dense di poesia e di capacità di coinvolgere e suggestionare gli spettatori. Ricordo il particolare della pioggia nel bosco a primavera: una goccia che scende come una perla dal cielo e fa vibrare una nota del pianoforte, poi una seconda, una terza e poi un crescendo continuo, così che tutte le note s’accavallavano in un turbinio torrenziale di suoni.

Non so perché, ma ad ogni triste notizia della partenza per il Cielo dei vecchi della mia età, ho la sensazione che la caduta di gocce che scendono attorno a me stia diventando sempre più frequente e presto diventerà la gran pioggia che avvolge tutto il vecchio bosco per preparare il giorno nuovo e la nuova stagione. Ho l’impressione che queste partenze, sempre più frequenti e sempre più numerose, finiscano presto per coinvolgermi in quel diluvio che spazza via le foglie secche, i rami fragili, i fiori sfioriti, per preparare la nuova primavera del bosco.

Prego ogni giorno di più il Signore perché mi prepari al passaggio in questa cornice di dolce speranza e mi faccia accettare con serenità e naturalezza questo rinnovarsi della vita come un fatto naturale e positivo.

Storia di un “invito a nozze”

Confesso: non so se sia una tentazione maligna o, finalmente, un lampo di onestà. E’ successo qualche settimana fa quando, su mandato del Consiglio di Amministrazione che mi ha incaricato di invitare, secondo la prassi, “le autorità civili, militari ed ecclesiastiche” per l’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto, ho trovato qualche difficoltà a reperire un elenco di tutti i notabili che normalmente si invitano in queste occasioni. Allora m’è venuta la “tentazione” (ma, ripeto, non ho ancora capito se sia stata tale o sia stata una “ispirazione del Cielo”) di mandare ai giornali e alle televisioni locali il testo della parabole evangelica dell'”invito a nozze”.

Tutti ricordano quel re che desiderava che le persone più ragguardevoli del paese partecipassero alle nozze del figlio, nozze che egli aveva preparato con tanta cura ed amore. Purtroppo i notabili di allora, con una buona dose di ipocrisia, si scusarono e lasciarono cadere l’invito: “ho preso moglie e perciò abbimi per iscusato, ho comperato un paio di buoi, devo andare a vedere i campi, ecc.” Quel re, deluso e sdegnato, mandò l’invito a ben altre persone, dicendo ai suoi servi: «Andate per le strade, nei sobborghi, raccogliete i poveracci, gli storpi, gente che non conta, e fateli venire alle nozze di mio figlio».

A suo tempo avevo invitato la Regione, la Provincia, il Comune, gli industriali, la Camera di Commercio, le banche, i ricchi di Mestre a partecipare alla nobile impresa di far festa agli anziani, offrendo loro una dimora confortevole. Nessuno, proprio nessuno ha partecipato neppure con un euro. Mi sono rivolto allora ai poveri, ai mestrini e agli extracomunitari, che non si possono permettere non solo di andare per gli acquisti alla boutique, ma neanche in negozio, e perciò vengono al “don Vecchi” ai magazzini “San Martino”.

Loro hanno risposto a centinaia, a migliaia, con i loro spiccioli – cinquanta centesimi, un euro, cinque euro – e con questi contributi della Mestre povera ed emarginata abbiamo costruito il “don Vecchi” di Campalto.

La mia “tentazione”, o la mia “illuminazione” era quella di dire ai giornali e alle televisioni: «Invitate a nome mio i più poveri, i mestrini che non contano, le moldave, le donne ucraine, le badanti, perché chi aveva soldi s’è “scusato” a causa della crisi, mentre i poveri hanno risposto a migliaia. Sono quindi questi ultimi che meritano d’essere invitati “a nozze”, ossia all’inaugurazione.

Gesù ci chiede di contribuire all’avvento di una società giusta e onesta!

Forse “ho scoperto l’America” in ritardo! O forse sono arrivato ad una verità già scontata da tanto tempo da qualcuno più intelligente di me, ma per me è stata una bella e luminosa realtà l’interpretazione di una certa parabola di Cristo.

Qualche domenica fa, nel mio sermone domenicale, ho commentato la parabola che racconta come un certo imprenditore agricolo abbia assunto operai, a varie ore del giorno, dal primo mattino fino al tardo pomeriggio, per mandarli a lavorare “nella sua vigna”. Pattuisce con i primi una certa somma, che essi accettano di buon grado, ma al momento di dare la retribuzione questi si meravigliano e si adombrano perché dà la stessa paga anche agli ultimi assunti nel tardo pomeriggio.

Da quando faccio il prete, e sono ben 56 anni, che sento i sacerdoti arrancare per giustificare quel padrone che, senza veli, rappresenta il buon Dio, per il suo “atteggiamento antisindacale”.

Di primo acchito ho provato anch’io questa tentazione, ma quasi subito sono “stato folgorato” da un altro aspetto che mi è parso più vero e più ricco di fascino. L’assunzione a “lavorare nella vigna” avevo pensato, in passato, che si riferisse all’impegno per realizzare il Regno di Dio, ossia il raggiungimento della salvezza eterna, o almeno l’affermazione della Chiesa nel mondo.

Mentre quest’anno mi par d’aver capito che “il Regno” corrisponde esattamente e realmente a quel tipo di società giusta, onesta, pacifica, libera che noi tutti sogniamo, perché delusi o schifati dal mondo in cui viviamo. Gesù quindi ha invitato tutti, proprio tutti – da quelli chiamati fin dalla prima infanzia a quelli che incontrano Dio in tarda età – ad impegnarsi e a lavorare per l’avvento di quella società di cui sentiamo il bisogno, ma che invece incontriamo corrotta, piena di intrallazzi, prepotenze ed egoismi. M’è parso di capire che Gesù invita ad uscire dal proprio guscio, dai propri interessi famigliari e personali per aprirci al mondo della “politica”, ossia all’impegno superpersonale, il quale si preoccupa del bene dell’intera società.

M’è parso affascinante questo invito di Cristo a purificare e vivificare la politica dello spreco per renderla più pulita, sana, bella ed alta, attraverso l’apporto di tutti coloro che, prima o poi, “scoprono” la validità della proposta di Cristo.

Non so se sia riuscito a passare questa lettura più esistenziale della parabola, ma se questo non è avvenuto non è stato perché io dubitassi della sua validità, ma purtroppo perché credo di essere stato un po’ impacciato nel porgere la “nuova lettura” del discorso di Cristo.

Cinque modesti “perché?”

Chissà se le persone più giovani, più colte e più introdotte nella nostra società, riescono a capire ed accettare quello che avviene attorno a noi e a dare una lettura intelligibile ai comportamenti di certi personaggi e di certe frange della nostra società che per me rimangono assurdi e incomprensibili.

Non ho capito perché, a motivo della nuova linea ferroviaria ad alta velocità, giovani dei centri sociali d’Italia e d’Europa scatenino la guerriglia, rovinino il cantiere e soprattutto mettano in pericolo la vita dei poliziotti – “proletari in divisa”, direbbe Pierpaolo Pasolini – che non decidono nulla e prendono invece le botte per decisioni altrui, perché han trovato un modo di guadagnare il pane per sé e per le loro famiglie.

Non ho capito perché altri cittadini se la prendano con i ciclisti che, un po’ per spirito sportivo, ma soprattutto in vista di un guadagno, corrono innocentemente per le strade del “Lombardo-Veneto” che Bossi ha ribattezzato col nome di “Padania”.

Non ho capito perché a Roma, davanti al Parlamento, gli stessi soggetti provochino una guerriglia urbana, mentre nell’aula del Parlamento hanno Vendola, Di Pietro che li rappresentano e che espongono le loro ragioni.

Non ho capito perché a Venezia, presso la stazione di Santa Lucia, una volta ancora gli aderenti ai Centri Sociali, in perfetto assetto da combattimento e secondo le strategie più aggiornate messe a punto dal fondamentalismo islamico, se la piglino con i poliziotti per via dei nuovi riti inventati da Bossi e dalle sue camicie verdi.

Non ho capito perché Bettin e Beppe Caccia, noti politici della nostra città, persone che io stimo per il loro impegno civile e per la loro coerenza, diano copertura morale al centro sociale “Rivolta”, che è in prima linea, con Casarini, in questa sortita contro la polizia. Se gli aderenti dei centri sociali se la pigliassero contro i politici e gli amministratori responsabili delle decisioni sulla vita del Paese, non condividerei il metodo nel dissentire, ma capirei in qualche modo il loro comportamento.

Tanti benpensanti si chiedono il perché su problemi religiosi ed esistenziali molto più complessi, mentre non abbiamo ancora trovato risposta a questi “perché?” più modesti ed accessibili.

La nostra società spesso è terribilmente assurda, mentre con un po’ di onestà e di coerenza in più potremmo spazzare il campo dai motivi che fanno spuntare questi “perché”.

Che squallida quella visione dell’amore!

Su Rai uno, dalle 14,30 alle 15, viene trasmessa una rubrica dal titolo “Ultimo giudizio”. La trasmissione è condotta da una “giornalista-attrice” quanto mai brillante, ma dai criteri che si rifanno al pensiero corrente, umanamente abbastanza accettabile, non però sempre in linea con i valori cristiani. La trasmissione si rifà ad un tipo di tribunale “sui generis” in cui compaiono ogni giorno due protagonisti che si appellano al giudizio di un giudice togato e a quello di una giuria popolare, assistiti, ognuno, da un avvocato brillante che perora la causa dei relativi assistiti. La giuria è presieduta da qualche personaggio celebre nel mondo della televisione.

Ogni giorno viene praticamente discussa la richiesta di separazione a motivo delle infinite patologie famigliari e coniugali. Non ho capito quanto ci sia di finzione scenica e quanto di reale in tutti questi “processi”. I motivi di contrasto però sono sempre verosimili e rispecchiano gli infiniti malanni di cui soffre la nostra società.

La trasmissione corrisponde esattamente al momento della mia siesta pomeridiana, per cui, rubando un po’ di tempo al riposino ed un po’ all’inizio del mio lavoro pomeridiano, mi lascio tentare per tastare ancora una volta “il polso” dell’opinione pubblica del mondo in cui vivo.

Qualche giorno fa sono stato particolarmente colpito dalla causa tra marito e moglie a causa della figlia. La ragazza di 25 anni, laureata, trova lavoro da segretaria presso un’azienda, il suo principale settantenne, pluridivorziato, s’invaghisce dell’avvenente segretaria, ne fa la sua amante e la promuove ad una mansione notevole con stipendio di cinquemila euro al mese. Il padre, dai princìpi ferrei, scopre la tresca e di fronte ad una plateale sfida della figlia che sbatte in faccia al padre una busta paga che lui, a fine carriera, neanche se la può sognare, le chiude la porta di casa. La madre, invece, protegge il successo lavorativo e sentimentale della figlia.

Ho aspettato con estrema curiosità ed apprensione il giudizio della giuria e, con mio grande stupore ed amarezza, ho appreso che la giuria, con ampia maggioranza, ha dato ragione alla madre, oca giuliva.

Mentre chiudevo il televisore, ho pensato che possibilità può riscuotere la mia proposta di amore pulito, sano, responsabile a fronte di quello zoppo, interessato, irresponsabile presentato in maniera certamente più brillante di quanto io riesca a fare? Poi, con amarezza, ho concluso che anch’io, pagando il canone della televisione pubblica, ho contribuito a proporre questa squallida visione dell’amore!

La logica della “non violenza”

Ho constatato, durante la mia lunga vita, che non serve agitarsi tanto per dare senso e significato al nostro vivere quotidiano, al nostro bisogno di dare qualità alla vita, di trovare soluzioni ed orientamenti al nostro vivere. Ci pensa la Provvidenza!

In quest’ultimo tempo sono profondamente turbato per la violenza che si è scatenata nel mondo e che i mass-media ci mettono sotto gli occhi da mattina a sera: dalla guerra in Iraq a quella in Afghanistan, al terrorismo promosso dal fondamentalismo musulmano, alla ribellione dei paesi africani che si affacciano sul Mediterraneo.

Di fronte a questo imbarbarimento, alla violenza bruta e alla sofferenza di tanti popoli, rimango letteralmente paralizzato, impotente e sconfortato, senza idee e senza alcuna possibilità di reagire.

Come ho già detto nei miei diari di lunedì e martedì scorso, la Provvidenza – almeno secondo me -, ha suggerito alla direzione di “Famiglia Cristiana”, il periodico dei Paolini, di allegare ogni settimana al giornale un volume testimonianza dei “profeti” dei nostri giorni. Fino al momento in cui scrivo queste povere riflessioni è uscito, a costi veramente irrisori, un volume su Gandhi, uno su Martin Luther King ed un altro ancora su papa Giovanni, i testimoni più credibili del nostro tempo sulla “non violenza”, ossia sulla dottrina di combattere il male, la cattiveria e il sopruso non con la forza, ma con l’amore.

Questi volumi, di tiratura economica e popolare, sono semplicemente meravigliosi, perché contengono non la vita e il pensiero descritto da autori anche brillanti, ma riportano direttamente ed integralmente le riflessioni, i discorsi e gli scritti di queste splendide persone che il buon Dio ci ha inviato per darci, nella lingua che è parlata e compresa oggi, un discorso innovativo e risolutivo nei rapporti umani.

Oggi la scelta della non violenza è l’unica soluzione che rompe la spirale dell’odio e della contrapposizione della forza, la quale non genera che rovine e morte.

E’ vero che due di questi profeti sono stati uccisi vittime della nobiltà del loro annuncio, comunque essi han messo le premesse perché il mondo pian piano accetti questa nuova logica nei rapporti umani. Logica che fa del non violento il più forte, il più coraggioso e il vincitore.

Ringrazio Dio di avermi fatto ritrovare, in questo momento così cruciale, questi testimoni e farò di tutto perché il numero più grande possibile dei miei concittadini li possano incontrare.

“Il villaggio di Cartone” di Olmi: un monito che la Chiesa non deve lasciar cadere!

Un tempo, quando mi occupavo di Radiocarpini, una delle mie utopie rimaste “incompiute”, mi interessavo quanto mai della Mostra Internazionale del Cinema che ogni anno si tiene all’inizio dell’autunno. Mi ricordo le difficoltà per ottenere il pass per la stampa, perché la nostra emittente non era granché considerata tra i mezzi di informazione. Comunque avevamo il nostro inviato speciale e vari servizi sull’avvenimento.

Ora il mio interessamento è alquanto diminuito, non essendo un patito del cinema, soprattutto perché i servizi della stampa locale, che io seguo un po’, sono sempre infarciti di pettegolezzi sulle dive e sugli attori del momento, spesso eccentrici, montati e superficiali. Quando però la stampa ci ha informato del film fuori concorso di Olmi, il vecchio regista, tra i pochissimi di matrice religiosa, le mie orecchie si sono d’istinto rizzate per capire l’evoluzione del pensiero di quest’uomo di grande spessore umano e religioso.

Ho letto con estremo interesse la critica del suo film “Il villaggio di Cartone” e le interviste che i nostri giornalisti gli han fatto in occasione della proiezione di questo suo film e del Leone d’Oro che gli è stato attribuito per la carriera. La trama del film è quanto mai emblematica: una parrocchia che si “spegne” per mancanza di fedeli, viene spogliata di ogni ornamento e il vecchio parroco, desolato perché viene privato del perché della sua vita, che si sente quasi perduto. Poi la rinascita nella povertà e nell’accoglienza dei nuovi fedeli che giungono da ogni parte del mondo fanno rifiorire la comunità di uomini che ringraziano e chiedono aiuto al Signore.

La “parabola” di Olmi è quanto mai chiara e suona come una denuncia nei riguardi di una Chiesa che si è rifugiata nei riti, nell’ornato e nell’apparato, ma che ormai è priva di linfa vitale, quasi una fonte che si è disseccata e che non è più la “fontana del villaggio” di cui parlò papa Giovanni, alla quale tutti, credenti e meno credenti, possono attingere, dissetarsi e pulirsi.

Leggendo la critica sul film di questo grande regista, m’è venuta l’angoscia che anche questo monito, che ci viene dalla cultura e dal mondo dell’arte, non rimanga inascoltato, lasciato cadere come tanti altri moniti e richiami che ci giungono.

I copti, fratelli di Fede con una religiosità da cui prendere esempio

I cristiani di rito copto, che numerosi abitano a Mestre e nell’interland, non disponendo di un luogo di culto nel quale celebrare la liturgia secondo il loro rito antico, hanno acquistato un terreno a Campalto, adiacente alla nuova struttura del “don Vecchi”, per costruirvi una chiesa.

Questi fratelli di fede, che non chiedono nulla a nessuno e si muovono, a livello finanziario, in maniera totalmente autonoma, da ben diciassette anni, aspettano dal Comune il permesso a costruire la loro chiesa, che potrà fungere anche da punto di riferimento per questi nuovi concittadini che vivono e lavorano nella nostra terra.

A tutt’oggi non hanno ancora ottenuto la concessione edilizia. Questo è ancora una volta, scandaloso! E per quanto riuscirò, farò di tutto per aiutarli a superare questa ignominia!

Ebbene, questi cristiani, che fanno onore alla fede che professano, ci hanno messo a disposizione un vasto terreno perché potessimo impiantare il cantiere, non pretendendo e non accettando alcun compenso.

Ho avuto modo di incontrare in questi giorni l’imprenditore, un cristiano copto egiziano, che cura gli aspetti amministrativi della loro comunità, il quale mi ha offerto una stupenda testimonianza di fede e di carità cristiana, dicendo che il loro vescovo e la loro comunità erano ben felici di collaborare con noi, che ci riconoscono fratelli di fede. Mi ha poi commosso il fatto che il vescovo, che non ho ancora mai incontrato personalmente, mi abbia fatto recapitare una icona in segno di amicizia e di fraternità.

Ho notato in questa gente una fede viva e autentica ed un abbandono nel Signore che mi hanno veramente edificato.

Questo incontro e questo comportamento mi hanno costretto a domandarmi come mai gente di altri popoli e di una Chiesa seppur “sorella”, ma distaccata dalla comunione con Roma, testimonia una fraternità ed una fede così coerente, mentre cristiani della mia Chiesa han fatto di tutto per mettermi il bastone fra le ruote in questa impresa di solidarietà.

Una volta ancora tocco con mano che la religiosità occidentale è inquinata fin nelle sue falde più profonde da un formalismo rituale che non ha proprio nulla a che fare col messaggio di Gesù.

Le nomine nella Chiesa ed il ruolo dei fedeli laici

Nei foglietti parrocchiali, che ricompaiono finalmente negli espositori delle chiese dopo le ferie estive, c’è poca “polpa”. Spesso contengono solamente orari, i santi della settimana, qualche pezzetto di “Gente Veneta” e nulla più. Fortunatamente ve ne sono alcuni che si discostano un po’.

Spesso ho citato “La Borromea” di San Lorenzo, “Servizio e comunità” del viale San Marco, “Il foglio” di San Lorenzo Giustiniani. Non ho invece mai fatto cenno, come merita, al foglio della parrocchia di San Paolo di via Stuparich, il direttore del quale è don Franco De Pieri.

Il foglio di don Franco, che di rado mi capita sottomano, a cominciare dal titolo “Già e non ancora”, dalla impostazione grafica e soprattutto per il contenuto, è un po’ particolare. Gli articoli sono spesso prolissi, e forse anche più aggrovigliati dei miei, che è tutto dire! Comunque don Franco è un prete intelligente ed appassionato del suo “mestiere”, perciò non parla mai a vanvera e il nucleo del discorso, che spesso naviga in un mare di parole e di concetti, è sempre valido.

Recentemente l’ex parroco di San Lorenzo Giustiniani ha riportato nel suo settimanale un articolo di “Già e non ancora” che, pure sfrondato e ridotto, rimane tanto lungo, a cominciare dal titolo un po’ enigmatico: “I segni sono segni – ed ognuno li può leggere come vuole”, al contenuto, tanto aggrovigliato, in cui mi è parso di cogliere due verità interessanti.

La prima: se a San Lorenzo Giustiniani è nato tutto un parapiglia perché non volevano che don Gianni fosse trasferito, è “segno” che don Gianni ha ben meritato e s’è fatto stimare dalla sua comunità; e questo non è poco e va a merito di questo giovane parroco.

La seconda, più corposa ed importante mi interessa quanto mai: oggi si fa un gran parlare della dignità e della corresponsabilità dei laici, del loro ruolo essenziale nella Chiesa, eppure dai fatti più recenti ciò non risulta. Il patriarca Scola va a Milano, chi verrà nessuno lo sa, don Barlese l’hanno trasferito in curia, don Antoniazzi a Carpenedo, don Favaretto a San Lorenzo Giustiniani. E la comunità ecclesiale che ruolo ha avuto?

Al massimo la sorpresa di questi misteriosi cambiamenti operati nel segreto più assoluto nelle stanze dei bottoni. E il popolo di Dio? E gli organismi ecclesiali? So quanto sia difficile coinvolgere, però non bisogna rimangiarsi in pratica ciò che si proclama dalle cattedre. L’onestà, la coerenza e la credibilità sono pretese anche in alto, nonostante tutti i carismi e le grazie di Stato, come si diceva un tempo.

La Chiesa, sulla strada della fiducia nello Spirito Santo e nel Popolo di Dio, si muove in maniera ancora goffa e incoerente. Credo che sia bene che i cristiani come i loro capi, lo sappiano e ne tengano conto.

Don Franco termina il suo lungo articolo con parole di ammirazione ai fedeli di San Lorenzo Giustiniani perché hanno offerto alla Chiesa veneziana “un segno” di comunione col loro parroco, un segno che a mio parere, a differenza di don Franco, credo non si possa leggere come ognuno vuole, ma nel suo significato reale: don Gianni si è fatto stimare ed amare dalla sua gente!

Il prezzo delle scelte

Quante e quante volte, trovandomi solo, fuori dal gregge, a ribellarmi a provvedimenti o a situazioni che non ritenevo e che, anche oggi, non ritengo giuste e rispettose delle attese e delle esigenze dell’uomo, non m’è venuto il dubbio di essere un bastian contrario preconcetto o un illuso o uno fuori dalla logica e dalla storia.

Quante volte non sono stato cosciente che le mie prese di posizione, dettatemi dalla mia coscienza, non sarebbero state efficaci, nessuno ne avrebbe tenuto conto e non avrebbero inciso per nulla sull’andamento del mio piccolo mondo e, peggio ancora, del macrocosmo in cui vivo. Eppure sentivo che non potevo accettarle, perché contrarie alla sostanza del messaggio cristiano e perfino nell’essenza di quella che noi riteniamo essere la nostra civiltà.

Spesso mi sono trovato solo, emarginato e giudicato male dalla stragrande maggioranza dei miei concittadini e fratelli di fede. Superiori, colleghi o inferiori hanno tirato dritto, senza neppure tenere in minima considerazione le mie opposizioni e i miei rifiuti, anzi mi hanno fatto pagare il costo del mio non allineamento. Mi ritrovo, infatti, con quello che io ritengo il mio semplice ma glorioso “don”, mentre quasi tutti s’aspetterebbero, alla mia età, quel “monsignore” che ritengono un titolo di merito, mentre io lo guardo con sufficienza da uomo libero, nel senso pieno del termine.

In questo tempo sto leggendo i sermoni di Martin Luther King e nel secondo della serie riportata nel volume mi ritrovo, fortunatamente per me, in linea con questo profeta del nostro tempo. Egli parla del “non conformismo pacifico” come di un dovere di coscienza, come un imperativo categorico per servire con onestà l’uomo e la nostra società.

Man mano che procedo nella lettura e che continuo a sottolineare, capisco che non mi resta che suggerire agli amici la lettura del testo originale, perché troppo intelligente e pregnante di onestà e di saggezza umana, religiosa e civile.

Martin Luther King è stato un gigante nel non scendere al compromesso, nel non essere conformista, mentre io mi ritrovo ad essere un piccolo uomo, ma le parole di questo testimone che mise in ginocchio “il buon senso” dei bianchi d’America, mi giunge come una carezza, una parola di conforto, un incoraggiamento a non arrendermi mai per convenienza. Atteggiamento che, pur non mandandomi in prigione come successe a lui, mi condanna spesso alla solitudine ideale e alla emarginazione ecclesiale.

Le bellissime parole cristiane di Martin Luther King!

Quando penso all’educazione che ho ricevuto da bambino in rapporto ai protestanti, mi viene da rabbrividire. Per molti anni ho pensato a questi cristiani, che in maniera opportuna o meno hanno sognato e tentato di rinnovare la Chiesa riportandola alla freschezza e alla coerenza delle origini, come a dei ribelli, indegni e traditori, non solo arrossisco, ma rinnego quasi i miei educatori.

“Famiglia Cristiana” ha realizzato una splendida iniziativa editoriale e di grande valenza religiosa, allegando ogni settimana ad un costo veramente irrisorio, un volume di uno dei profeti del nostro tempo. Ha cominciato con Gandhi, ha continuato con Martin Luther King, per proseguire con le magnifiche figure di testimoni che incontrano e fanno fremere il cuore con i loro pensieri di calda e profonda umanità, che si coniuga in maniera perfetta con una spiritualità autentica e convincente. La bellezza particolare di questi volumi consiste nel fatto che non sono delle biografie, ma raccolte fedeli dei loro pensieri.

Sto leggendo Martin Luther King: “La forza di amare”. Il discorso di questo uomo di Dio è talmente lucido e convincente per cui, avendo cominciato a sottolineare qualche passaggio, mi verrebbe da segnare tutto il testo e quasi mi dispero perché la mia memoria mi tradisce e perciò non mi dà una mano per ricordarmi le splendide cose che questo uomo del Signore dona all’umanità. Mi trovo impotente, quasi vorrei abbracciare, per tenermi presso il cuore questo oceano di saggezza e di interpretazione in chiave di attualità, il messaggio di Gesù, che tradotto nei pensieri e nelle parole di questo pastore di anime, appare semplicemente meraviglioso ed affascinante. Altro che protestanti traditori e fedifraghi!

Sto veramente bevendo alla sorgente la limpidezza e la fragranza del messaggio cristiano che incanta pure gli uomini di oggi, seppur smaliziati ed increduli, come ha incontrato gli abitanti della Palestina 20 secoli fa.

Il volume riporta i sermoni e le lezioni più significative di questo apostolo della non violenza e del riscatto dei negri d’America. Capisco di non riuscire a riassumere testi pregnanti e convincenti, tanto che non mi resta che dire alle persone a cui voglio bene: «prendete il volume, che costa due euro, ma che vale un tesoro!».