Gesù, nell’ultima cena “dopo aver reso grazie a Dio, prese del pane e disse: «questo è il mio corpo, prendete e mangiate», poi prese il bicchiere di vino e disse: «questo è il mio sangue, prendete e bevete»; concluse poi affermando : «ogni volta che vi incontrate, fate questo in mia memoria».
Fin dai primi anni di catechismo ci è stato spiegato che quando i discepoli di Gesù si incontrano, devono compiere questo “memoriale”, ossia devono ricordare e rendere vivo ed attuale il dono che Gesù ha fatto di Sé con la sua vita, il suo messaggio, la sua morte, la sua passione e resurrezione, e per ottenere questo, devono ripetere il gesto di mangiare e bere il pane e il vino, segni dell’offerta di Cristo a farli totalmente propri, così da non cogliere il sapore ma la loro sostanza trasfigurata, assimilandoli perché diventino alimento del loro pensiero, del loro modo di concepire la vita e la morte, ossia diventare quello che san Paolo tradusse bene con quella sua affermazione: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.
I cristiani hanno mantenuto sì la raccomandazione di Gesù con la celebrazione eucaristica, ossia con la santa messa, però pian piano ne hanno fatto un rito così concentrato ed essenziale per cui n’è rimasta quasi solamente la sostanza, così scheletrica da non suscitare più emozioni, ossia s’è perso tanto della sua vitalità, riducendola a rito, non un’esperienza esistenziale coinvolgente. Tutto questo l’avevo capito da tanto tempo, poi l’abitudine finisce sempre per farmi accettare la più facile semplificazione.
In questi giorni ho letto nel volume “L’eremo non è un guscio di lumaca” come la teologa e mistica Adriana Zarri – che ne è l’autrice e ha scelto di vivere solitaria in un eremo, praticamente un cascinale abbandonato sulle colline piemontesi – come essa celebrasse la “sua messa” solitaria – ma non tanto! La comunione eucaristica del pane e del vino di questa asceta dello spirito diventava un gesto sacro all’interno della sua colazione serale, nella quale entrava la vita ordinaria fatta di cibo, di relazioni umane, di sentimenti, di rapporti col cielo, la natura, gli animali, i ricordi. Tutto ciò faceva un tutt’uno con l’aprirsi al dono di Cristo per inserirlo veramente nella sua vita.
Io non so come potrei offrire questo concetto ai fedeli durante le messe nella mia chiesa della Madonna della Consolazione, in questa cornice esistenziale, ma avverto più che mai che “i segni” devono diventare più pregnanti, più significativi e coinvolgenti ed incidenti nello spirito, nella ragione e nel comune sentire se non voglio che si riducano ad una “sciarada” pressoché incomprensibile e lontana dalla vita, dagli interessi e dalle relazioni di tutti i giorni.