L’esercito della salvezza

Più volte nel passato ho confidato, mediante i periodici che mi offrivano un po’ di spazio, che ho sempre avvertito il bisogno di dialogare con i miei cittadini perché, pur vivendo in una comunità abbastanza numerosa, le persone che frequentano la chiesa erano e purtroppo sono ancora molte meno di quelle che popolano la nostra città. Il 15 marzo ho compiuto 94 anni e, nonostante rimanga nel mio animo questo sentimento struggente, le mie condizioni psicofisiche logorate da questa valanga di anni purtroppo mi rendono quasi impossibile o per lo meno molto difficile questo dialogo. In occasione della Pasqua però ho però sentito il bisogno imperioso di fare ai miei concittadini, “nipoti” e “pronipoti”, qualche confidenza. Confidenze che sento il bisogno impellente di manifestare anche se la grafia è incerta e il discorso risulta assai povero e frammentario.

Prima confidenza: io sono veramente felice di vivere assieme a quasi 600 anziani, più o meno vecchi di me, negli alloggi dei centri don Vecchi che sono precisamente 510. Io non ho alcun compito dirigenziale in queste strutture ma mi sento ancora quasi la “coscienza” di queste realtà.
Perciò ad Andrea Groppo, nuovo responsabile dei sette centri, chiedo “raddoppia il numero degli alloggi”, secondo; “punta a far si che ognuna delle strutture da condominio diventi sempre più comunità”.
A Edoardo Rivola, responsabile dell’associazione “Il Prossimo”, che gestisce l’Ipermercato Papa Francesco che ha il compito di aiutare concittadini in difficoltà economiche (che oggi sono purtroppo una moltitudine, ne incontriamo migliaia), punta ad aiutare sempre più persone in difficoltà e in maniera sempre più consistente”.
Spero e prego perché questi moniti diventino obiettivi concreti e urgenti per queste due belle figure di concittadini che si sono messi a disposizione.

A voi lettori, e pure a tutti i mestrini, vorrei fare un’altra confidenza.
In questi mesi mi hanno informato che un anziano della Cita di Marghera, che qualche anno fa mi ha detto che avrebbe lasciato il suo appartamento ai centri don Vecchi, è mancato e ha fatto come aveva promesso.
Seconda informazione, di settimana scorsa: una signora che veniva come volontaria alla mensa dei poveri di Ca’ Letizia ai miei tempi, ha lasciato pure il suo appartamento “per il don Vecchi di don Armando”.
Un’altra mia parrocchiana, qualche mese fa, mi ha devoluto cinquemila euro per il pranzo dei poveri.
La ditta Bauli per la Pasqua ha donato 6 bancali di colombe e Il Catering Serenissima quattro quintali di cioccolata per la colazione dei bambini.
Fortunatamente potrei continuare a raccontare questi “miracoli della carità!”

Da questa esperienza mi viene voglia di dire a tutti agli anziani che non hanno congiunti diretti, e a tutti coloro che possono, che pensare ai poveri rende felici. Per di più acquistano titoli per il Paradiso.
Quindi vorrei che i mestrini visitassero i sette Centri don Vecchi, il Centro di Solidarietà cristiana Papa Francesco e vedessero l’accoglienza che abbiamo messo in piedi per i profughi ucraini e per le mamme africane.
Vi verrebbe voglia di contribuire alle “imprese solidali”, vi stupireste degli odierni miracoli della carità scegliendo di unirvi a questo “esercito della salvezza”!

Il Natale del Signore

Don Gianni, tanto gentilmente, mi ha offerto l’editoriale de “L’incontro” perché possa augurare “Buon Natale” agli abitanti di questa nostra città con la quale per ben 68 anni ho condiviso i giorni belli come quelli amari della vita.

Sono felice d’aver questa opportunità perché una volta ancora ho la possibilità di poter convintamente affermare che è un grande dono sentirsi ripetere che Dio non cl ha voltato le spalle per le nostre cattiverie, ma che ha scelto di stare ancora con noi per aiutarci a costruire finalmente un mondo più fraterno. I miei auguri sono quelli di un vecchio prete di quasi 94 anni che ha tentato di offrire ai fratelli il grande messaggio della nascita di Gesù, che rinvigorisce la nostra speranza di una vita più bella e serena. Quando ero bambino andavo al presepio incantato di fronte alla poesia e al candore di questa sacra rappresentazione della Natività di Cristo.

Questo anno, da vecchio, andrò al nostro ipermercato “Papa Francesco” per unirmi alla lunga fila di concittadini che ogni giorno cercano i luoghi ove nasce l’amore, sperando di incontrarlo nel volto di giovani e adulti che lo rendono visibile mediante il loro servizio di fraternità, per ritornare da questo incontro convinto che Gesù nasce ancora attraverso l’impegno di chi opera per il bene dei fratelli. Invito anche tutti voi, miei concittadini, a venire ove si può anche questo anno vedere dove nasce il Figlio di Dio. Buon Natale a tutti voi.

“L’aiutino” del nonno

Io sono un lettore assiduo ed attento di “lettera aperta“, il settimanale della comunità parrocchiale dei Santi Gervasio e Protasio di Carpenedo, parrocchia della quale sono stato parroco per ben trentacinque anni.

Andato in pensione nel 2005, sono 17 anni che vivo in un appartamentino di 39 metri e pago l’affitto, che in realtà non è un affitto perché nei 510 appartamentini dei Centri don Vecchi l’affitto è gratuito visto che si pagano solamente i costi condominiali e quelli delle utenze. Mi trovo benissimo e ringrazio il Signore di poter vivere serenamente assieme ai duecento anziani che vi abitano. Sono quanto mai felice per la bellezza, la signorilità e la sicurezza che questo “condominio” offre alle persone di modeste condizioni economiche.

Confesso però che almeno metà del mio cuore è rimasta a Carpenedo, comunità nella quale ho vissuto gli anni più intensi della mia vita di prete. Questa comunità mi ha offerto le più belle soddisfazioni che un prete può ottenere. Da allora però mi sono messo in disparte perché ho sempre trovato giusto che “l’erede” avesse completa libertà di offrire a quella comunità le sue risorse personali. Però mi è sempre stato caro seguire le vicende di quella parrocchia e costatare con gioia di come è cresciuta bene, che i semi e i germogli che ho seminato si siano sviluppati alquanto.

Nei momenti di nostalgia il mio animo va spesso a ricordare i miei 110 chierichetti, i duecento scout, il patronato, la Malga dei Faggi, Villa Flangini, i Centri don Vecchi, la scuola materna, le sette messe domenicali, le visite annuali alle 2400 famiglie, la stampa parrocchiale, la sagra, il cinema Lux, Radio carpini, il centro Anziani, il mughetto, il gruppo San Camillo, ed altro ancora; confesso che soprattutto nei primi tempi del mio pensionamento ho temuto che tutto questo si afflosciasse e si sgretolasse. Fortunatamente però le cose non sono andate così. Don Gianni, il mio successore, non solamente ha conservato, ma soprattutto ha sviluppato, fatto crescere e migliorato la vitalità della mia vecchia parrocchia.

Ogni settimana leggo con infinito interesse “lettera aperta” e “L’incontro“, godendo nel constatare di come egli ha investito con profitto l’eredità ricevuta. Qualche giorno fa ho letto con vera ebbrezza i settimanali della parrocchia, apprendendo con grande ammirazione le ultime relazioni: sul grest, la sagra, le attività estive del Germoglio, i campi scout, campi estivi alla casa in montagna “la Malga dei Faggi”, e i soggiorni in “Villa Flangini” ad Asolo, e la grandiosa attività caritativa dell’ipermercato “Papa Francesco” per i poveri. Tutto questo mi è stato di grande consolazione e motivo di ringraziare il Signore.

Durante questa lettura mi ha colpito particolarmente un passaggio di don Gianni, che è costretto a fare il parroco, il cappellano, il chierichetto ed altro ancora, il quale chiedeva aiuto, durante il tempo estivo, per la stampa.

Mi sono detto: io nonno, e forse bisnonno di questa parrocchia, ho ancora dei debiti e dei doveri nei suoi riguardi e perciò, io che da una vita mi sono impegnato nella stampa, se non gli dispiace potrei dargli una mano nelle “retrovie” della pastorale della parrocchia. Sono però preoccupato perché, come ai tempi della contestazione del `68, mi sento un vecchio “Matusa”! Comunque spero che questa offerta gli suoni almeno come un segno di affetto, di stima, e riconoscenza.

Ai fedeli della chiesetta del cimitero di Mestre

Cari amici, per un breve periodo non potrò essere con voi nelle messe in quella che ho sempre definito la mia “cattedrale tra i cipressi” e che amo tanto, bella come una baita di montagna.

I postumi del Covid, che ha colpito anche me nelle scorse settimane, sono ancora forti per un ultranovantenne. Inoltre, a breve, dovrò sottopormi ad un intervento per una cataratta ad un occhio, quindi era necessario prendere un periodo di riposo.

Come già avvenuto in passato, ringrazio don Gianni Antoniazzi che si è reso disponibile a sostituirmi durante questa mia assenza che mi auguro il più breve possibile.

Non vorrei diventare un piagnone. Ho avuto il tifo a 20 anni, la cistifellea, un tumore al colon quand’ero parroco a Carpenedo, mi hanno tolto un rene una decina di anni fa, e ogni volta che tornavo a casa mi rendevo conto di quanto è bella la vita. Tutto è stato un dono, non una disgrazia, e sono sempre tornato.

Cari amici, conto di rivedervi tutti presto nella nostra piccola, grande Cattedrale.

Il mio manifesto

Impegniamoci a costruire una “Chiesa”, non una “sacrestia”.

Impegniamoci a far maturare un popolo cristiano libero, ricco di speranza, capace di dialogo, senza complessi, non a dar vita a un teatrino con tanti manichini e tanti costumi che odorano di naftalina, con attori che declamano senza convinzione e passione frasi impregnate di un gergo ormai abbandonato dai più.

Impegniamoci ad avere l’ebbrezza della nostra libertà e della nostra dignità, confrontandoci con amici e nemici, con inferiori e superiori, con rispetto ma senza servilismi.

Impegniamoci a non lasciarci tentare dalla vita facile, dalla carriera promettente o dalla tranquillità ad ogni costo, lasciandoci andare all’adulazione, al silenzio anche di fronte alla stupidità e al sopruso.

Impegniamoci ad aspettare il Risorto nel domani che viene, diffidando delle restaurazioni, dei vecchi codici e delle nuove regole, ascoltando invece la voce del cuore e dello Spirito.

Impegniamoci ad osare, a vivere in attacco piuttosto che in difesa, a sbagliare per troppo amore, piuttosto che per cialtroneria intellettuale, per fedeltà fasulla o per comoda obbedienza formale.

Impegniamoci a scoprire il volto del Maestro e del Salvatore nel cuore, nelle parole e nelle scelte degli uomini e delle donne, dei ragazzi e delle ragazze che incontriamo sulla nostra strada, piuttosto che nei vecchi “santini” o nei testi logori della vecchia teologia.

Impegniamoci ad usare con rispetto e venerazione le parole, senza ubriacarci di frasi fatte vecchie o moderne, ricordandoci sempre che un fatto, per quanto piccolo, vale mille parole.

Impegniamoci ad avere paura del ghetto, della gente che ha risolto tutto, dei cristiani che amano le serre, temendo ancora la mela marcia e il compagno cattivo.

Impegniamoci perché anche l’ultimo ateo possa capire e condividere la tua scelta dei poveri, anche se questo non procurerà mai commenda o titoli di onore.

Impegniamoci a ricordare che il Signore chiama ad ogni ora del giorno ogni creatura, e che i fiori belli nascono e fioriscono dentro e fuori la nostra comunità.

Impegniamoci a ricordare che lo Spirito Santo è venuto per i capi, ma anche per i poveri gregari come noi.

Impegniamoci infine perché tutti sappiano che saremo giudicati sull’amore e non sulle tesi dell’ultimo sociologo e dell’ultima opera di teologo.

Il nuovo segno di pace “made” Papa Francesco

Papa Francesco, ogni giorno di più, non cessa di sorprendermi, egli con le sue scelte umili e discrete sta umanizzando la nostra religiosità, togliendole quell’aureola di sacralità e di mistero e calandola in quello che è l’aspetto più vero del nostro vivere.

Le sue telefonate a capi di stato, a personaggi della cultura a semplici cittadini bisognosi di conforto e di speranza sta togliendo in maniera radicale e definitiva “il triregno” del capo del successore di San Pietro, per presentarsi soprattutto come padre e fratello di umanità e di fede. Mi ha colpito quanto mai l’ultimo suggerimento che profuma proprio di calore e di fraternità il rapporto tra fedeli che partecipano ai sacri riti, che non sempre sono coinvolgenti.

Oramai da molti mesi, a causa della pandemia il celebrante non dice più ai fedeli: “Scambiatevi un segno di pace”, segno che s’era quasi svuotato di contenuto di simpatia, amicizia e fraternità.

Quel modesto invito sta già diventando motivo di ulteriore rimpianto del tempo nel quale non avevamo quel virus micidiale sempre pronto a colpire.

Qualche giorno fa qualcuno mi ha informato che il papa ha annunciato ai fedeli: “Ora non possiamo più scambiarci, durante la Messa, il segno di pace stringendoci la mano, però nulla vieta che il sacerdote dica: “Scambiamoci uno sguardo di simpatia e di amicizia, magari accompagnando lo sguardo con un sorriso affettuoso.”

Il suggerimento mi è parso veramente felice! E alla prima messa che ho celebrato dopo questa “scoperta” ho rivolto il medesimo invito ai presenti.

La reazione mi è parsa veramente bella: i fedeli si sono rivolti al vicino di banco con grande spontaneità e simpatia!

Molto tempo fa ho letto una riflessione di un poeta giapponese il quale aveva scritto: “In autobus, in treno, alla partita, sediamo gomito a gomito con degli sconosciuti, uomini e donne come noi, ai quali però non rivolgiamo mai uno sguardo o una parola di cortesia. Sembra davvero che fra l’uno e l’altro passi la muraglia cinese!”. Concludo: vuoi vedere che il nostro Papa, umile e semplice, riesce perfino a scardinare la “muraglia cinese” che pare dividere anche i fedeli in Chiesa?

Il canto del cigno

Non una predica di parole, ma un volume che riporta fatti, imprese e scelte concrete “Le mie esperienze pastorali 1954 – 2020” condensa il messaggio di 66 anni di sacerdozio

Mesi fa, Giorgio, mio caro coinquilino del Centro don Vecchi, la struttura nella quale vivo anch’io da quindici anni una volta che sono andato in pensione per limiti di età, è morto da coronavirus. Tutta la comunità, composta di 200 anziani, è stata messa in quarantena. Sono quindi rimasto recluso nel mio piccolo alloggio di quaranta metri quadrati, per interi quindici giorni. Confesso che questa reclusione mi è costata alquanto, come sono certo che è costata a tutti.

In questi lunghi quindici giorni, mi attanagliava l’incubo per le notizie poco rassicuranti che la televisione trasmetteva da mane a sera, notizie che mi facevano toccare con mano quanto fossi indifeso e quanto fosse precaria la vita. Dall’altro canto la reclusione e l’isolamento dagli altri mi esasperavano e mi facevano desiderare, come mai mi era accaduto prima, la libertà di movimento, la possibilità di incontrare e parlare con altre persone. Non avendo poi impegni particolari di cui occuparmi, avevo la sensazione che il numero dei giorni del calendario fosse sempre lo stesso, che le ore non passassero mai, e che le lancette dell’orologio, se non ferme, girassero molto più lentamente del solito!

La paura del virus e l’impossibilità di muoversi mi facevano capire che, o per la virulenza della pandemia o per la mia tarda età, 91 anni, mi ritrovavo a vivere “tempi supplementari”, tempi che sono notoriamente molto brevi.

Da questo stato d’animo è nata l’idea: perché non tentare di fare, forse, l’ultima omelia ai miei concittadini? Perché non condensare il messaggio che ho sempre reputato la mia più grande ricchezza in tutti i miei 66 anni di sacerdozio in un discorso definitivo? Non però una predica di parole, ma un discorso di fatti, di imprese e di scelte concrete? Subito s’affacciò alla mia mente l’interrogativo: “Come?”.

Mi ha aiutato a rispondere a questa domanda una confidenza che in tempi molto lontani mi ha fatto l’onorevole Costante Degan, che era mio parrocchiano ed amico. Il quale un giorno mi disse: “Sa, don Armando, gli annunci, le parole che convincono sono quelle che hanno le gambe!” e alla mia sorpresa e stupore soggiunse “I discorsi che convincono sono quelli che hanno il respiro e il volto della testimonianza!”. Allora mi sono detto: perché prima di andarmene, non tento di fare una “predica” raccontando la mia lunga e intensa vita di prete? Perché non fare un discorso riferendo con umiltà e onestà come ho tentato di passare concretamente il messaggio di Cristo in cui ho creduto e per cui ho speso tutte le mie energie?

Da questa riflessione è nato questo volumetto: “Le mie esperienze pastorali 1954-2020”. A questo punto, però, mi si sono aggiunti altri due obbiettivi, che potevano completare questa mia decisione. Il primo: informare le nuove generazioni di cristiani e soprattutto di sacerdoti sul punto raggiunto dai cristiani e dai preti della mia età circa l’annuncio del “Regno”. Quindi passare il testimone dell’impegno pastorale della mia generazione perché altri potessero continuare l’impresa e la splendida avventura di realizzare la proposta di Cristo. Il messaggio di Gesù ha bisogno di essere sempre aggiornato e ritradotto in rapporto alla sensibilità e alla cultura che è in costante e veloce evoluzione. Ora i preti della mia età stanno terminando il loro compito, spetta ormai ad altri continuare dal punto da noi raggiunto.

L’ultimo obiettivo me l’ha offerto mio nipote don Sandro Vigani, regalandomi un suo recente volume sulla ricostruzione della chiesa di Eraclea, mio paese nativo, chiesa che fu distrutta dalla prima guerra mondiale. Il realizzatore di questa impresa è stato Monsignor Giovanni Ghezzo, che in paese tutti ritenevano un grande prete, non solo santo, ma anche colto.

Fin dalla mia infanzia avevo sempre sentito dire che, prima di morire, questo sacerdote aveva scritto una bella e significativa poesia dal titolo “Il canto del cigno” versi con i quali egli si accomiatava dalla sua gente. Finalmente ho potuto leggere questa poesia nel volume di don Sandro. Non dico che sia rimasto deluso, ma essa è scritta in maniera tanto aulica che non è proponibile per il nostro sentire. Comunque il suo titolo – “Il canto del cigno” – potrebbe essere messo a capo delle “mie esperienze pastorali 1954-2020”, perché anch’io sono giunto al momento in cui vorrei concludere cantando e lodando il Signore per la vita che mi ha donato, vita che tutto sommato è stata bella, intensa e convinta! Dono ai miei amici e alla mia gente questo “cantico”, non tessuto di note o di parole, ma di fatti concreti, sperando che sia anche per loro motivo di speranza, di incentivo e di pungolo all’impegno, a continuare, a realizzare “il Regno” annunciato da Cristo.

N.B. è possibile reperire, a titolo gratuito, questo volume presso la segreteria del Centro don Vecchi di Carpenedo o nella chiesa del cimitero di Mestre.

La Voce – Anno 1 – n° 2- Domenica 18 ottobre 2020

IL CUORE DEL VANGELO DI QUESTA DOMENICA

Il cristiano deve essere sempre corresponsabile e compartecipe alle esigenze della vita della società in cui vive dando il suo contributo in base alle sue possibilità.

BREVI RIFLESSIONI DI UN PRETE ULTRANOVANTENNE

L’ultimo amore

● L’ultimo splendido dono che il Signore mi ha fatto durante i miei 66 anni di sacerdozio è di certo il servizio religioso nella “Cattedrale tra i cipressi”, chiesa intima e bella. Liturgie domenicali sempre affollate e partecipi, catechesi pressoché quotidiane, durante le celebrazioni del “commiato cristiano”, sui principali “misteri” della nostra fede. A queste catechesi partecipa quasi sempre un numero abbastanza consistente di fedeli particolarmente disponibili nei confronti della Parola del Signore perché coinvolti dall’evento della morte, un suffragio che sempre si traduce in carità a favore dei poveri.
Amo, amo tanto la mia chiesa del cimitero, l’amo più di quanto io abbia amato quella di Eraclea, il paese in cui sono nato, quella della Madonna della Salute nella quale mi sono preparato al sacerdozio o il Duomo di San Lorenzo dove ho vissuto le prime esperienze da sacerdote e perfino più di quella di Carpenedo nella quale sono stato parroco per 35 anni. Amo di più la mia “cattedrale” perché sarà di certo il mio ultimo amore!

Don Roberto, Parroco doc

● Io ho un fratello più giovane di 20 anni che è pure lui sacerdote e parroco a Chirignago: don Roberto.
Qualche giorno fa ho letto sul suo settimanale “Proposta” questi titoli:
“Cento giovani sul Monte Grappa per l’inizio della loro vita associativa – 70 adulti in pellegrinaggio, 20 chilometri a piedi al santuario di Sesto al Reghena.
Quattro cori parrocchiali: coretto dei bambini – Corale Perosi, il coro dei giovani e il coro delle mamme.
Ripresa del catechismo: 35 gruppi di catechismo dalla seconda elementare alla terza media, con altrettante catechiste per non parlare poi dei gruppi di formazione giovanile, del centinaio di scout, della catechesi per gli adulti, delle visite alle famiglie, dei 15 gruppi d’ascolto che si riuniscono nelle loro case.
Mi vien da concludere: nonostante il coronavirus, la vita parrocchiale è ancora possibile, nonostante parecchi preti non la pensino cosi.

La serenità delle mie scelte

● Le testimonianze positive sono un dono di grandissima importanza.
Ho raccontato ancora un episodio, che pur essendo passati almeno trent’anni e più, mi sta aiutando ancora.
Eccovi il fatto: m’ero recato in un grande magazzino di indumenti gestito da un parrocchiano che sapevo gravemente ammalato di cancro. Incontrandomi egli s’accorse che ero a conoscenza del suo male e che ero sorpreso che, malgrado le sue condizioni, fosse ancora in bottega.
Mi disse allora: ”Don Armando voglio che la morte mi incontri vivo! Anche per questo voglio sognare ed impegnarmi per quanto posso, come se avessi vent’anni.
Pur essendo convinto che non ho più un organo che funzioni a dovere, voglio impiegare anche gli avanzi”

La Voce – Anno 1 – n° 1 – Domenica 11 ottobre 2020

Da questa settimana pubblichiamo i testi del nuovo settimanale di don Armando Trevisiol (91 anni!). Il foglio, composto da due facciate, è reperibile negli espositori della chiesa del cimitero di Mestre.

IL CUORE DEL VANGELO DI QUESTA DOMENICA

Dio ci invita a vivere una vita buona e felice e ci mette invece in guardia dal sciuparla per obiettivi futili, deludenti e devastanti per se stessi e per gli altri.

BREVI RIFLESSIONI DI UN PRETE ULTRANOVANTENNE

  • La scorsa domenica tutte le sedie “lecite” erano occupate e fuori dalla chiesa c’era un folto gruppo di fedeli. Ho provato però tanta nostalgia della chiesa del passato gremita come non mai.
    Mi pare di aver capito che le persone hanno bisogno di stare insieme per sentirsi sotto lo sguardo del Padre comune che è nei cieli.
  • La stampa in questo ultimo tempo non fa che parlare delle mascalzonate di monsignori e cardinali del Vaticano.
    Sono INDIGNATO e ADDOLORATO perché ho assoluto bisogno di sognare una Chiesa bella, pulita e innamorata del bene e della vita.
    Fortunatamente abbiamo Papa Francesco che fa da contrappeso in maniera splendida alla meschinità vestita di porpora.
  • Quando dall’altare guardando i fedeli, dico loro:
    “La pace sia con voi”, la mia gente mi pare così cara e così bella.
    La fede rende sempre bello il volto dei credenti.
  • Questa mattina una signora mi ha chiesto di ricordare, per il trentesimo anno di seguito, i suoi genitori. Che bello incontrare chi mantiene viva la memoria e l’affetto per i suoi cari!
  • Ogni volta che entro in sacrestia dò uno sguardo al quadro di San Francesco e ogni giorno mi pare che mi ripeta:
    “LAUDATO SII MIO SIGNORE, PER NOSTRA SORA MORTE CORPORALE!” E’ consolante pensare che la morte sia rappresentata come una cara sorella che apre la porta del cielo ad ogni creatura che ha finito il suo viaggio!
  • L’altro ieri mi ha commosso una anziana signora che durante il funerale del marito pregava con le lacrime agli occhi.
    Oggi è raro vedere le gente piangere al funerale di un proprio scomparso.
    M’è sembrato che quelle lacrime fossero una commovente dichiarazione d’ amore.

I militi ignoti

Sto purtroppo constatando che il mio ultimo volume – “Le mie esperienze pastorali 1954-2020” – ha provocato tanti “militi ignoti” quanti ne ha provocati la prima guerra mondiale! Durante la reclusione della quarantena per la pandemia, è nato, forse troppo in fretta, il volume con il quale ho voluto raccontare, ai miei amici, fedeli, collaboratori e concittadini, le vicende dei miei 66 anni di sacerdozio. Già allora avevo temuto di correre il rischio di dimenticare qualche nome di persone coinvolte nelle mie imprese pastorali, infatti ho anche ufficialmente chiesto scusa per eventuali dimenticanze. Lo potete costatare anche a pagina 102 del volume! Però, ora non passa giorno che mi dica: come ho fatto a dimenticare quella persona che ha dedicato tempo e fatica per dare consistenza ai miei sogni a i miei progetti? Ora che le mille copie del volume stanno già circolando, sto scoprendo ogni giorno “vittime insigni”: persone che hanno collaborato in maniera determinante in quella che è stata per me una bella e intensa storia e che io non ho citato nel mio scritto. Ora sto arrossendo per il timore che la mia dimenticanza possa essere giudicata come una mancanza della dovuta riconoscenza, e mi sto aggrappando al fatto che il libro è nato in un mese, che ho novantun anni compiuti e che è stato certamente per me un azzardo impegnarmi in un’opera per la quale non sono attrezzato!

Per tutto questo sento il bisogno di farmi perdonare di queste dimenticanze che mi appaiono sempre più imperdonabili. Ne racconto una delle tante! Qualche settimana fa un parroco di Genova mi ha telefonato per chiedermi se potevo mandargli L’incontro perché gli interessava questa iniziativa pastorale. Gli chiesi istintivamente come avesse scoperto la testata e il mio nome, dato che per me Genova è sconosciuta come l’America.. Questo prete mi rispose come cosa assolutamente ovvia: “Internet”! Raccontai a suor Teresa questo episodio, per me sorprendente, ed ella, dopo aver pigiato alcuni tasti del suo computer, mi ha fatto scorrere sullo schermo una serie infinita di titoli e articoli che mi riguardavano e che io avevo assolutamente dimenticati!

Solo allora ho capito che uno dei miei “militi” che ho lasciato “ignoti” era Gabriele Favrin, un giovane ormai adulto che ho conosciuto fin da bambino e che da più di vent’anni trasferisce le vicende della parrocchia di Carpenedo e le mie personali in quella “enciclopedia” pressoché infinita, rappresentata da Internet, perché il mondo intero conosca le nostre imprese pastorali. Gabriele Favrin penso che a Mestre sia uno dei migliori esperti in questo settore e per me uno dei più generosi volontari a cui debbo la mia “notorietà”. Infatti, guardando la stampa cittadina, quando parla di me e delle mie imprese, cita solamente il mio nome come fossi “un personaggio” noto a tutti! “Scusami Gabriele!” Io non sarei “don Armando” e tanti concittadini non si sarebbero fidati e non mi avrebbero aiutato tanto, se tu non mi avessi messo sul capo “un’aureola” per me di certo non meritata. Purtroppo nel mio volume di “Gabriele” ve ne sono tanti, forse troppi! “Scusatemi!” Vi prometto che nel prossimo volume, che di certo non scriverò, non rimarrete più ignoti! Anzi, vi dico che se spingerete nei tasti di Internet, troverete che il vostro nome è già scritto nel “Libro del Regno!”

Due altri sogni

Qualche mese fa, in uno dei rari incontri che abbiamo avuto, don Gianni, il mio successore in parrocchia, sempre oberato da infiniti e assillanti impegni pastorali, mentre parlavamo dei progetti della Fondazione Carpinetum, mi ha chiesto a bruciapelo: “Quanti anni pensi di avere ancora da vivere, don Armando?” Questa bizzarra domanda, che di solito non si pone alle persone in età avanzata, mi ha lasciato perplesso e stordito. Consapevole del fatto che l’età media degli anziani di cui celebro il funerale in cimitero è compresa tra gli ottanta e i novant’anni, ho risposto: “Se mi va bene, avrò al massimo un paio d’anni!” Per natura, sono sempre stato un grande sognatore, ma vi confesso che oggi mi guardo bene dal sognare progetti che richiedono tempi lunghi per essere realizzati. Quando, mio malgrado, cado in tentazione, dico a me stesso “Cala, trinchetto“, come recitava il famoso spot televisivo.

A voi, cari lettori, che mi avete letto per tanti anni sulle pagine di lettera aperta, di Carpinetum, de L’incontro e su questo sito, e che forse qualche volta mi avete anche compatito, confido che da mesi c’è un pensiero che mi tormenta come una zanzara molesta: vorrei fare qualcosa per quei 500 senzatetto che dormono in balia dello smog che incombe sul cielo della nostra città.

A dire il vero, ho domandato a un amico geometra di realizzare un progettino per un alloggio di almeno una ventina di posti letto, da assegnare per un paio di euro a notte. L’idea è offrire una piccola stanza, sobria ed essenziale, dove si possa riposare. Chi mi conosce sa che per me i sogni non valgono quasi niente, se non diventano mattoni. La Provvidenza mi ha fatto incontrare una persona disposta ad accollarsi l’onere finanziario del progetto, però non è finita qui.

Qualche giorno fa, ho letto su Il Gazzettino che 20 mila studenti universitari faticano a trovare una camera in città per meno di 300 euro al mese. Di fronte a questa triste notizia, che è solo l’ultima delle molte che campeggiano sui nostri quotidiani, la mia mente si è messa di nuovo in moto e sono giunto a una conclusione: a fare investimenti improduttivi ci pensano già i Cinquestelle, quindi è meglio che io mi spenda per aiutare ragazzi intelligenti e volonterosi destinati a diventare architetti, medici, operatori economici e quant’altro, che potrebbero far uscire il Paese dall’inedia sociale. Sono convinto che credere nei giovani sia sempre un buon investimento. Di conseguenza, ho deciso di passare quanto prima il progetto, e il relativo finanziamento, alla Fondazione affinché possa valutare l’eventualità di aggiungere un’adiacenza all’ipermercato della solidarietà, che dovrebbe aprire i battenti entro la prossima estate. Cari lettori, voi cosa ne pensate?

Qualcuno mi ha proposto di aiutare la mensa dei poveri che, stando a quanto affermano i giornali, sarà trasferita da via Querini in un luogo imprecisato. A me, in realtà, risulta che saranno la Curia, la Caritas e il Comune a provvedere, quindi ritengo che per questo sia giusto cedere loro il passo. Comunque, se qualche concittadino avesse un suggerimento da offrirmi, sarò ben lieto di prenderlo in considerazione.

La credibilità dei praticanti

Molti anni fa ho letto una bella “vita” di Gandhi, grande testimone di fede e di solidarietà umana. Di questa lontana lettura m’è rimasto nel cuore soprattutto una dichiarazione, che mi pare sia terribilmente attuale. Ad alcune persone che, come me, erano rimaste colpite dal suo pensiero su Dio, sui rapporti che devono intercorrere fra gli uomini, sulla sua scelta radicale della non violenza, era sembrato che il pensiero fosse l’interfaccia della dottrina e della testimonianza di Cristo e un giorno gli chiesero: “Come mai non si fa cristiano?” Gandhi rispose: “Non avrei alcuna difficoltà ad aderire al cristianesimo, quello che però mi trattiene da questa scelta è il comportamento dei cristiani che conosco perché vivono nel mio Paese!”

Questi cristiani erano gli inglesi che dominavano, sfruttavano l’India e si comportavano da padroni nei riguardi degli abitanti di quel Paese. Credo che sia vero che alcune persone che coltivano ideali alti e nobili forse si tengono lontano dalla pratica religiosa, perché il comportamento di tanti fedeli che praticano la Chiesa è ben lontano dalla proposta di Cristo.

Recentemente mi è capitato di leggere su Sole sul nuovo giorno, il mensile dei Centri don Vecchi, una specie di decalogo sulla credibilità dei praticanti. Confesso che questa lettura che mi ha messo positivamente in crisi. Ho pensato quindi opportuno pubblicarlo sperando che faccia lo stesso effetto anche per i lettori de L’incontro e di questo blog.

Dopo venti secoli di cristianesimo sarebbe veramente ora che tutti capissimo che i cristiani non si riconoscono per le loro pratiche religiose, ma per la loro prassi di vita. Un giorno ho sentito un parroco che affermava che “i cristiani si riconoscono da come e quando si presentano alla balaustra” (un tempo si faceva la comunione inginocchiati sul gradino della balaustra che separava il presbiterio dall’aula della chiesa). Oggi io penso di dover affermare con convinzione e con forza che i cristiani si riconoscono dalla vita che conducono e dalla coerenza che hanno con la proposta di Cristo!

Il decalogo della credibilità
Non alludo alla cristianità in generale, ma a ciascuno di noi, parrocchiani dello nostra piccola parrocchia:

  • Se fossimo cristiani, non staremmo in questa chiesa stranieri l’uno accanto all’altro, gli anziani da questa parte, i giovani raggruppati dall’altra.
  • Se fossimo cristiani, non ci precipiteremmo fuori dalla chiesa, le chiavi dell’automobile già in mano, guardando diritto davanti a noi per non cogliere lo sguardo del vicino di casa, che potrebbe trovar posto nella nostra vettura.
  • Se fossimo cristiani, conosceremmo le preoccupazioni degli altri, forse anche il loro nome… Ma so io chi mi sta accanto, domenica dopo domenica? Non potremmo essere più estranei l’uno all’altro!
  • Se fossimo cristiani, che ci piaccia o no questa chiesa, non la frequenteremmo come un luogo qualunque ma come si frequenta la cosa del Padre e dei fratelli: con rispetto, amore, gioia.
  • Se fossimo cristiani, ci porteremmo subito verso il Tabernacolo, anziché nasconderci negli angoli o in fondo alla chiesa, magari fra le due porte, per scappar via subito, sollevati da una mal sopportata cerimonia; e parteciperemmo, invece, consapevoli ad ogni funzione.
  • Se fossimo cristiani, le mura di questa chiesa conterrebbero a stento una gran folla, poiché noi avremmo convinto gli altri, che oggi non sono presenti, quanto sia bello essere cristiani: attraverso la nostra letizia, la nostra sicurezza, la nostra disponibilità, attraverso tutta la nostra vita.
  • Se fossimo cristiani dovremmo essere facilmente individuabili, perché diversi dagli altri come la notte dal giorno, il sole dalla luna: e solo per il fatto che siamo cristiani. Ma non sarà che se ci distinguiamo dagli altri è per una preminenza che ci isola anziché per una partecipazione che ci accomuna?
  • Se fossimo cristiani non ci sarebbero nella parrocchia né povertà né bisogno, né solitudine. Nessuno, qui, vivrebbe inosservato né inosservato morirebbe.
  • Se fossimo cristiani, le nostre porte non abbisognerebbero di serrature, né le finestre di spranghe; polizia e tribunali sarebbero un di più, perché siamo cristiani.
  • In fondo, se fossimo cristiani potremmo cambiare il mondo solamente stando in parrocchia. Ma il mondo non cambia. E adesso sappiamo il perché. Amen.

Il nuovo libro di Federica

Il nuovo libro di Federica

Ricevo, fin troppo spesso, complimenti dai miei concittadini a motivo dei Centri don Vecchi. Sarei un baro se dicessi che essi non facciano piacere. Le nostre strutture si rifanno a una dottrina sicuramente nuova e più adeguata alle esigenze profonde e alle istanze degli anziani del nostro tempo. Ora, poi, che ci siamo aperti al recupero e all’aiuto delle famiglie che si sono sfasciate e alle emergenze abitative più gravi, sono ancora più contento! Ripeto, sono felice e orgoglioso perché i nostri centri fanno a gara per signorilità e confort con gli alberghi della nostra città. Sono orgoglioso perché riusciamo a offrire ai meno abbienti appartamenti eleganti e soprattutto assolutamente gratis, e ancora di più perche finalmente la nostra comunità cristiana, sta esprimendo segni di solidarietà umana e cristiana che rappresentano una punta di diamante in questo settore della nostra società.
Ma la ricchezza dei nostri centri non si ferma a questo punto perché ci sono dei residenti che sono delle autentiche perle di disponibilità, di impegno, di generosità e di servizio verso gli altri meno fortunati e soprattutto verso la fascia dei bisognosi che ogni giorno bussano alle nostre porte, sempre aperte, per offrire una risposta positiva e fraterna. Sono infinitamente orgoglioso di quelle donne che si danno da fare da mane a sera allo “spaccio alimentare” al magazzino dei mobili e dell’arredo per la casa, al “supermercato dei vestiti”, al “chiosco della frutta e della verdura” e al “banco alimentare”. Per non parlare delle signore che si spendono ogni giorno per offrire un tocco di gentilezza sia al “bar” che al Senior Restaurant, tutte gentili e servizievoli. Vi confesso che queste donne mi paiono “bellissime” e gli uomini nobili e simpatici.

Avverto di essermi un po’ dilungato in questa premessa, ma sentivo il bisogno di mostrarvi lo sguardo e l’orizzonte in cui si colloca l’autenticità di una “perla di grande valore” che pur si trova al Centro don Vecchi di Carpenedo. Alcuni anni fa mi chiese un appartamentino una splendida ragazza dagli occhi neri e luminosi, che cercava la vita indipendente. Il limite al movimento con cui convive sin dall’infanzia non ha fermato per nulla la sua vitalità, il suo coraggio, la sua voglia di vivere, di amare e di essere attiva nella nostra società! Federica Causin è il suo nome.

Questa ragazza, divenuta la mascotte del nostro piccolo mondo di anziani perché ha la metà dell’età media dei nostri residenti, si è laureata in Lingue, lavora presso una azienda dell’hinterland, è traduttrice di romanzi per una nota casa editrice ed è totalmente autonoma tanto che non si fa mancar nulla: vacanze, gite, vita associativa, amicizie, un serio apostolato e tant’altro! Data la sua cultura le è venuto spontaneo inserirsi fra i giornalisti del nostro prestigioso settimanale ed è diventata ben presto una “penna” profonda e piacevole. Qualcuno dei suoi numerosi amici l’ha spinta a pubblicare in proprio qualcosa che le usciva dalla sua esperienza specifica, tanto che la nostra editrice le ha pubblicato prima il volume Diversamente normali e poi Il volo del gabbiano, volumi che hanno avuto uno splendido successo di critica ma soprattutto dei lettori.

In questi giorni è uscita la sua terza fatica letteraria: Simmetrie asimmetriche, s’intitola questo libro veramente delizioso per impostazione grafica e soprattutto per i contenuti. Alcuni amici e un generoso tipografo le hanno dato una mano tanto che n’è venuto fuori un volumetto di 150 pagine splendido, interessante sia per il pensiero sempre fresco, entusiasta, positivo e ottimista, che per l’aspetto quanto mai gradevole.

Vi assicuro che è veramente un bel libro, così interessante e ricco di pensiero che ho sentito di sceglierlo pure per la mia meditazione mattutina! Io non sono un critico letterario, ma so che potrei farne una presentazione abbastanza dignitosa, perché se lo merita! Però desidero che siate voi, miei cari lettori, a scoprire i suoi pregi, perché sarà una bella sorpresa. Perciò invito i residenti dei Centri don Vecchi, i lettori de L’incontro e i mestrini tutti ad acquistarlo, perché sono assolutamente certo che tutti, colti o meno, lo leggerete volentieri e con profitto! Vi svelerò l’intimo segreto, che fa pure onore a Federica Causin: come ha già scelto per i volumi precedenti, ella devolverà tutti i diritti d’autore alla Fondazione Carpinetum. Cosa si può desiderare di più? Prendetelo, ne vale la pena. Il volume si può trovare presso le segreterie dei Centri don Vecchi, costa solamente 5 euro, ma ne vale moltissimo di più! Buona lettura!

Impegniamoci insieme

Qualche giorno fa un mio vecchio parrocchiano mi ha chiesto che cosa pensassi sulla Chiesa e sui cristiani di oggi. Gli ho detto qual è la mia opinione, però sono stato quanto mai amareggiato e deluso di non essere stato capace di farglielo capire con il mio comportamento e le mie scelte pastorali, nonostante sia stato per 35 anni parroco di questo concittadino.

Ho pensato quindi, ispirandomi a Impegno con Cristo di don Primo Mazzolari, di precisare un po’ meglio le mie convinzioni e le mie proposte. Vi suggerisco questi spunti:

  • Impegniamoci a costruire una “Chiesa”, non una “sagrestia”.
  • Impegniamoci a far maturare un popolo cristiano libero, ricco di speranza, capace di dialogo, senza complessi, non a dar vita a un teatrino con tanti manichini e tanti costumi che odorano di naftalina con attori che declamano senza convinzione e passione frasi imparaticce di un gergo abbandonato dai più.
  • Impegniamoci ad avere l’ebbrezza della nostra libertà e della nostra dignità, confrontandoci con amici e nemici, con inferiori e superiori, con rispetto, ma senza servilismi.
  • Impegniamoci e non lasciamoci tentare dalla vita facile, dalla carriera promettente o dalla tranquillità ad ogni costo, lasciandoci andare all’adulazione e al silenzio anche di fronte alla stupidità o al sopruso.
  • Impegniamoci ad aspettare il Risorto nel domani diffidando delle restaurazioni, dei vecchi codici e delle nuove regole ascoltando invece la voce del cuore e dello Spirito.
  • Impegniamoci ad osare, a vivere in attacco piuttosto che in difesa, a sbagliare per troppo amore piuttosto che per cialtroneria intellettuale, per fedeltà fasulla o per comoda obbedienza formale.
  • Impegniamoci a scoprire il volto del Maestro e del Salvatore nel cuore, nelle parole, e nelle scelte degli uomini e delle donne che incontriamo sulla nostra strada piuttosto che nei vecchi “santini” o nei testi logori della vecchia teologia.
  • Impegniamoci ad usare con rispetto e venerazione le parole senza ubriacarci di frasi fatte vecchie o moderne, ricordandoci sempre che un fatto piccolo vale mille pero’.
  • Impegniamoci ad aver paura del ghetto, della gente che ha risolto tutto, dei cristiani che amano le serre, temendo ancora la mela marcia e il compagno cattivo.
  • Impegniamoci perché anche l’ultimo ateo possa capire e condividere la scelta di aiutare i poveri.
  • Impegniamoci a ricordare che il Signore chiama a ogni ora del giorno ogni creatura, e che i fiori belli nascono e fioriscono dentro e fuori dalla nostra comunità.
  • Impegniamoci a ricordare che lo Spirito Santo è venuto per i capi ma anche per i poveri gregari come noi.
  • Impegniamoci infine perché tutti sappiano che saremo giudicati sull’amore e non sulle tesi dell’ultimo sociologo e dell’ultima opera scritta da un teologo.

La mia “parrocchia”

Dimoro al Centro don Vecchi da ormai tredici anni, ossia dal giorno in cui sono andato in pensione, dopo aver esercitato per trentacinque anni il servizio di parroco a Carpenedo.

Data la mia veneranda età, prossima ai novant’anni, sono un inquilino come tutti gli altri: vivo in un quartierino di quarantanove metri quadrati e pago la pigione come ogni altro residente. Non svolgo più alcuna mansione all’interno della Fondazione, se non quella di curare l’aspetto religioso dell’aggregato delle “sei parrocchiette”, dei sei centri Don Vecchi, per un totale di poco più di cinquecento anime, come si dice in gergo ecclesiastico.

Svolgo la mia attività pastorale anche nella chiesa del cimitero che, per amore verso chi la frequenta, chiamo “la cattedrale tra i cipressi”, dove trovo più consolazioni e conforto di quante ne abbiano i preti che reggono maestose cattedrali gotiche o romaniche. I miei “fedeli” sono veramente cari, perché ogni domenica gremiscono la chiesa e creano un clima di calda fraternità e di amicizia che mi conforta e scalda il mio cuore di vecchio prete, fortunatamente ancora appassionato di anime.

Ma torniamo ai Don Vecchi. Da sognatore quale sono sempre stato, pensavo che una così bella struttura, creata dalla mia vecchia comunità cristiana per dare un segno concreto di attenzione verso il prossimo, sarebbe diventata una specie di “convento” dove dedicarsi alla preghiera, all’amore fraterno e all’attesa del vicino incontro con il Signore, però le mie aspettative sono state deluse. Nella mia attuale piccola “parrocchia”, infatti, ci sono anime pie, devote e zelanti, ma non mancano gli indifferenti, i non praticanti e forse c’è anche qualche non credente.

Che cosa faccio per portare in paradiso questo piccolo gregge? Tento di esercitare al meglio la carità aiutando in qualsiasi modo chiunque si trovi in difficoltà per ragioni economiche o di salute e non goda dell’attenzione dei figli, convinti di aver sufficientemente provveduto, perché hanno trovato loro una collocazione in quella che ritengono sia una “casa di riposo”. In realtà, è in assoluto la struttura più signorile e confortevole e costa meno di due terzi rispetto ad altre sistemazioni.

Ogni sabato celebro la Messa e predico la confortante parola del Signore, con tutta la fede e l’entusiasmo di cui sono capace, anche se purtroppo non vedo i risultati nei quali continuo a sperare. Nonostante le mie “predichette” e i miei costanti inviti, soltanto la metà dei residenti del Don Vecchi è presente alla celebrazione ogni settimana. La scarsa assiduità di questi anziani che, come me, sono a un passo dall’incontro finale con il buon Dio, è una spina che mi addolora e mi preoccupa perché so che il Signore mi domanderà “dove sono gli altri tuoi fratelli?”.

Da un paio di settimane ho ripreso la visita pastorale ai residenti, quella pratica che un tempo si chiamava “benedizione delle case” e che ho esercitato ogni anno per le duemilaquattrocento famiglie della parrocchia di Carpenedo.

Il risultato, da un punto di vista umano, è splendido, gratificante, oserei dire esaltante, perché credo che ben pochi preti ricevano le manifestazioni d’affetto e di riconoscenza che accompagnano le mie visite in questi giorni. Mi viene da pensare che la stragrande maggioranza dei residenti mi voglia davvero bene, visto che spesso la riconoscenza si manifesta con un abbraccio caldo e fraterno che mi riempie il cuore di gioia. Ho, però, un cruccio, perché, io che vorrei tutto, mi dico che va bene, ma so che potrebbe andare meglio.