Una carezza su un passato comune non sempre facile

Una persona mi aveva chiesto se poteva incontrarmi al “don Vecchi”. Al telefono mi aveva detto il suo nome e mi trattò in maniera confidenziale. Ma, un po’ perché ho poca familiarità col telefonino ed un po’ perché l’età ha logorato anche il mio udito, non riuscii ad inquadrare la persona. Quando ormai al “don Vecchi” non sapevo chi stavo attendendo e, mentre aspettavo, lavoricchiavo su “L’incontro”, qualcuno bussò alla porta; con sorpresa, incontrai uno dei primi cappellani che avevo avuto a Carpenedo.

Io sono arrivato in parrocchia in tempi cruciali, nel 1971, quando la coda della contestazione sferzava duramente la struttura e la mentalità della vecchia parrocchia di Carpenedo, che era vissuta per secoli sonnacchiosa e tranquilla, vicina, ma separata, da Mestre. Per conoscere il clima, basti sapere che il giorno dopo la mia entrata ufficiale, un gruppo di giovani venne in delegazione a chiedermi di sostituire la messa domenicale delle dieci con un’assemblea pubblica.

Fu dura, molto dura, anche perché i miei giovani cappellani tutto sommato non potevano che simpatizzare con i giovani della parrocchia. Io poi ero prevenuto, comunque sono stato sempre un resistente per natura. Ebbi la meglio, ma non senza ferite da ambo le parti.

Stamattina, incontrando il “giovane” cappellano con barba e capelli bianchi, che era venuto ad offrirmi venti azioni per il “don Vecchi” di Campalto, ho avuto l’impressione che l’età e la vita abbiano livellato e coperto ogni crepa e che gli ideali comuni abbiano ristabilito una comunione completa.

Sono stato molto felice di questo incontro e sono riconoscente a questo vecchio collaboratore che, seppure con stile e strade diverse, ha speso la sua vita per la Casa comune. Il tempo risana le vecchie ferite e quando c’è onestà di intenti e spirito di servizio si arriva sempre a comprenderci.

La visita di questo monsignore – perché il mio collaboratore, che ha fatto più carriera di me, è monsignore – l’ho colta come un dono ed una carezza su un passato non privo di difficoltà provocate dagli eventi ma anche dalla mia intransigenza.

Ricordo di un cristiano coraggioso

Ho parlato ieri della visita all’anziana mamma di uno dei miei “ragazzi” di un tempo.

Anche se ormai il mio ministero di sacerdote si svolge quasi esclusivamente al “don Vecchi” ed in cimitero, ben volentieri ho aderito ad accettare questo “lavoro straordinario”. E’ stato bello conversare con questa cara signora, da sempre riservata e di poche parole, ma ora ancor più, a causa dell’età avanzata e a qualche difficoltà a livello fisico.

Mentre conversavo amabilmente con questa creatura, vedova ormai da molti anni, mi tornò alla memoria un altro incontro ben più drammatico con un membro di questa cara famiglia. Il marito di questa signora occupò per anni un posto di primo piano nel sindacato – credo fosse segretario regionale della CISL. Quelli erano anni caldi per il sindacato e più ancora per quel sindacato, che s’era smarcato con coraggio dall’egemonia della CGL, cinghia di trasmissione diretta con Botteghe oscure.

Militare nella CISL, professare la propria fede, avere una posizione equilibrata da cristiani adulti nella Chiesa, non abbracciare una posizione costante da barricate, non era una cosa facile. Eppure quest’uomo, ancor giovane, fu un cristiano militante, libero e adulto nella fede. Un tumore lo aveva aggredito alla gola. Mi mandò a chiamare, mentre era ricoverato nel reparto di otorinolaringoiatria di Villa Tevere. Chiese lucidamente i sacramenti e li ricevette con fede e poi mi chiese di occuparmi dei suoi figli: «Il più grande, mi disse, mi pare che ormai cammini con le sue gambe, ma il più piccolo ha ancora bisogno di una guida quando non ci sarò più». Morì poco dopo.

I suoi figli crebbero in parrocchia come il padre desiderava ed ora sono due professionisti affermati e due cristiani seri. D’altronde, con un padre di quella levatura morale ed una madre parca di parole ma forte nella testimonianza, non avrebbe potuto essere altrimenti.

Oggi pare che la società e la Chiesa siano preoccupate dei giovani, mentre dovremmo essere più preoccupati che “le radici” familiari siano più ancorate sui valori più sacri e più basilari.

Si fa sentire sempre più la mancanza di un presidio pastorale del territorio!

Monsignor Vecchi, da cui ho appreso più di quanto non pensassi, era solito dirmi che quando nell’opinione pubblica ritornava di frequente un termine che definisce una realtà, significava che nella società se n’era persa la presenza e che il ritornarci sopra di frequente con i discorsi non denotava la presa di coscienza del suo valore, ma piuttosto la nostalgia o il vuoto della sua assenza. Ricordo che un giorno mi ha fatto questo discorso a proposito del termine “comunità” e in specie della parrocchia, che dovrebbe essere la comunità dei credenti in un certo territorio.

Da bambino e da adolescente nel mio piccolo paese di campagna infatti non si parlava mai di comunità, perché questo valore lo si viveva, conoscendoci tutti, ed essendo, tutto sommato, solidali “nella buona e nella cattiva sorte”. Io invece ho sentito ricorrere spesso a questo termine quando sono arrivato a Mestre, dove regnava sempre più l’anonimato, l’isolamento e l’individualismo e la presunta autosufficienza.

Mi è venuta in mente questa “lezione” qualche settimana fa quando uno dei miei “ragazzini” di tempi ormai lontani mi ha chiesto di far visita e di portare l’Eucaristia a sua madre. Questa anziana signora, cattolica praticante, da cinque o sei anni è costretta a casa con la badante, pur essendo seguita con tanto affetto dai figli. Le domandai se il suo parroco sapeva della sua infermità e, come mi aspettavo, non visitando le famiglie, lui era perfettamente ignaro di questa situazione.

Il cardinale Scola, ora ormai lontano da Venezia e quindi impossibilitato a realizzare i suoi progetti, spesso ripeteva che era convinto e voleva un presidio serio sul territorio. Ho l’impressione che ancora una volta purtroppo, mons. Vecchi avesse ragione: quando si parla di una realtà e questa non è più presente, il parlarne è semplicemente nostalgia e rimpianto, non più un progetto.

Più volte dal mio angolo remoto ho denunciato l’assoluta assenza di questo presidio pastorale sul territorio e il peggio è che non solo non c’è perché mancano gli uomini per il presidio, ma perché questo discorso elementare ed antico è scomparso dal manuale e dai progetti pastorali. I preti sono in ritirata ed hanno abbandonato le linee del fronte, rifugiandosi nelle sagrestie e nei convegni.

Un felice parallelo

Mi ha sorpreso ed incuriosito una riflessione di un cristiano di oltremare. Questo signore un giorno osservò che di prima mattina, quando però il sole era già alto all’orizzonte, la luna appariva in cielo ancora nitida e luminosa. Il fenomeno, un po’ insolito, ma interessante, destò così tanto la sua meraviglia che esclamò entusiasta: «Buon giorno luna!», quasi essa gli donasse la sua grazia gentile e bella anche di giorno.

Normalmente era abituato ad ammirare la luna come una bella signora accompagnata da una corte di stelle durante le notti, quando il cielo è terso, salutandola “buona notte luna!”, quasi che la luna fosse presente solamente durante la notte, mentre essa c’è anche quando il solleone le toglie campo.

Quel signore, con un misticismo assai semplice e popolare, partendo da questa scoperta, sviluppa il suo pensiero dicendo che il buon Dio è sempre presente durante la nostra vita, lo si scorga o meno, però talvolta Egli si manifesta in maniera sorprendente nella quotidianità nella quale pare non abbia normalmente campo. Si dilunga quindi nell’enumerare le infinite occasioni in cui il Signore splende come la luna di mattina, in situazioni nelle quali non t’aspetti di trovarlo, quasi che il buon Dio fosse relegato in chiesa, chiuso nel tabernacolo, o agli arresti domiciliari nel luogo sacro, e visitabile solamente nelle ore fissate dai sacri riti.

Probabilmente quel lontano fratello non ha letto Dante, quando scrive che il Signore si “squaderna” nelle creature e come l’artista lascia segno della sua presenza nelle “opere d’arte” da lui create.

Temo che anche molti di noi italiani, noi che dovremmo avere dimestichezza con Francesco d’Assisi, non abbiamo purtroppo imparato a vedere e lodare il Signore che ci appare in “frate foco, sorella acqua umile e casta, nelle stelle clarite e belle, e perfino in sora nostra morte corporale”.

Al Signore possiamo dire: «buon giorno e buona sera» a tutte le ore del giorno e della notte.

Messaggini per parlare ai giovani

Suor Michela, la mia anziana coinquilina al “don Vecchi”, legge “Famiglia Cristiana” ed ogni settimana, quando le arriva il numero nuovo, mi passa il vecchio. Quindi appartengo all’indotto dei lettori di questa ancora prestigiosa rivista di ispirazione religiosa.

A dire il vero non sono un fan di questo periodico perché, specie dopo l’ultimo rinnovamento, lo trovo frammentato, un po’ frivolo, aperto eccessivamente alla pubblicità, ma soprattutto ho più di una riserva sul nuovo indirizzo redazionale. Accetto e condivido tutte le posizioni dei periodici cattolici, siano essi simpatizzanti per le soluzioni che si rifanno ai vecchi archetipi della sinistra che della destra, i quali sono ora pressoché una pallida nostalgia del passato e quasi un pretesto per distinguersi dagli altri; invece non simpatizzo punto quando queste tensioni ideali finiscono per confluire in uno schema politico di partito, perché su questo terreno si corre il pericolo di dividerci anche tra i cattolici.

Non spendo troppo tempo per leggere “Famiglia Cristiana” per i motivi suesposti, ma un’occhiata curiosa ed attenta la riservo sempre alla rubrica curata da Antonio Mazzi, mio coetaneo. Don Mazzi è sempre originale, sempre libero nei giudizi e soprattutto capace, nonostante i suoi ottant’anni suonati, di un atteggiamento di ricerca che lo fa approdare a soluzioni, magari marginali, ma che sempre denotano la sua passione per l’uomo e soprattutto per il messaggio di cui è portatore.

In un numero abbastanza recente del periodico, don Mazzi, osservando come le nuove generazioni comunicano tra loro quasi esclusivamente attraverso i messaggini del cellulare, che si devono concentrare in un paio di battute, ma che evidentemente bastano ai nostri giovani per comunicare e capirsi, ha compilato una serie di questi messaggini in chiave pastorale e di proposta religiosa (riporto su “L’incontro” del 20 novembre 2011 questa iniziativa).

Non so se egli realizzerà in proprio questo strumento di comunicazione o se l’affiderà ai lettori, comunque debbo apprezzare anche questa piccola iniziativa che è in realtà gigantesca di fronte all’amara constatazione dell’inerzia e dell’immobilismo pastorale nei quali stagnano le nostre parrocchie.

Purtroppo, una volta ancora, “in un mondo di ciechi il monocolo è un re”.

Umili domande alla politica e una preghiera per il mondo della finanza

Ricordo che tantissimi anni fa c’è stato un momento molto critico per l’economia del nostro Paese e che si doveva prendere una decisione importante ed immediata per evitare il peggio. Ho letto allora sull’editoriale di un quotidiano che ci si è rivolti a Pella, allora ministro delle finanze e del tesoro e il giornalista, competente in materia, affermava che in Italia erano soltanto due o tre gli uomini della finanza che avevano competenza per prendere una decisione in maniera saggia ed appropriata.

Son passati decenni da quel frangente, ma mi pare che la situazione non sia di molto cambiata. Ora è la volta di Tremonti: quando parla sembra un oracolo che dà sentenze illuminate ma incomprensibili ai più. Possibile che non si possa organizzare uno staff di cervelloni esperti della materia che studino il problema e poi prendano assieme decisioni oculate, senza che un giorno si e un giorno no i soliti politici, che pare sappiano tutto di tutto, non escano con valutazioni e critiche che sanno più di partito che di economia?

Ormai da un paio di anni non si fa che parlare di borse che vanno a fondo, che bruciano ogni giorno decine e centinaia di miliardi, di Stati che fanno debiti su debiti e di banche che vendono titoli spazzatura.

Io rimango attonito e stordito di fronte a questo dramma che mi rimane oscuro ed incomprensibile e, da povero ignorante qual sono, ho il timore che sia soltanto la povera gente a rimetterci. Mi domando poi perché non si possano mettere con le spalle al muro questi speculatori internazionali che fanno il buono e il cattivo tempo e perché lo Stato non si comporta come una famiglia seria che non fa il passo più lungo della gamba ed evita di indebitarsi? E perché non si dice alla gente che se si vuol star meglio dobbiamo imparare dai cinesi a lavorare di più, impedendo ai sindacati di fomentare pretese impossibili e agli industriali di arricchirsi sulla pelle degli operai.

So che sarà difficile rispondere a queste domande e che i sogni degli umili sono utopie che si possono realizzare solamente in tempi molto lunghi. In tanta confusione non resta che aggiungere qualche preghiera in più per gli economisti, i banchieri, gli industriali e gli uomini della finanza; chissà che il Signore non faccia il miracolo, perché solamente un miracolo potrà farli rinsavire.

Com’è difficile per tanti sacerdoti il dialogo con l’uomo di oggi!

Un mio amico, che normalmente frequenta la chiesa della Madonna della Consolazione del nostro cimitero, m’ha confidato che qualche settimana fa è entrato nel duomo di una città del Veneto mentre teneva l’omelia il vescovo del luogo. Mi diceva di essere rimasto deluso per il sermone pieno di luoghi comuni, ma soprattutto poco incidente e stimolante.

Io sento, ormai da decenni, una grossa preoccupazione nei riguardi del ceto sacerdotale. Temo che il frequentare quasi solamente gente di Chiesa, che parla con un certo gergo, che si nutre di una cultura che non si confronta quasi mai con quella che permea il pensiero della nostra società, che non legge i romanzi e i giornali che formano la mentalità dell’uomo della strada, che non frequenta i cosiddetti “lontani”, finisce col farsi un’idea erronea dell’uomo di oggi, quando gli si parli con un linguaggio che a lui non è più familiare, linguaggio che è compreso solamente da uno sparuto numero di persone che sono, tutto sommato, emarginate nella nostra società, così da non essere più un campione dell’umanità che popola il mondo di oggi.

Mi è capitato di parlare una decina di anni fa, con un prete che aveva una grossa responsabilità come educatore nella nostra diocesi, il quale, nel suo discorso, parlava e dava risposte ad un tipo di uomo che non era del mondo di oggi ma quello di san Tommaso di molti secoli fa. Io tentavo di dirgli: «Guarda che l’uomo di san Tommaso non esiste più. Quello rappresentava un anello nella specie umana in costante evoluzione, esso può interessare gli archeologi, ma non gli educatori e i sacerdoti di oggi!». Non ci capimmo, credo che abbia continuato a tentare di formare l’uomo conosciuto dalle pagine ingiallite della scolastica.

Io non sono in grado di dire se l’uomo di oggi sia meglio o peggio di quello dei tempi passati, comunque sono certo che l’uomo di oggi ha una sensibilità, capisce certi discorsi, rimane estraneo e indifferente ad altri, avverte certi problemi, parla e capisce una lingua nuova, quella di oggi. A quest’uomo dobbiamo tentare di parlare, di passargli valori, di aprirgli orizzonti, di donargli pace, e per far questo non possiamo non immergerci nel mondo di oggi, buono o cattivo che sia; altrimenti ci parliamo addosso e l’ostacolo tra noi e lui diventa la muraglia cinese.

Vacanze a tutti i costi

Ancora una volta quest’anno la gente, soprattutto le persone care che mi conoscono e mi vogliono bene, incontrandomi, mi han chiesto, quasi per istinto: «Don Armando, non si prende qualche giorno di vacanza?». Oppure qualcuno, ancora più condizionato dal costume del nostro tempo, mi ha domandato: «Dove va in vacanza quest’anno?», dando per certo e scontato che anch’io ci dovessi andare.

Questo mondo non cessa di sorprendermi per la sua illogicità. Da un lato il governo, parlamento, mass-media e perfino la Chiesa, tramite la stampa amica, non fan altro che terrorizzare informando sul crollo delle borse, sull’andamento poco favorevole dell’economia nazionale, europea e perfino degli Stati Uniti, tanto che ce li descrivono vicini al fallimento, e dall’altro lato Anas, Autostrade e servizi di polizia stradale ci informano e ci mettono in guardia e si mostrano preoccupati per l’esodo biblico di ferragosto. La televisione poi, con frequenti carrellate, ci mostrano delle spiagge talmente affollate di creature nude come vermi che, pigiate come sardine in scatola, si contendono qualche centimetro della sabbia della spiaggia.

Qualche pensatore e soprattutto i difensori della fede, danno per certo l’affermarsi delle religioni monoteiste, quasi esse rappresentino un segno dello sviluppo dell’intelligenza umana e della nostra civiltà. In realtà le cose non stanno proprio così. Mai come adesso imperano gli idoli, i miti e le mode. Queste tre componenti della società contemporanea schiavizzano ed impongono gravami pesantissimi ed assurdi al modo di pensare ed ai comportamenti dell’uomo di oggi.

Qualche settimana fa ho riportato sulla copertina de “L’incontro” l’immagine di una piccola chiesetta alpestre con la didascalia “O beata solitudine o sola beatitudine”, un motto della spiritualità benedettina. Voce che grida nel deserto! Oggi credo che dovrebbe tornare san Benedetto da Norcia per convincere i vacanzieri del 2011 della validità di questa massima.

Tanti anni fa la mia vecchia parrocchia di san Lorenzo possedeva un “Rifugio” vicino a Misurina, in una località bellissima, ma assolutamente isolata. Quando arrivavano i ragazzi dalla città, per i primi giorni sembravano disorientati e disturbati psicologicamente per il tanto silenzio e la mancanza di folla. Quasi per istinto si rifugiavano in un baretto vicino dove funzionava un vecchio jukebox che col suo gracchiare profanava la sacralità della valle. Soffrivano di crisi di astinenza da rumore e da folla.

Se andiamo avanti di questo passo il Sert dovrà offrire il metadone quando i “villeggianti” ritorneranno intossicati da folla e da rumore.

Bisogna tornare a vivere l’Eucarestia come la intendeva Gesù

Gesù, nell’ultima cena “dopo aver reso grazie a Dio, prese del pane e disse: «questo è il mio corpo, prendete e mangiate», poi prese il bicchiere di vino e disse: «questo è il mio sangue, prendete e bevete»; concluse poi affermando : «ogni volta che vi incontrate, fate questo in mia memoria».

Fin dai primi anni di catechismo ci è stato spiegato che quando i discepoli di Gesù si incontrano, devono compiere questo “memoriale”, ossia devono ricordare e rendere vivo ed attuale il dono che Gesù ha fatto di Sé con la sua vita, il suo messaggio, la sua morte, la sua passione e resurrezione, e per ottenere questo, devono ripetere il gesto di mangiare e bere il pane e il vino, segni dell’offerta di Cristo a farli totalmente propri, così da non cogliere il sapore ma la loro sostanza trasfigurata, assimilandoli perché diventino alimento del loro pensiero, del loro modo di concepire la vita e la morte, ossia diventare quello che san Paolo tradusse bene con quella sua affermazione: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.

I cristiani hanno mantenuto sì la raccomandazione di Gesù con la celebrazione eucaristica, ossia con la santa messa, però pian piano ne hanno fatto un rito così concentrato ed essenziale per cui n’è rimasta quasi solamente la sostanza, così scheletrica da non suscitare più emozioni,                                                                                                                                                                                                             ossia s’è perso tanto della sua vitalità, riducendola a rito, non un’esperienza esistenziale coinvolgente. Tutto questo l’avevo capito da tanto tempo, poi l’abitudine finisce sempre per farmi accettare la più facile semplificazione.

In questi giorni ho letto nel volume “L’eremo non è un guscio di lumaca” come la teologa e mistica Adriana Zarri – che ne è l’autrice e ha scelto di vivere solitaria in un eremo, praticamente un cascinale abbandonato sulle colline piemontesi – come essa celebrasse la “sua messa” solitaria – ma non tanto! La comunione eucaristica del pane e del vino di questa asceta dello spirito diventava un gesto sacro all’interno della sua colazione serale, nella quale entrava la vita ordinaria fatta di cibo, di relazioni umane, di sentimenti, di rapporti col cielo, la natura, gli animali, i ricordi. Tutto ciò faceva un tutt’uno con l’aprirsi al dono di Cristo per inserirlo veramente nella sua vita.

Io non so come potrei offrire questo concetto ai fedeli durante le messe nella mia chiesa della Madonna della Consolazione, in questa cornice esistenziale, ma avverto più che mai che “i segni” devono diventare più pregnanti, più significativi e coinvolgenti ed incidenti nello spirito, nella ragione e nel comune sentire se non voglio che si riducano ad una “sciarada” pressoché incomprensibile e lontana dalla vita, dagli interessi e dalle relazioni di tutti i giorni.

Quale futuro per la solidarietà cristiana che sembra non attrarre più i giovani?

C’è un problema che mi preoccupa a livello ecclesiale: non vedo all’orizzonte della vita ecclesiale l’arrivo di rinforzi in generale e, in particolare, nel settore della carità. Mi può far anche piacere che spesso i giornali locali si interessino delle mie imprese caritative, ma sarei molto più contento se ci fosse quasi una gara tra preti nel far di più e nel far meglio.

Io penso di essere un attento osservatore di ciò che avviene nel campo della solidarietà cristiana. Non dico che non ci sia nulla, perché ogni tanto mi capita di leggere che nella parrocchia della Gazzera ci si fa carico dei cristiani del Libano, che a Chirignago si ospitano dei profughi dell’Africa subsahariana, che a Catene si accolgono i bambini di Chernobil, che a Carpenedo c’è un bel gruppo di persone che aderiscono all’iniziativa delle adozioni a distanza, che riesce a portare degli aiuti consistenti per dare una cultura di base ai ragazzi e ai giovani di certe regioni dell’India, delle Filippine e dell’Africa; che nelle due parrocchie di viale San Marco, una è impegnata per finanziare l’ospedale di Wamba e l’altra raccoglie fondi per gli affamati del Sudan; che ad Altobello si fa funzionare una mensa per i poveri, ai Cappuccini un’altra e a San Lorenzo un’altra ancora. Tutto questo è molto bello, però mi pare che manchino i rincalzi del mondo dei giovani.

Un tempo c’era, a Mestre, un gruppo numeroso della gioventù francescana, un altro chiamato “gruppo del martedì” ed un altro ancora della San Vincenzo, tutti veramente impegnati sul fronte della carità, e dei giovani preti e frati che guidavano questi giovani generosi ed entusiasti. Ora ho l’impressione che le strutture caritative poggino soprattutto sugli anziani e il mondo giovanile sia piuttosto assente, facendo così mancare, da un lato l’entusiasmo e la passione tipica dei giovani, e dall’altro la speranza dei rincalzi e dei ricambi.

Io poi ero fino a poco tempo fa preoccupato di non vedere a chi lasciare i miei sogni e i miei progetti non ancora realizzati e che non riuscirò di certo a realizzare, ora però è arrivato don Gianni.

Giorgio Mar

E’ morto un altro mio amico. Giorgio Mar aveva soltanto un paio di anni meno di me. Sto osservando che chi parte in questo tempo è quasi sempre nato fra il 1925 e il ’35; sono queste le classi dei “richiamati”. Io sto dentro a questa fascia e perciò prima o poi mi arriverà la cartolina di precetto.

Con Giorgio ci conoscevamo da più di quarant’anni e da una vita ci scambiavamo i nostri pareri sul governo, sulla Chiesa e sulla parrocchia. Quasi sempre ci trovavamo d’accordo, il nostro denominatore comune era il non schierarsi mai per una parte, il mantenere sempre il diritto di critica e il puntare sul positivo, non lasciandoci condizionare dalla “moda” del momento a tutti i livelli, sia politico che religioso e civile.

Di Giorgio mi piacevano molte cose: la fedeltà alla Chiesa, ma non ad una certa Chiesa, la fedeltà all’educazione e alla cultura ricevute da giovani, l’amore per la sua famiglia numerosa, la grande disponibilità, il suo brontolare su tutto, ma mai in maniera cattiva.

La sua carriera lavorativa iniziò col dazio, per finire nell’economato in Comune. Lavorò sempre con serenità, ma rimase libero nel giudicare i suoi datori di lavoro, non prendendoli mai troppo seriamente e criticandoli di frequente, ma sempre in maniera bonaria.

Lo scorso anno ebbe il primo scappellotto a livello della salute; pensavo che fosse causato dalla sigaretta che aveva sempre in bocca. Un mese fa però arrivò il secondo avviso, quello definitivo. Credo sia morto rimanendo convinto di farcela, ma non fu così.

Rimpiango di Giorgio le sue visite puntuali alla domenica mattina, mentre io facevo lumini nella sagrestia della mia vecchia chiesa in cimitero. Commentavamo bonariamente i fatti della settimana che riguardavano, come sempre la parrocchia, la politica e la Chiesa. Ci trovavamo sempre d’accordo sul non essere degli allineati, né dei condizionati dalle “mode” politiche o ecclesiali. Da sempre ci sentivamo dei liberi battitori, per nulla preoccupati d’essere un po’ sempre fuori coro.

Per questo motivo, durante la mia vita, mi sono sentito sempre un po’ solo. Ora, con la partenza di Giorgio, lo sento ancora di più. Mi consolo sapendo che non ne avrò per molto, appunto perché appartengo ad una delle classi che in questo tempo sono “richiamate”.

Un incontro quotidiano che mi aiuta a sentire l’umanità ancora cara ed accettabile

Io sono tanto riconoscente al Signore che spesso mi fa incontrare delle persone che mi riconciliano con l’umanità e m’aiutano a credere ancora nell’uomo nonostante tutto.

Per me, credere nel buon Dio non è un problema, perché lo vedo da mane a sera in ogni angolo del mondo in cui vivo e il suo volto m’appare splendido, il suo cuore caldo ed amorevole. Per me credere è un dono meraviglioso, che mi dà speranza, coraggio, fiducia nel domani e volontà di camminare ogni giorno verso l’incontro che sarà certamente un fatto meraviglioso.

Quanto condivido la testimonianza della monaca di clausura di un convento di Bologna che, intervistata dal nostro famoso reporter, Sergio Zavoli, che le domandava se lei e le sue monache avessero paura della morte, rispose: «Anche noi siamo povere creature e temiamo la morte, essa però ci permetterà di incontrarci con quel Signore che abbiamo amato e che abbiamo messo sopra ogni interesse; sarà veramente meraviglioso poterlo incontrare, vedere la bellezza del suo volto, abitare nella sua casa!»

Io però faccio un’enorme fatica a credere nell’uomo. Ogni mattina i quotidiani impiegano il novantanove virgola nove del suo spazio e delle sue parole per descrivermi dettagliatamente le miserie, la cattiveria, i soprusi, l’egoismo, la volontà di dissacrazione, la profanazione del corpo e del creato. Forse per questo il Signore tanto di frequente mi fa incontrare delle belle figure di uomo che mi riconciliano con l’umanità.

Don Mazzolari, nel magnifico prologo al suo volume “Impegno con Cristo” afferma che bisogna impegnarci comunque, anche se gli altri non s’impegnano, perfino se il nostro impegno non risolve nulla. Io però, che sono un povero diavolo e non ho l’animo nobile ed alto di don Mazzolari, ho bisogno di incontrare sulla mia strada testimoni di umanità per trovare il coraggio di credere nell’uomo.

Ogni giorno incontro verso mezzogiorno un mio coinquilino dal volto aperto e sorridente che parte di buon mattino dal “don Vecchi” e rimane al capezzale della figlia, che vive in uno stadio pressoché vegetativo, non comunica ed è nutrita con una sonda. Da due anni e più ogni giorno sta accanto a questa figlia per tutta la lunga mattinata, eppure mai una sola parola di rammarico, mai il volto buio, mai perfino una preghiera perché il buon Dio sollevi la figlia da questa condizione disperata. Il suo volto sereno e il dono di sé senza recriminazioni, si sovrappongono a tutti i titoli e la cronaca buia della nostra società e, grazie a Dio, mi rendono l’umanità ancora cara ed accettabile.

Le assurde e costose missioni militari a cui dovremmo rinunciare!

Una mia preziosa e cara collaboratrice, che inserisce i testi del “diario” in computer e che soprattutto, da vecchia maestra, tutrice attenta delle regole della sintassi e della grammatica, corregge con diligenza i miei scritti irrequieti, mi fa osservare spesso che nel diario ci sono delle ripetizioni e cadute di stile. Sarà finalmente contenta perché quello che oggi sento il dovere di fissare nella carta è certamente “nuovo”, anche se imperdonabilmente ingenuo.

In quest’ultimo tempo Berlusconi e compagni, pur col “cuore grondante sangue”, sono stati costretti a mettere le mani rapaci dello Stato anche e soprattutto nelle tasche degli italiani più poveri – per una seconda stangata. Questa volta pure non sono d’accordo con Bersani, perché altro è pretendere dieci euro da chi ne ha 480 al mese, altro è domandare mille euro a chi ne dispone di diecimila o centomila.

Dato che ogni cittadino ha le stesse necessità per vivere, i dieci euro dei poveri fanno tanto e tanto più male dei mille euro dei ricchi, categoria alla quale appartengono i nostri governanti, da Napolitano all’ultimo deputato.

Non sono riuscito a capire i criteri e l’incidenza reale sui vari ceti di concittadini, comunque non ho proprio capito perché non si sono fatti “tagli” dove era più facile e doveroso. Tagli sull’esercito, mandando a casa un sacco di generali, colonnelli, capitani, sergenti e caporali – tutta gente che, per fortuna, non serve a niente, ma che se “servisse” non farebbe che danni, rovine e morti.

E non ho capito meno che meno perché non si siano richiamati in Patria i nostri “eroi” che abbiamo sparso per tutto il mondo, pagandoli bene, ma senza nessun risultato.

Qualcuno non ha capito che la nostra cultura, il nostro tipo di civiltà (?), il nostro regime e la nostra “democrazia” non si possono assolutamente né imporre né, tanto meno, esportare. L’ha capito da più di un secolo perfino la Chiesa, che possiede un messaggio tanto più alto e rispondente alla gente di tutti i popoli e dispone di messaggeri tanto più nobili di quelli di cui può disporre l’Italia: che è impossibile passare il cristianesimo con strumenti, mentalità propri dell’occidente.

Noi mandiamo a morire i nostri ragazzi per niente, proprio per niente, e per questa operazione nefasta spendiamo un patrimonio. Dico per assurdo che se proprio qualcuno pensasse che serve mandare i nostri ragazzi in armi in giro per il mondo, dovremmo spedire la fattura delle spese relative a chi c’illudiamo che ne benefici e semmai domandare qualcosa anche per la nostra nazione che ne organizza l’invio.

Mi meraviglia che a Tremonti e a tutti quei cervelloni che abbiamo in Parlamento non sia venuta in mente una soluzione così facile e vantaggiosa. Mia madre diceva “vorrei andare io al governo!”. Io ho ereditato tutto da mia madre!

Quelle settecento lampade sono frutto di un dono d’amore

Chi in questi giorni non segue l’andamento della borsa? Piazza Affari la sto immaginando come il falò dei Pezzin in via Ca’ Solaro. Perché mentre i nostri amici invocano prosperità bruciando fascine di sterpi per l’Epifania, a Piazza Affari si bruciano ogni giorno milioni di euro. Tante volte ho tentato di farmi spiegare questo rebus di carattere economico, però non sono mai riuscito a capirci niente.

Qualcosa però ho finito per “capire” dei fenomeni collegati: ad esempio che cala il prezzo del petrolio e pare che tutti siano preoccupati di questo fatto come fosse male che la benzina cali di prezzo, o meglio che dovrebbe calare, mentre invece, per un altro mistero, cresce.

Stanno dicendo inoltre che l’oro continua a salire, raggiungendo prezzi mai visti, perché la gente investe su questo bene “rifugio”. Io invece, in controtendenza, ho approfittato per mettere sul mercato le mie “riserve auree”.

In passato, quando mi regalavano qualche oggettino d’oro, quando andavo a venderlo me lo pagavano quasi niente perché dicevano che era “oro vecchio”! Ora ho approfittato dell’occasione favorevole e del bisogno di pagare le fatture che mi giungono ininterrotte per il “don Vecchi” di Campalto. Questa volta avevo una collana, un bracciale e qualche altra cosetta che una dolcissima e cara mamma aveva ricevuto in dono dal figlio e che, essendo egli morto precocemente, ella mi disse che non avrebbe mai portato e perciò me li offriva per le opere di cui mi occupo.

L’orefice me li ha pagati duemila euro, meno qualche spicciolo. M’è dispiaciuto quanto mai privarmene, perché per me rappresentava un vero “tesoro” l’oro che questa mamma mi ha donato con le mani tremanti e gli occhi lucidi.

Neanche dopo un’ora, con la somma ho pagato le settecento lampade che illumineranno il “don Vecchi” di Campalto.

Lo so che per i vecchi che vi risiederanno e per gli ospiti quelle saranno soltanto delle lampade; per me, invece, nella loro luce, vedrò solamente il cuore di questo giovane che amava sua madre e di quella madre che ha voluto che il dono di suo figlio diventasse amore.

La lettera al presidente Napolitano da un’anziana della nostra città

Qualche giorno fa mi ha raggiunto nella sagrestia della mia chiesa tra i cipressi una mia coetanea la quale – a differenza di me, che ho messo su pancia, che ho i capelli tutti bianchi, sempre arruffati e ribelli e che mi faccio ripetere due volte il discorso perché duro d’orecchi – era quanto mai elegante, col suo vestitino rosso, con i capelli ben curati e con un fare sciolto ed elegante, tanto da sembrare una mia nipotina.

Dal discorso che m’ha fatto, ho capito che era una persona quanto mai lucida, con un temperamento deciso, con parole calibrate ma taglienti.

Mi disse che era venuta per farsi perdonare da me perché si era permessa di “rubare” qualche pensiero de “L’incontro”, ma capii ben presto che questa era una bugietta da donne; in realtà voleva rendermi partecipe della sua indignazione nei riguardi dei parlamentari, delle classi dirigenti che stanno disonorando il nostro Paese con la loro rapacità, sete di potere, avidità ed inconcludenza.

Questa cara signora, apparentemente fragile ma con una volontà ed una lucidità invidiabili, ha scritto una lunga lettera – quattro facciate di foglio protocollo – al presidente Napolitano, dicendo ben chiaro: «Chiedo a Lei che questa lettera, scritta da una cittadina italiana (fra pochi mesi avrò 80 anni) venga letta in Parlamento, non quando ci sono quattro gatti, ma quando sono tutti presenti, perché finalmente sappiano che cosa la gente pensa e s’aspetta da loro».

Mi piacerebbe – ve l’assicuro – pubblicarla tutta quella lettera perché c’è nello scritto una veemenza ed una indignazione che danno la misura di quanto il popolo italiano sia disamorato dello Stato, rifiuti i comportamenti inconcludenti ed interessati, sia deluso dalla classe dirigente, chieda e pretenda pulizia e serietà.

Vi sono dei passaggi che sono come una lama affilata e tagliente: “non riesco più a sopportare l’arroganza degli onorevoli `disonorevoli'”, “voglio parlare di questa Italia, che è la mia Patria, ma pare che appartenga solo a loro”, “parlano senza mai concludere niente”, “riempiono solamente le loro tasche”, “lo Stato siamo noi!”, “che spettacolo da circo il Parlamento!”.

Credo che neanche il recente libro “La Casta” abbia il vigore della protesta che questa anziana signora ci mette nel denunciare l’ingordigia, il malaffare, le ruberie, i sotterfugi e l’ipocrisia dei politici nel dire di fare gli interessi dei poveri, mentre sono solo preoccupati di “mangiare” sulle spalle degli operai, dei pensionati e di un popolo che tradiscono ulteriormente inducendolo ad una vita effimera e godereccia.

Ogni sera aprirò la televisione per vedere quando Napolitano farà leggere in Parlamento la lettera di questa anziana signora che si firma con nome e cognome, ci mette l’indirizzo preciso e pure il numero di telefono.

Prometto che pubblicherò la risposta del presidente quando si sarà deciso di rispondere a questa sua cittadina!