Fidiamoci di Dio!

Il modo di predicare di una volta era molto diverso da quello di oggi. Forse un tempo dovevano rifugiarsi in un modo aulico di parlare in chiesa perché la mancanza del microfono costringeva il prete ad un tono di voce molto alto. Ricordo il cardinale Luciani, che aveva una voce flebile e diceva che ad Agordo, ove fu cappellano, era costretto a rifugiarsi nei racconti per tener desta l’attenzione dei fedeli.

Forse per questo un tempo le prediche erano infarcite di aneddoti, fatti della storia e racconti vari. Credo che non avessero tutti i torti i nostri vecchi parroci perché dei sermoni del passato ricordo quasi esclusivamente qualche fatto raccontato per dimostrare certe verità cristiane.

Ricordo che un tempo il mio parroco di campagna, per dimostrare che dobbiamo volerci bene, non rimandare al domani la conversione, che la vita passa veloce e che quello che conta non sono le ricchezze ma una vita virtuosa, ci raccontò della regina Elisabetta d’Inghilterra (non quella attuale, ma una sua ava), ambiziosa ed amante del potere, che aveva fatto un patto col diavolo: lui le assicurava 40 anni di regno e lei gli vendeva la sua anima. Quarant’anni sono tanti, insisteva il parroco, però pian piano passavano, la bellezza di Elisabetta sfioriva e il governare diventava sempre più difficile. Man mano che passava il tempo, aumentava l’angoscia e il terrore per l’antico patto. Non ricordo la sua fine, penso però che il parroco assicurò che essa sia stata tragica e che il suo primo ministro, avendo fatto la ricognizione della salma, avesse esclamato: così si riducono le illusioni e le ambizioni di chi volta le spalle a Dio ed accetta le lusinghe di Lucifero!”.

Questo modo di predicare non sarà moderno, ma a me continua a far pensare.

L’altro giorno, nel libretto in cui faccio meditazione al mattino, si scriveva che una signora molto agiata, ma colpita da un tumore, ha confidato ai suoi vicini che avrebbe volentieri offerto tutti i suoi averi, ai quali era molto attaccata, in cambio di dieci anni di vita, per poter vedere crescere il suo figliolo. Molto meglio della regina Elisabetta d’Inghilterra!

Comunque credo che sia meglio ancora fidarsi della paternità di Dio, vivere con gioia ed intensità la sorte che il Signore ci ha riservato ed abbandonarsi fiduciosamente alla sua volontà. Il mestiere di Dio è difficile, ma da quanto possiamo verificare anche noi, il Signore lo sa fare molto bene. E perciò credo che sia saggio accettare quello che Egli ci offre, senza tentare di barattare o di premere perché Egli scenda a compromessi con la sua sapienza per accontentare la nostra ignoranza.

I meravigliosi e faticosi tempi andati del vecchio cinema Lux

Col digitale terrestre abbiamo una sovrabbondanza di canali e perciò di programmi televisivi. Io non dedico molto tempo alla televisione, anche perché avverto, nonostante sia un vecchio prete pensionato, ho ancora lo scrupolo di coscienza di perdere tempo. Il tempo mi pare troppo prezioso per buttarlo per cose futili e poi sono di gusti raffinati e perciò mi è davvero difficile trovare un qualcosa che mi piaccia e non mi sottragga a lungo da quelli che io credo siano ancora i miei impegni istituzionali.

Qualche domenica fa, nell’ora della siesta, mi sono imbattuto in un film di cui avevo sentito parlare tanto “cinema paradiso”, ma che non avevo mai visto. Ho seguito la trama per un quarto d’ora, poi ho spento perché dovevo andare a chiudere la chiesa. Però i pochi fotogrammi che ho visto mi hanno riportato alle mie tormentate esperienze nel vecchio cinema “Lux” di Carpenedo.

La difficoltà della programmazione era un problema rimasto irrisolto. Le suore di San Paolo, pur dicendosi chiamate dal Signore a questo tipo di apostolato, per darmi un cartone animato, ad esempio “Biancaneve e i sette nani”, oltre il prezzo salato, mi imponevano altri cinque o sei filò spazzatura, o comunque non adatti per i ragazzi per i quali avevo speso un sacco di denaro per mettere a disposizione della città una sala bella ed elegante, sorvegliata dalle suore e dal poliziotto in pensione “don Antonio”, perché alla domenica i ragazzi potessero godere di un divertimento sano.

In quel tempo erano ancora in vigore “le occasioni prossime di peccato” e perciò, durante la settimana, anche il vecchio operatore del Lux visionava la pellicola, tagliava “i baci”, per poi riattaccare con l’acetone i due mozziconi. La domenica poi, quando la scena faceva intuire la prossimità di una manifestazione amorosa, la sala, strapiena di ragazzini, che neppure a quei tempi erano del tutto innocenti, si metteva a gridare in coro: “bacio, bacio!”, ma i protagonisti sullo schermo passavano avanti senza potersi lasciare andare nelle loro manifestazioni d’amore a causa dei tagli. Oppure ricordo che il vecchio operatore in pensione da cent’anni, si appisolava in cabina, mentre i due carboni incandescenti s’allontanavano uno dall’altro e la scena andava vieppiù annebbiandosi. Altre grida: “luce, luce!”.

La domenica pomeriggio era veramente un’impresa! Senza tener conto che “don Antonio”, pur essendo stato un uomo a servizio dello Stato, dava un biglietto ogni due bambini, nonostante la paura degli ispettori della Siae, e tutto perché i conti tornassero! Quanta fatica, quante preoccupazioni per tenere in parrocchia quella folla di mocciosi e per tentare di crescerli con un po’ di timor di Dio!

Quale prete, allora, poteva concedersi le ferie, o fissarsi il tempo di servizio? Ora incontro uomini maturi ed anche vecchi che mi ricordano “i tempi meravigliosi” della loro fanciullezza in parrocchia. Loro non sanno, però, quanto mi sono costati!

Io la penso come san Giovanni Crisostomo!

Più volte ho confidato alle pagine bianche di questo diario che provo tanta difficoltà a recitare il breviario, non tanto per il tempo che impiego, ma per le difficoltà d’accettare la vetero-cultura del popolo ebraico.

La fede degli ebrei, descritta dalla Bibbia, è tanto elementare, passionale e faziosa. Tutti affermano che gli ebrei erano monoteisti, a me invece vien da pensare che gli ebrei della Bibbia fossero convinti che il loro Dio era più grande e più potente degli altri dei, ma non esclusivo, ed essi lo pregavano soprattutto perché schiacciasse i loro nemici e rendesse loro più forti e più ricchi degli altri popoli. Questo per quanto riguarda il vecchio testamento, ma anche per le pagine dedicate agli scrittori ecclesiastici, dei padri della Chiesa dei primi secoli e del medioevo, le cose non vanno tanto meglio: il pensiero è elementare, ingenuo, con pochissimi supporti razionali.

E’ vero però che talvolta il breviario mi offre pagine di sant’Agostino, san Tommaso o della “Gaudium et spes” o anche della “Imitazione di Cristo”, e allora è tutt’altra cosa: avverto un pensiero solido, convincente, che mi apre orizzonti veramente pieni di fascino ed appaganti.

Qualche settimana fa, di primo mattino, mi sono incontrato in una pagina di san Giovanni Crisostomo (uomo dalla parola e dal pensiero di “oro fino”) che, pur vissuto tanti secoli fa in una società ed in una Chiesa ancora grezze, mi ha offerto una pista di ricerca veramente affascinante, che mi ha fatto intravedere un cristianesimo quanto mai attuale e comprensibile anche dagli uomini di oggi, soprattutto da quelli affamati di giustizia, di solidarietà e di un sano umanesimo.

In sintesi, diceva IL Crisostomo: “cerca, ama, scrivi ed aiuta il Cristo vestito dal bisogno e dal disagio, piuttosto che cercarlo ed adorarlo nello splendore dei riti, degli ornamenti dei templi e degli oggetti sacri. Questo cristianesimo è quello che mi affascina e mi convince, anche se non riesco sempre a viverlo e a coinvolgere in questa lettura del messaggio cristiano troppi fedeli e meno preti.

Comunque questa pagina del Crisostomo mi pare così convincente che ho deciso di fotocopiarla perché anche gli amici de “L’incontro” ne possano beneficiare.

Come la sorgente e il rubinetto

Quando si è vecchi capita di sentire il bisogno di verificare la propria concezione della vita, del mondo, della Chiesa e della fede.

A me capita sempre più frequentemente e più sentitamente di avvertire il bisogno di verificare la validità del patrimonio culturale ricevuto dalla famiglia, dalla Chiesa e dal mondo in cui sono nato. Ricordo di aver letto tantissimi anni fa, un dramma di Cesbron, autore francese del secolo scorso, il quale immagina che santa Teresina del Bambino Gesù, ammalata e morente, subisca una terribile tentazione che un medico ateo le fa balenare: “Forse ho sbagliato obiettivo, mi sono giocata la giovinezza su una proposta che mi ha tolto tutta la possibilità di cogliere il vero e il più bel volto della vita!”. La giovane monaca suda, si agita, quasi squassata da questa ipotesi terribile. Poi Cesbron pensatore cattolico irrequieto ed in ricerca quasi esasperata sul tema della fede e della validità della proposta cristiana, apre nel cuore della morente uno spiraglio di speranza nella visione della Paternità di Dio ed essa muore serena.

Nella vecchiaia, “quando ormai si fa sera e il giorno declina”, diventano esasperate domande del genere. Sempre più mi domando: “Tutta l’impalcatura organizzativa e di elaborazione del pensiero cristiano è proprio quella proposta da Cristo?” E qui nascono molti dubbi. L’articolazione ecclesiale, di dottrina, di riti, di prassi morale è tanto faragginosa, complessa e talvolta macchinosa. Per ora mi rifaccio all’immagine di Silone, il pensatore del sud, il quale afferma: “Altro è la banalità di aprire il rubinetto dell’acquedotto e veder scendere l’acqua che odora di cloro, altro è andare alla sorgente e vedere il mistero dell’acqua limpida che sgorga dalla roccia: Là c’è poesia, incanto, mistero!

Ormai sempre più frequentemente metto da parte i volumi di teologia per accostarmi alla sorgente: il Vangelo, la parola e i gesti di Gesù! Questo incontro quasi sempre mi rasserena e mi aiuta a dire con Pietro: “Sulla tua parola getterò la rete”. La parola di Cristo sa di sorgente, mentre quella della teologia mi appare quasi sempre artificiosa e odorante di cloro.

Il messaggio più vero per le generazioni che s’affacciano alla vita

A questo mondo ci sono ancora delle cose belle che mi fanno sognare, pur essendo ormai logoro e vecchio. Ne ho avuto prova quando ho appreso che due milioni di giovani si sono trovati a Madrid per incontrare il nostro vecchio Papa percorrendo centinaia di migliaia di chilometri per arrivarvi, dormendo per terra e mangiando male, eppure felici, dicendo a tutti la gioia e l’orgoglio della propria fede.

Quando penso che anche dalla nostra diocesi di Venezia ben mille giovani si sono uniti ai giovani di tutti i popoli della terra per dichiararsi, col sorriso sul volto, discepoli di Cristo! Allora mi son detto che non tutto è perduto, anzi per la Chiesa s’affaccia all’orizzonte una nuova primavera, nonostante le secolarizzazioni, le guerre disumane, gli scandali e i mille predicatori…. saccenti ed ostinati di nichilismo e di perversione umana e di ateismo militante. Quali sono oggi gli uomini della politica che si dicono apportatori di novità e detentori del domani, e i filosofi, i sociologi, gli uomini della cultura che riescono ad ottenere l’adesione e l’entusiasmo di tanta gioventù, quante sedi dei partiti, salotti della cultura o i detentori dei mass-media possono contare solamente su pochi fanatici pieni di supponenza e spesso anche di disordine interiore?

Una volta ancora debbo concludere che il messaggio di Gesù è il più vero, il più esaltante, quello che risponde meglio alle attese e ai bisogni più veri delle generazioni che s’affacciano alla vita e che non sono ancora state profanate dai cattivi profeti del nostro tempo.

Una volta ancora debbo affermare che noi cristiani dobbiamo essere convinti ed orgogliosi di possedere il messaggio più vero, più umano e soprattutto il messaggio per il domani.

Una volta ancora debbo ripetere che il cristianesimo non va vissuto in difesa , all’ombra del campanile, nelle serre e nel chiuso dei circoli, ma deve sempre essere all’attacco, presente ove si fa la storia, capace di dialogare e di proporsi a tutti senza complessi di inferiorità, senza paura della vita, del domani e soprattutto delle forze delle tenebre. Credo che Madrid sia la risultante di quel grido di battaglia di Papa Karol: “Non abbiate paura, spalancate le porte a Cristo!”.

I preti e le parrocchie che si muovono in questa ottica non soltanto non retrocedono, ma avanzano sereni.

Non abbandono il campo!

Ho un gruppo di giovani giornalisti che fanno a gara per pubblicare qualche notizia inerente le mie imprese e le scelte che faccio in rapporto agli eventi e alle questioni che coinvolgono la nostra società e la nostra Chiesa. Ognuno tenta di carpirmi la notizia che in qualche modo possa rappresentare uno scoop nel nostro piccolo mondo.

Alvise Sperandio ha avuto qualche indizio della mia volontà di passare la mano circa la presidenza della Fondazione, Pur avendogli detto che non c’era nulla di ufficiale a questo proposito e che i tempi non erano maturi, ha steso l’articolo ed in aggiunta il titolista de “Il Gazzettino” ha buttato giù il titolo ad effetto: “Don Armando lascia!”

C’era da vederlo: è scoppiata la “tempesta” nel solito piccolo bicchiere d’acqua. Residenti al “don Vecchi”, amici, ambienti ecclesiastici, si sono meravigliati di un presunto abbandono del “potere”. Le domande sono tante e varie, tanto che credo opportuno fare qualche precisazione. Io non abbandono il campo e sono deciso a portare avanti fino alla fine la mia visione del credere, la testimonianza che la solidarietà è una componente essenziale del vivere cristiano e che non basta l’enunciazione di princìpi, ma bisogna tradurre il messaggio in scelte concrete. Però ritengo da un lato di non avere più né la lucidità, né le risorse fisiche per stare al timone ulteriormente.

Dall’altro lato sono altresì convinto che bisogna far spazio ai giovani perché si misurino con la vita, perché riescano ad interpretare al meglio i tempi nuovi e perché essi hanno il vigore per battersi per i progetti in cui credono.

Io non voglio abbandonare ciò in cui ho creduto e in cui credo, ma desidero farlo in seconda linea, come supporto e come rinforzo, nella misura in cui si riterrà opportuno il mio contributo. Ho sempre ritenuto giusta la massima che “non si può essere uomini per tutte le stagioni” e di certo la mia stagione è ormai agli sgoccioli, e forse già tramontata.

Una nuova stagione per la Fede

Come ogni stagione ha la sua ricchezza di colori, di armonie e di bellezza, così sono convinto che avvenga nelle “stagioni” della fede.

Soltanto chi è vissuto a lungo si accorge delle primavere o degli autunni della fede. Il passaggio dall’estate all’inverno avviene in maniera lenta e graduale, per cui neanche ti accorgi delle mutazioni, ma alla distanza di mesi avverti che il paesaggio è profondamente mutato.

Una decina di anni fa s’imponeva all’attenzione del mondo cristiano la “teologia della liberazione”. Questo movimento di pensiero si è sviluppato in maniera sorprendente e rigogliosa tra le comunità cristiane del Centro America. Questa riflessione culturale, che ben presto lievitò anche la sensibilità sociale e cominciò ad aggredire anche la politica, si fondava sulla tesi che il messaggio cristiano aveva come compito principale quello di liberazione dell’uomo dai condizionamenti, dai soprusi dei governi e delle classi dominanti che avevano ridotto alla miseria e a condizioni servili i loro popoli.

Ben presto questo movimento di pensiero non solamente si diffuse tra il popolo e i sacerdoti delle parrocchie, ma coinvolse anche l’episcopato del Centro America.

La gerarchia è intervenuta ridimensionando questa posizione teologica. Il Cristianesimo è una risposta alla vita nella sua globalità, ridurlo ad un movimento di promozione sociale è certamente impoverirlo. Resta però il fatto che la libertà dalla miseria e dai condizionamenti politici per poter esprimere le proprie idee e poter incidere sulla vita sociale, fa parte delle legittime attese dell’uomo.

Questa mattina, la presa di posizione di Gesù, che fa proprie le affermazioni del profeta Isaia (“Il Signore mi ha mandato ad annunziare ai poveri il lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia”) mi ha riportato alla teologia della liberazione. Mentre le leggevo, mi è parso che queste parole siano proprie di una nuova primavera della fede e siano indicative di un’altra stagione di cui tutti dobbiamo tener conto.

Oggi l’impegno per “liberare l’uomo” dovrebbe essere un mandato del quale ognuno si senta investito, se vogliamo vivere coerentemente la stagione del nostro tempo.

Sono davvero sempre all’altezza del mio compito?

Alla domenica la mia chiesa è gremita quanto mai e fuori dalla porta ottanta, novanta persone partecipano all’Eucaristia. Quando chiudo il messale e prendo la parola per “incarnare” nelle nostre attuali problematiche esistenziali il messaggio di Dio, mi sento quasi paralizzato dalla responsabilità di trasmettere, integro e vitale, quanto il buon Dio ci va dicendo. Allora mi aggrappo allo schema che ho preparato durante la settimana, ma mi muovo in maniera rigida, senza riuscire a dare coloritura e calore personale ai pensieri della cui validità sono quanto mai convinto, che quasi sempre fanno cantare il mio cuore e che vorrei offrire nella maniera più elegante e personale ai fratelli di fede che mi ascoltano.

Tanto spesso l’attenzione, così disponibile, della mia gente, quasi mi spaventa sentendomi inadeguato ad offrire un dono così prezioso a persone tanto care e in ricerca della verità.

Sono frequenti le domeniche in cui mi sento deluso di me stesso ed amareggiato per non essere riuscito ad offrire in maniera viva e convincente le splendide proposte del buon Dio, sempre così vere, così opportune e così valide.

Durante la settimana, invece, quando in chiesa ci sono solo venti, trenta fedeli, la meditazione sulla Parola di Dio, anche se meno preparata, mi riesce più fluida e più personale. Ho l’impressione di usare tutte le corde del violino per trasmettere la melodia di Dio, dalle note basse e calde a quelle alte e penetranti. Ho la sensazione di dialogare con semplicità, con convinzione e spesso anche con tanto entusiasmo, perché i “passi” della Scrittura su cui vado meditando ad alta voce mi appaiono così attuali, saggi e convincenti. Sento di usare una disinvoltura che alla domenica, di fronte alla folla, non ho.

Continuerò a fare del mio meglio, ma supplico il Signore che colmi i vuoti e soprattutto dia calore e incisività alle mie povere parole spesso fredde e incerte.

La vecchia parrocchia volta pagina

La mia vecchia parrocchia volta pagina. Ogni comunità cristiana ha degli obiettivi ben fissati e la tradizione religiosa da secoli ha approntato soluzioni, iniziative e metodi pastorali, ma resta il fatto che ogni parroco porta le proprie peculiarità, si muove con uno stile personale, fa le sue scelte prioritarie.

Anche a Carpenedo, col cambio appena avvenuto del parroco, si è voltata pagina e la parrocchia, partendo dall’esistente, si proietta verso il domani.

Il rimpianto della comunità da cui arriva il nuovo parroco e le realizzazioni compiute, a tutti i livelli, fanno ben sperare. Da un colloquio iniziale con don Gianni ho avvertito una sintonia di intenti e di obiettivi; ci siamo trovati d’accordo, a livello ideale, sul fatto che l’impegno pastorale deve abbracciare tutto l’uomo, dato che la parrocchia non può ridursi solamente ad una comunità di credenti, ma deve tentare di essere una comunità umana fatta da gente che cammina assieme.

Secondo: pare che con don Gianni la parrocchia si “riappropri” del “don Vecchi”, così che questa istituzione non viva più come un’orfana, ma riabbia la madre che l’ha messa al mondo!

Terzo: il nuovo parroco pare d’accordo che le coordinate per la parrocchia siano la fede e la solidarietà come elementi inscindibili.

Non sarò certo io a dettare gli indirizzi al nuovo parroco di Carpenedo, ma il fatto di condividere con un giovane prete gli obiettivi pastorali, mi fa particolarmente felice e mi sprona ad una collaborazione e ad una disponibilità completa. Credo che alla parrocchia, che è stata anche definita “la famiglia delle famiglie” possa essere utile anche la figura di un vecchio nonno che, pur discreto e in disparte, possa offrire un consiglio, possa confortare ed aiutare chi è al timone e porta sulle sue spalle la grave e pesante responsabilità di guidare verso la Terra Promessa una porzione del popolo del Signore.

Questa prospettiva mi alletta e mi fa sognare una nuova avventura.

Bianco e… grigio

Qualche settimana fa due vecchi parrocchiani, che avevo sposato una quarantina di anni fa, e forse più, mi hanno chiesto di sposare la loro figliola nella chiesa di San Moisè a Venezia.

Ricordavo questa chiesa ai tempi del seminario, quando per andare a servire le funzioni religiose a San Marco, noi seminaristi partivamo dalla Salute, passavamo il ponte dell’Accademia per giungere finalmente a San Marco. A quei tempi non ci si poteva neppure permettere il lusso di passare il traghetto con la gondola. Passavamo davanti alla chiesa di San Moisè, un esempio peculiare non solo del barocco, ma del rococò più spinto. La facciata sembrava un traforo di statue, capitelli, decorazioni floreali, veramente un vespaio di marmo annerito dalle nebbie della laguna e dal guano dei colombi della vicina piazza San Marco.

Alcuni anni fa, fortunatamente, un ente di una nazione europea ha “adottato la chiesa” e con una operazione minuziosa di maquillage ne ha fatto una trina, un merletto quanto mai armonioso e piacevole.

Attualmente la vecchia parrocchia fa parte dell’unità pastorale con San Salvador, San Marco, San Luca, e perciò è parte integrante di questo piccolo consorzio di parrocchie e vi celebra un prete impegnato al Marciam.

Quello però che mi ha favorevolmente impressionato è stata la pulizia, l’ordine e il buon gusto con cui è tenuta la chiesa, ma soprattutto mi ha colpito un giovane accolito, che di professione fa il caposala in un reparto dell’ospedale San Giovanni e Paolo e che, pur abitando a Mogliano, cura la chiesa e i riti come ne fosse il primo responsabile. La cordialità, la convinzione, la competenza e lo spirito di servizio di questo giovane accolito, mi hanno veramente edificato.

Mentre sono rimasto negativamente colpito dalla confidenza che questo credente mi ha fatto in maniera totalmente innocente. Mi riferiva che un cardinale di Santa Romana Chiesa, quando veniva a Venezia, era solito alloggiare al Bauer, uno dei più costosi alberghi della città, che ha la porta nel campiello di San Moisè e, quando era libero, andava a suonare l’organo della chiesa vicina.

La chiesa ha un volto composto da tessere di svariati colori: c’è quella bella e bianca del giovane accolito e quella piuttosto grigia del cardinale del Bauer. Per fortuna il nero mette in risalto il bianco!

Lo sciopero dei divi del pallone

Verso la fine dell’estate, in piena crisi economica, in mezzo al tormentone della ricerca di soluzioni, che sono risultate difficili e drammatiche, per reperire i fondi che mettano al sicuro il nostro Paese dalla bancarotta, abbiamo avuto modo di stupirci ed indignarci, ancora una volta, per il comportamento dei divi del pallone.

La categoria dei saltimbanchi del calcio, una volta ancora, ha dato motivo di scandalo per non aver accettato di concorrere al salvataggio e al bene comune del Paese, contribuendo in maniera proporzionale agli stipendi scandalosi che percepiscono.

Il rappresentante di questa categoria ha minacciato di non dar inizio al torneo della serie A, e poi l’ha messo in atto. Al momento in cui sto fissando sulla carta queste riflessioni, non sono in grado di prevedere quanto durerà questa sconcezza.

Il sanguigno Calderoli finalmente, con lodevole franchezza, ha minacciato di far pagare una tassa doppia; volesse il Cielo che questo ministro ponesse in atto questa minaccia!

Per quanto mi riguarda credo che nei miei ottant’anni di vita, mai ho appreso con tanta soddisfazione la notizia di uno sciopero. I nostri calciatori sono scadenti, quando giocano con gli stranieri perdono sempre, hanno una vita sregolata, mortificano tutte le categorie di lavoratori percependo stipendi infinitamente più lauti anche di chi fa lavori più duri e più difficili: sarebbe veramente ora che nei nostri grandi stadi potessimo assistere alle partite dei nostri bambini o almeno dei calciatori dilettanti!

Cari calciatori della serie A, grazie, grazie tante per il vostro sciopero, vi prego, continuate a far sciopero per tutto l’anno. Il nostro Paese comincerebbe così a non aver tra i piedi una casta di approfittatori viziati, egoisti ed inconcludenti.

Sì alla misericordia, no ai cattivi insegnamenti

Ho capito ormai da tanto tempo che se non si vuole aver noie o non si vuole essere fraintesi, è sempre opportuno accodarsi all’opinione pubblica e non discostarsi dal pensiero della maggioranza. Però io non ci sto a questo costume, o peggio a questa moda, perché sono profondamente convinto che questo sia un comportamento di comodo, falso ed ipocrita. Anche dovendo pagare coscientemente il prezzo dell’isolamento e dell’incomprensione, ritengo doveroso dire, con rispetto ed umiltà, ma anche con onestà, il mio parere, pur sapendo che questo comportamento non scalfisce il pensare comune.

E vengo al nocciolo del problema al quale ho sentito il bisogno di fare questa premessa per non apparire un bastian contrario di professione o, peggio ancora, un integralista disumano.

Fino a un decennio fa la Chiesa rifiutava il funerale religioso ai suicidi, ai divorziati, ai peccatori pubblici e perfino ai comunisti; il tutto, credo, per affermare il dissenso e la incompatibilità tra il pensiero cristiano e quello che, almeno apparentemente, è opposto.

Ora s’è cambiato registro, si benedicono tutti, indipendentemente dal loro comportamento morale e religioso.

A me va più che bene! Gli antichi dicevano “Parce sepulto” e Cristo ci ha parlato del padre del figliol prodigo con le braccia spalancate al perdono.

Lasciamo il giudizio a Dio che “conosce i reni e il cuore”. Però fare un eroe di un suicida, parlare di creatura solare per chi è morto di droga, battere le mani a qualsiasi soggetto, presentare come una persona esemplare chi non ha mantenuto i patti di un impegno preso di fronte al proprio partner e soprattutto a Dio, mi pare tutt’altra cosa, che decisamente non condivido, perché vuol dire far confusione e soprattutto offrire un cattivo e fuorviante insegnamento.

Rispettare il dolore dei familiari, non arrogarsi il potere di giudicare, affidarsi e contare sulla misericordia di Dio è una cosa, ma dichiarare campione chi obiettivamente è uno sconfitto dalla vita, è tutt’altra cosa.

Tre interrogativi circa la crisi del matrimonio religioso

Se volessi cercare degli articoli di spessore che non solamente forniscano notizie, ma che approfondiscano e analizzino le cause che determinano gli eventi che il quotidiano registra, e le conseguenze di questi fatti, non dovrei cercare sul “Gazzettino”, ma su giornali di ben altro spessore e di tiratura nazionale. Il Gazzettino ha però la prerogativa di informare su ciò che soprattutto concerne le problematiche e la vita della nostra città.

Qualche settimana fa un titolo a cinque colonne ha attratto la mia attenzione fornendomi dei dati che, come sacerdote, mi preoccupano e che comunque mi pongono domande alle quali non mi posso sottrarre. Il titolo diceva esattamente: “A Venezia trionfano le nozze civili”, e poi l’occhiello specificava: “Prevalenza di cerimonie laiche (921) a fronte di 421 scambi di anelli con rito religioso”.

Immagino che in curia le varie commissioni per l’evangelizzazione e la pastorale, gli uffici per la catechesi matrimoniale, stiano studiando il problema per offrire delle soluzioni. Per intanto il problema resta. Da un lato mi rasserena il fatto che fino al Concilio di Trento pare che non esistesse quasi il “sacramento del matrimonio”, forse perché il solo fatto che due persone si amino, lo attestino in chiesa o in municipio, diventa comunque “sacramento”, ossia “segno” della presenza dell’Amore, cioè di Dio in mezzo a noi.

Detto questo però viene da domandarci perché i nostri ragazzi preferiscono i sindaco con la fascia tricolore al parroco con i paramenti liturgici?

Seconda domanda: come mai il Comune non pretende un corso perché gli aspiranti sposi imparino a volersi bene, mentre le parrocchie fanno a gara per allungare le “lezioni” di apprendimento, pur avendo quasi sempre pochissimi docenti e non qualificati?

Terza domanda: come poi i ministri del culto si rapporteranno con questi “cristiani” anomali per la Chiesa e con i loro figli?.

Questo mi pare il problema cruciale perché, d’ora in poi, si corre il rischio che i preti troppo “zelanti” siano tentati di togliere anche quel filo sottile che offre la possibilità ai nostri ragazzi di avere un minimo di formazione cristiana.

Ho paura che il tirar troppo la corda ancora una volta crei il pericolo di spezzarla. Io poi sono piuttosto diffidente nei riguardi di un cristianesimo troppo sofisticato, gli preferisco di gran lunga la versione popolare.

La politica dei rovi

Nota della Redazione: come sempre accade, questa riflessione è stata scritta molto prima dei recenti avvenimenti politici.

Io non sono colto né ho una buona memoria, però ogni tanto mi salgono, da ricordi lontani, delle verità che rappresentano per me quasi degli appigli a cui aggrapparmi quando tutto sembra precipitare.

Tante volte ho confidato alle pagine di questo diario la mia amarezza e il mio sconforto di fronte ad una società smarrita e confusa che annaspa disordinatamente ed in maniera ignominiosa tra la corruzione, l’ipocrisia, l’avidità e la prepotenza.

Non vedo rimedio se non in una vera e profonda rivoluzione morale, forse sarebbe meglio dire in una conversione globale, determinata da qualcosa che però non vedo ancora all’orizzonte, ma in cui spero.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere quel piacevole e sapiente brano della Bibbia in cui si parla per parabole della volontà degli alberi di nominarsi un re. Nascono però fin da subito le difficoltà: l’olivo rifiuta perché non vuole rinunciare all’olio, conforto degli uomini, il fico pure, perché non vede come andrebbe ad agitare i suoi rami senza poter più dare il suo dolce frutto; anche la vite rinuncia per non aver più la possibilità di offrire il suo vino, letizia degli uomini. Allora s’offre il rovo, accetta la corona e comincia da subito a sacrificare con le sue spine i colleghi rinunciatari.

La massima antica che dice “non c’è nulla di nuovo sotto il sole” mi è parsa ancora una volta valida: finché gli uomini migliori, i docenti, i capitani di industria, i galantuomini e le persone per bene non si mettono in gioco, relegando in second’ordine i loro interessi, la loro quiete e il loro successo, noi in Italia continueremo soltanto ad avere i soliti spinosi e infecondi “rovi” a governarci e continueremo ad essere feriti dalla loro protervia, dall’arroganza e dal loro arrivismo. I colpevoli del malcostume imperante nei palazzi del potere è causato principalmente dai “rovi” ai quali abbiamo offerto la corona, ma anche dalla rinuncia degli onesti, dei capaci e dei galantuomini a porsi a servizio della nazione.

L’ingloriosa fine dei “potenti” che si schierano contro Cristo

Qualche giorno fa sono stato a Mogliano per celebrare il commiato cristiano per la mamma di una cara volontaria del “don Vecchi”. Assieme al vecchio parroco, che mi ha fatto arrossire perché, pur essendo quasi un mio coetaneo, è ancora “in servizio” ed è parroco da ben 35 anni sempre nella stessa parrocchia, mentre io ho ceduto le armi molto prima, abbiamo ricordato un suo vecchio predecessore, monsignor Fedalto.

Monsignor Fedalto, mestrino di nascita – ma a quel tempo Mestre era ancora sotto la diocesi di Treviso – è stato un famosissimo oratore, tanto che il parroco di Mogliano diceva che egli aveva predicato tantissime “missioni popolari”, “quaresime” e “avventi” a non finire.

A quei tempi, che corrispondevano alla mia adolescenza, quando un oratore di grido saliva in pulpito, faceva veramente scena, pestava i pugni, declamava, si commuoveva e faceva commuovere.

Ricordo di aver assistito ad una di queste prediche il cui tema di fondo era il “non prevalebrunt”, ossia le forze del male, per quanto insidiose e cattive, non avrebbero mai vinto e distrutto la roccia della Chiesa e la bianca figura del Papa.

Ricordo il vigore con cui l’oratore citava i nemici, che ad un certo momento sembrava avessero sconfitto ed umiliato la Chiesa, mentre invece erano finiti miseramente nella polvere. Aveva ragione don Fedalto, anche se lo gridava con voce tonante da oratore.

Che fine hanno fatto Mussolini, Hitler, Stalin, i persecutori della Chiesa del Messico o della Spagna? La stessa di Napoleone e di tutti i miscredenti che si sono succeduti nei secoli!

Ho pensato al sermone tonante di monsignor Fedalto leggendo la fine di Zapatero, il socialista miscredente ed anticlericale che, con perfidia e supponenza degna di miglior causa, ha nuovamente tentato di scardinare i valori morali, il costume e la fede degli spagnoli. Questo statista che ha sfidato la Chiesa e ora, con la coda tra le gambe si ritira, certo dell’inevitabile sconfitta; anch’egli sta facendo la fine di tutta quella gente boriosa che tante volte, durante i secoli, ha steso prematuramente l’atto di morte del cristianesimo.

In queste settimane ho pensato alla valanga di giovani di tutto il mondo che hanno invaso pacificamente e gioiosamente le strade e le piazze di Madrid. Spero che abbiano fatto capire a Zapatero che il domani è e sarà sempre di Cristo, mentre le forze del male delle quali egli è stato per qualche anno triste e melanconico portabandiera, sono destinate a sicura sconfitta.