L’esempio di un’Italia migliore

Ricordo che quando da bambino andavo a catechismo, c’erano sulla parete dell’aula dei cartelloni molto elementari che illustravano la dottrina cristiana. Ce n’era uno che raffigurava una bilancia: su un piatto c’era una grossa pietra, quasi un macigno, su cui c’era scritto “vizio”, mentre sull’altra c’era scritto “virtù”. C’era invece un sassolino quando chiesi all’insegnante come mai i due pesi si bilanciavano, mentre uno era tanto pesante e l’altro tanto leggero, essa mi rispose che agli occhi di Dio il bene vale molto di più che il male. Imparai in seguito il discorso sul peso specifico, per cui non è l’ingombro che determina il peso, ma il contenuto.

Quella lezione mi ha aiutato per tutta la vita a non lasciarmi disperare per tutta la cattiveria che i giornali mi mettono ogni giorno sott’occhio, perché sono certo che in qualche angolo del nostro Paese ci sono persone che in umiltà e silenzio producono virtù dal peso specifico enormemente maggiore agli occhi di Dio del male, per cui si mantiene l’equilibrio, pur precario, tra vizio e virtù.

L’altro ieri ho fatto una riflessione amara sulle quaranta o trenta auto blu al servizio del Quirinale, nonostante il nostro presidente da una vita si proclami difensore dei lavoratori e dei poveri. Oggi una signora che vive “in esilio” al quinto piano, perché non ce la fa a scendere le scale, avendo ricevuto dai suoi parenti, in occasione dei suoi 87 anni, una somma per lei quanto mai consistente – 250 euro – ha incaricato una signora della sua parrocchia di portarmeli tutti per Campalto perché, a suo dire, lei con la pensione sociale può vivere anche senza quei soldi.

Io conosco la sua storia: vedova giovanissima con due bambine, allora senza pensione, perché i soldati americani che avevano messo sotto con la loro auto suo marito, non erano in servizio! Fu costretta a mettere le sue bambine in collegio a Mantova, ove le andava a trovare una volta al mese e, “per fortuna” riuscì a trovare un posto come lavandaia in un albergo a Venezia (a quel tempo si lavava tutto a mano e perciò da mattina a sera era al mastello, estate e inverno) e dormiva nella soffitta dell’albergo perché non aveva casa. Una storia di sacrifici, lacrime, solitudine, mentre dove lavorava, vedeva il lusso, lo sperpero e il disordine morale dei clienti dell’hotel.

Questa donna che vive sola, quando racimola qualche soldo, pare che non possa resistere senza darmelo per i vecchi poveri. M’ha telefonato dieci volte perché desiderava che i suoi 250 euro – una ricchezza per lei – mi giungessero il più presto possibile.

Questo cuore di donna, le sue parole disadorne ma calde e generose, mi ricordano la pietruzza che faceva da contrappeso al masso nel cartellone dell’aula di catechismo. Dopo l’ultima telefonata ho concluso che nonostante Napolitano, la casta, i faccendieri e gli uomini di partito corrotti e corruttori, posso ancora sperare in un’Italia migliore.

Le vacanze e la ricerca della felicità

Quest’anno il tempo, che tutti dicono matto, ma che forse è più sano di quanto non si pensi, non ha sempre favorito quella dozzina di milioni di italiani che non hanno creduto di poter sopravvivere senza salire in auto, sopportare ore e ore di coda per raggiungere la “terra promessa” per le vacanze.

Ormai è universalmente diffuso il mito che non si può trascorrere le ferie senza fare qualche centinaio di chilometri e vivere una vita scomoda nei locali di paesi che normalmente ospitano qualche migliaio di persone, ma che per le vacanze estive o invernali ne accolgono dieci volte tante.”Le smanie della villeggiatura” del nostro Goldoni in questi ultimi tre secoli è aumentata a dismisura, non solamente tra i patrizi, ma soprattutto nel popolo, tanto che ormai quasi nessuno, a eccezione dello sparuto numero dei pochi “uomini liberi” riesce a sottrarsi a questo mito sociale.

Quest’anno in luglio, abbastanza di frequente in occasione di certe giornate balorde, ventose o piovose, m’è venuto da pensare e compiangere tutta quella povera gente che in montagna, ma soprattutto al mare, è stata costretta a vivere in locali ristretti, non sapendo come far passare il tempo ai propri piccoli giustamente irrequieti. La mia partecipazione emotiva a queste “passioni” estive era resa più acuta dai vecchi ricordi dei campi scout, quando i bambini non avevano messo a riparo la legna per cuocere e quando, dovendo stare in tenda, fatalmente bisticciavano.

Io so di essere un grillo parlante che arrischia di essere appiccicato al muro per il parlare poco gradito, però ritengo doveroso ripetere che il benessere e la felicità non stanno fuori, aldilà dei mari, o comunque lontano da noi, come in Croazia, in Sardegna, in Grecia o alle Maldive, ma dentro di noi, nella capacità di godere di ciò che è possibile e nel rapporto armonioso con la nostra gente e col nostro territorio.

Speravo che la batosta dell’economia potesse far rinsavire la nostra gente, ma ohibò! pare abbia sortito l’effetto contrario.

E’ tempo di chiedere coerenza alle istituzioni e alla politica!

Qualche tempo fa la Lega ha stuzzicato “il Colle” a motivo delle auto blu. La difesa d’ufficio è stata piuttosto maldestra ed ipocrita in quanto si disse che le auto non erano quaranta, ma trentacinque e si soggiunse che solamente quattro auto blindate di grossa cilindrata erano riservate al presidente ed erano quattro per ovvii motivi di manutenzione. Aggiungendo poi, con faccia tosta, che erano a disposizione del presidente altre tre o quattro automobili, ma erano auto di rappresentanza.

Sono discorsi evidentemente che non posso e non voglio accettare. Io ho una Punto usata e vivo fin troppo bene; ora poi che me l’hanno riverniciata, mi vergogno perfino a muovermi con un’auto troppo di lusso.

Un tempo invitai pubblicamente il nuovo Patriarca, che era Albino Luciani, di fare il suo ingresso in diocesi in Cinquecento perché a quel tempo viaggiavo anch’io in Cinquecento. Il presidente Napolitano è un uomo come me, il servizio che adempie nella società è diverso dal mio, però non è certamente più nobile. Allora perché deve avere a disposizione sette o otto macchine?

Ho sentito che Napolitano ha fatto dire, in maniera ufficiale, che il Quirinale, a motivo della crisi, ha tagliato – mi pare – centocinquanta milioni di euro. Bene! Perché non l’ha fatto fin da subito, se poteva vivere e fare il presidente anche senza tutto quel denaro? Se adesso lo fa, poteva quindi farlo anche prima!

Napolitano è notoriamente un uomo di sinistra, quindi dovrebbe essere dalla parte dei poveri. S’è mai domandato se i contadini e gli operai dei quali è presidente possono vivere senza tutte quelle automobili e possono privarsi di tutti quei milioni a motivo della crisi? Cosa direbbero i mestrini se io viaggiassi in Ferrari? Avrebbero un miliardo di motivi per criticarmi e non aver fiducia! Perché io e i sessanta milioni di italiani dovremmo aver fiducia e rispetto per un presidente che “predica bene ma razzola male?”

Soggiungo che questi discorsi io li ho fatti anche per i capi della mia “congregazione” perché questi discorsi valgono per tutti.

Credo che sia tempo che noi italiani parliamo chiaro con i nostri rappresentanti, chiediamo un minimo di coerenza, oppure li copriamo con tutto il disprezzo possibile. Solamente la coerenza e la testimonianza sono i segni di onestà morale che meritano rispetto, tutto il resto è solamente ipocrisia che va smascherata senza reticenza alcuna.

La lezione pastorale delle altre chiese

Una delle domande a cui finora non sono ancora riuscito a rispondere è quella di come facevano i vecchi preti di un tempo e come fanno certe confessioni religiose attuali a passare ai fedeli delle convinzioni religiose tanto profonde ed esemplari da reggere a tutte le difficoltà della vita.

Da quanto ne so io la pastorale di un tempo era piuttosto elementare: i parroci visitavano gli ammalati, benedicevano le case, raramente facevano catechismo, perché lo delegavano alle suore dell’asilo, le quali si limitavano quasi sempre a far imparare a memoria le formule del catechismo di san Pio X, e facevano la loro predichetta alla domenica. Non c’erano consigli pastorali, corsi di teologia o di biblica, associazioni, commissioni, foglietti parrocchiali, preparazioni ai vari sacramenti; eppure sfornavano cristiani che duravano per tutta la vita! Come pure mi sorprende e meraviglia l’attività pastorale della Chiesa ortodossa, quanto mai elementare.

Ho letto ne “Il giornale dell’anima” di Papa Roncalli che un suo collega vescovo ortodosso di una diocesi greca, gli confidava che lui era solamente preoccupato che i suoi pope sapessero incensare bene e cantare con voce spiegata! Eppure io ricordo che un giorno un signore di religione greco-ortodossa, che viveva a Mestre, mi portò in canonica un suo ragazzino che aveva commesso un furtarello nel supermercato di Coin. Essendo egli venuto a sapere della marachella, condusse prima il suo piccolo a chiedere scusa al direttore dell’ipermercato e poi lo portò da me dicendo: «Mio figlio ha sbagliato ed è doveroso che domandi perdono a chi egli ha danneggiato, ma ha mancato pure nei riguardi di Dio e perciò è doveroso che domandi scusa almeno ad un suo rappresentante in terra». Non mi è capitato spesso di incontrare una tale sensibilità religiosa neppure tra i miei parrocchiani supernutriti di teologia.

Stamattina poi, nell’opuscolo di una Chiesa metodista, su cui facevo meditazione, ho letto una confidenza di un fedele americano di quella Chiesa che mi ha stupito ed edificato. Ecco quanto ha scritto: “Ho traslocato con la mia famiglia in un nuovo quartiere. Con mia moglie ci siamo subito posti il problema di come stringere una relazione cristiana con le famiglie della via. Abbiamo deciso perciò di pregare ogni giorno per una di queste famiglie. Abbiamo voluto parlare a Dio dei nostri vicini, prima di parlare ai nostri vicini di Dio, poi abbiamo invitato una famiglia alla volta per conoscerci, volendo che attraverso di noi si sentissero vicini a Dio. Abbiamo partecipato alle loro gioie e ai loro dolori stando accanto ad essi, ma quello che ci ha dato gioia è che con quasi tutti abbiamo potuto pregare assieme costruendo così una piccola comunità di fede”.

Tutto questo m’ha decisamente messo in crisi; dovrò rivedere tutto il mio impianto pastorale ed ascetico, cominciando a buttare un ponte con i vicini di casa del “don Vecchi” di Campalto, che mi hanno messo i bastoni fra le ruote e sono ancora alquanto bellicosi.

Ancora sulle domande esistenziali e l’assenza di iniziativa dei sacerdoti

Qualche tempo fa una persona che s’è definita agnostica (significato letterale del termine: non conoscenza e significato sostanziale; persona che, pur interrogandosi, non arriva ad affermare o a negare una verità che viene invece affermata dalla maggioranza della gente) mi ha scritto per criticare certe mie nette prese di posizione nei riguardi di certi atei militanti che irridono alla fede dei credenti.

E’ vero. Io sono stato molto duro verso certe persone che, avvalendosi della loro cultura e della loro intelligenza, mettono in crisi persone semplici del popolo che hanno come quasi unico supporto nelle difficoltà della vita, la fede in Dio e la speranza di una giustizia divina, perché in questo mondo capiscono che non saranno sempre soccombenti.

Capisco che nelle università o nei circoli di cultura si dibattano le tematiche che riguardano la vita, Dio e l’aldilà, ma togliere la fede e la speranza dal cuore dei semplici credo sia un vero sacrilegio. Sono stato ben contento di pubblicare sul numero de “L’incontro” di due settimane fa la presa di posizione, netta ed autorevole, di un teologo-giornalista che tacita, con argomentazioni stringenti, la sicumera saccente ed arrogante di quelle persone che guardano sempre dall’alto in basso i credenti, quasi che i primi fossero i nuovi piccoli padreterni.

Tutto questo non libera anche le persone più umili dal porsi delle domande e arrivare a delle risposte che, almeno per loro, siano convincenti. San Pietro invita i discepoli di Gesù ad essere sempre pronti “a rendere ragione della loro speranza”.

Oggi l’aggiornarsi mediante una sana lettura ed una riflessione personale adoperando il “buon senso”, credo possa farci arrivare a delle conclusioni che facciano da supporto alla nostra fede. Bisogna però porsele queste domande!

Ricordo l’argomentazione di un vecchio padre carmelitano il quale diceva: «Se io domando a una qualsiasi persona che sta camminando per strada “dove stai andando?” di certo costui è in grado di darmi una risposta. E perché, se io faccio la stessa domanda nei riguardi della vita, questi non dovrebbe essere in grado di dare ancora una risposta?»

Oggi però credo che noi sacerdoti dobbiamo stimolare un po’ di più questa ricerca, invece vedo poco in giro a questo proposito. Proprio in questi giorni mi è capitato in mano un opuscoletto edito da don Emilio Torta, parroco di Dese, attraverso il quale, quasi tenendo per mano i suoi parrocchiani, con delle bellissime immagini e delle semplici frasi, li conduce a darsi una risposta sul grande problema del perché della vita. Spero che questi sussidi si moltiplichino nelle nostre parrocchie che, purtroppo, danno spesso tutto per scontato.

Che tristezza un commiato così!

Oggi tutto è oggetto di standardizzazione perché prodotto in serie, con meno fatica e meno costo. Questo modo di operare impedisce la nascita del capolavoro, che per natura deve essere opera unica e toglie dignità ed, oserei dire, sacralità ad ogni evento che riguarda la vita dell’uomo. Questo metodo di vivere impoverisce terribilmente ogni attività umana e tutto ciò investe la nostra esistenza.

Qualche giorno fa sono stato costretto a fare delle considerazioni sul modo di accomiatarsi da una persona cara che il Signore ha chiamato a sé, seguendo le operazioni e la cornice del funerale di una creatura che, come quasi sempre, non conoscevo.

All’ora concordata il defunto è arrivato da non so dove, accompagnato da quattro addetti alle pompe funebri; la bara non aveva né Cristo né un fiore. La seguiva un gruppetto di cinque o sei persone, che hanno partecipato un po’ annoiate alla messa funebre. Terminata la messa, i quattro soliti addetti ripresero il carrello, lo infilarono nell’auto funebre, e via di corsa a Marghera per la cremazione, mentre i “famigliari” sono rimasti vicino alla chiesa a chiacchierare. Non una lacrima, non un grazie, perché forse per loro anche il sacerdote è ritenuto un addetto alle pompe funebri e rientra nel “tutto compreso”.

Solamente cinquant’anni fa, quando ero cappellano a San Lorenzo, la campana annunciava la morte di un componente della comunità, poi, il giorno del funerale, una folla partecipava al rito funebre. La liturgia era meno sbrigativa, la croce precedeva il corteo funebre che si snodava da San Lorenzo al cimitero; la seguivano decine di corone di fiori, quattro amici del morto tenevano i cordoni del carro funebre, le donne dietro il carro recitavano il rosario, mentre le serrande dei negozi di Piazza Ferretto venivano abbassate in segno di partecipazione e le campane diffondevano i mesti rintocchi.

Al cimitero poi, i becchini coprivano con solenni palate la fossa e la gente ritornava mesta, parlando delle qualità e delle vicende di vita del loro estinto.

Io non rimpiango il passato e ritengo che ogni tempo abbia i suoi riti e i suoi modi di celebrare gli eventi più significativi della vita, ma penso altresì che quando viene eliminata ogni “liturgia” religiosa e “civile”, quell’evento si riduca ad una realtà banale che non pone problemi, non suscita sentimenti e soprattutto impoverisce ulteriormente la dignità e il significato del nostro vivere.

Va perdendosi la voglia di porsi domande esistenziali

Abbastanza di frequente mi capita di entrare in crisi perché non riesco a comprendere certe posizioni che sono assunte dalla cultura del nostro tempo. Non capisco quando certi valori e certi principi sono superati da un punto di vista razionale e quando invece anche in questo campo del pensiero le posizioni ideali e il modo di pensare subiscano le variazioni della moda.

Fino a pochi anni fa si diceva che il pensiero corrente era determinato dall’esistenzialismo, ossia l’importante è vivere senza faticare a porsi tanti problemi. Ora invece i pensatori più noti, che un tempo erano chiamati filosofi, affermano che la vita galleggia, mantenendosi a galla sopra un pensiero e delle verità “liquide”, ossia morbide, adattabili. Comunque pare che tutti siano d’accordo nell’affermare il superamento della metafisica e quando si parla di questa visione della vita, la stragrande maggioranza di chi si pone qualche problema sull’interpretazione della vita ritiene la metafisica, cioè la possibilità di scoprire dei valori assoluti, come un’anticaglia da destinare alla soffitta o alla rottamazione.

Questa “moda” di pensiero – almeno io la ritengo tale – mette in crisi tutto l’impianto del pensiero cristiano, perché si nega alla ragione d’avere strumenti validi di indagine per arrivare a verità certe per tutti e sempre.

Un tempo la gente, anche la meno colta, si poneva la domanda: “Esiste Dio e chi è Dio? Che senso ha la vita, da dove vengo, che cosa ci sto a fare a questo mondo, dove sto andando?” Sono convinto che se salta questo impianto mentale salta tutto e allora si che l’uomo galleggia in balia degli eventi casuali ed insignificanti, finché non va a fondo nel mare sconfinato del tempo.

Io sarò superato finché si vuole ma ritengo che se salta la convinzione che l’uomo possa arrivare a verità certe, magari con fatica, magari non con precisione assoluta, l’uomo sia destinato ad andare alla deriva finché le onde non lo depositano sulla battigia come un relitto. Io ho ancora la pretesa di pensare che l’uomo debba porsi le domande antiche su Dio, sulla vita, sull’oggi e sul domani e che possa arrivare a qualche certezza che dia razionalità e significato alla propria vita.

La moltiplicazione dei pani, una lezione di vita quantomai attuale

Qualche domenica fa ho terminato il mio sermone a commento del miracolo della “moltiplicazione dei pani”, miracolo in cui si narra come Cristo abbia sfamato una moltitudine di gente, affermando che ritenevo che il racconto evangelico dello svolgersi delle modalità con cui Cristo compie il miracolo è veramente esemplare.

Soggiungevo che sarebbe stato opportuno che la Bocconi di Milano e la Facoltà di economia e commercio dell’Università di Ca’ Foscari a Venezia, adottassero quel brano del Vangelo come testo di insegnamento per i futuri commercialisti.

Mi piace ritornare sui passaggi dell’intervento, che io ritengo veramente esemplari e quanto mai attuali.

Innanzitutto Gesù parte con la simpatia verso la gente, atteggiamento psicologico essenziale per stabilire un rapporto positivo con chi è in difficoltà.

Secondo: la testimonianza di Gesù, che costituisce un insegnamento di straordinaria efficacia, è quello di un Cristo che si occupa dei bisogni elementari e fondamentali dell’uomo. Credo che una lettura del miracolo in chiave spiritualistica sia una forzatura ed un tradimento del testo. Ho letto il commento di un mio collega che interpretava il dono del pane come l’offerta dell’Eucaristia. Questo lo ritengo un discorso illecito. Cristo si occupa dell’uomo reale, della sua corporeità che spesso manifesta le istanze più reali dell’uomo di tutti i tempi, esigenze che non sono seconde a quelle dello spirito.

Terzo: mentre gli apostoli tentano di liberarsi della gente che ha fame, appoggiandosi al fatto delle loro scarsità economiche, Cristo insegna loro che le nostre responsabilità non nascono dalle nostre risorse finanziarie più o meno adeguate, ma dalla gravità del bisogno in cui si trovano i fratelli. I bisogni devono determinare comunque l’intervento, non le risorse su cui si può contare.

Quarto: Cristo, accettando il contributo apparentemente insignificante della merenda del bambino, ci insegna che ognuno deve fare sempre la sua parte, anche quando essa sia inadeguata e risibile di fronte al bisogno.

Quinto: Gesù “alza gli occhi al cielo” per ribadire che “a Dio nulla è impossibile”. Il discepolo di Gesù deve essere consapevole che egli deve offrire la propria disponibilità, ma è quel Dio “che veste i gigli del campo e nutre gli uccelli del cielo” a non trascurare di certo i suoi figli di adozione.

Infine l’ordine: “Raccogliete gli avanzi!” è un invito alla sobrietà ed una condanna netta allo sperpero. Non so a quale dottrina si rifaccia il ministro delle finanze Tremonti, ma se prendesse in considerazione questa pagina del Vangelo, non correrebbe il rischio di errori e di recriminazioni da parte dei sindacati e dell’opposizione.

Maria, presenza rassicurante per tutti

La tradizione della Chiesa dedica il sabato al culto della Madonna. Con la resurrezione di Gesù, che avvenne il giorno dopo il sabato – il primo giorno del Signore per gli ebrei – per i cristiani il giorno del Signore divenne la domenica. Allora la Chiesa, consapevole che da secoli e secoli il sabato era dedicato al Signore, pensò bene di non declassarlo dedicandolo alla Madonna.

Penso che sia stata una decisione saggia ed opportuna perché tutto questo può aiutare i cristiani a ricordarsi di avere una Madre e di poter contare in ogni circostanza sulla sua comprensione e sul suo aiuto.

Io, da sempre, nella breve meditazione, fatta ad alta voce durante la celebrazione dell’Eucaristia al sabato, non dimentico mai di fare un cenno alla Madonna. Ritengo che sia di grande consolazione e di grande aiuto avere la consapevolezza di avere Qualcuno alle nostre spalle a cui potersi rivolgere nei momenti di difficoltà; e chi mai ci può offrire un’attenzione ed un aiuto disinteressato se non la Madre delle madri?

Ogni sabato cerco di ricordare Maria, guardandola ogni volta da una angolatura diversa, in modo che i fedeli ne abbiano nel cuore un’immagine più completa possibile. Sabato scorso confidai al mio piccolo gregge che a me piace quanto mai pensare alla Madonna nella cornice del miracolo di Cana.

Cristo e gli sposi tengono la scena e sono i protagonisti dell’evento, mentre la Madonna se ne sta appartata, quanto mai silenziosa e discreta, pare presente solamente dietro le quinte.

Eppure Ella segue lo svolgersi della festa nuziale con attenzione e vi partecipa col cuore di Madre. Al momento del bisogno interviene con dolcezza, ma pure con grande determinazione, e pare quasi che l’evangelista, sottolineando la perplessità di Gesù, voglia indicare da quale posizione di forza parte l’intervento della Vergine e come ottenga il miracolo del Figlio.

Concludevo affermando che la Vergine, a cui Cristo, prima di morire, chiese di adottarci come figli, se ne sta sempre silenziosa ed appartata a seguire le vicende della nostra vita, ma qualora avessimo bisogno della sua mediazione, possiamo di certo contare sul suo intervento.

Sapere di questa presenza è per tutti noi motivo di sicurezza, perché così non ci sentiremo mai soli ed in balia degli eventi.

Signore, dacci un Patriarca che sia parroco dei parroci!

Credo che presto la stampa ci darà la notizia definitiva su chi sarà il Patriarca di Venezia, il nostro Vescovo.

Don Sandro Vigani, direttore di Gente Veneta, s’è lamentato ed ha criticato chi, con leggerezza, fa pronostici e passa illazioni sul nome del nuovo Patriarca; dice che non è corretto e rispettoso. Mi guardo bene dal contraddire questo monito del mio illustre nipote.

Tutto questo però non mi vieta di esprimere un auspicio che rivolgo al Signore come preghiera. Lo feci già nel passato scrivendo una “lettera aperta” al Padreterno quando aspettavamo il successore di Papa Roncalli e il Signore mi ascoltò fin troppo; ora tento di nuovo, però domando un qualcosa di diverso da ciò che ho chiesto un tempo e che l’esperienza mi suggerisce. In quell’occasione, ormai lontana scrissi al buon Dio che ci mandasse un patriarca che facesse il suo ingresso a piazzale Roma non con una Mercedes scortata da due motociclisti della polizia stradale, ma in Cinquecento e poi prendesse il vaporetto di linea; che rifiutasse il presentatarm dei militari, che arrivasse con una tonaca che per sorreggere la quale non servisse il caudatario.

Il Signore, bontà sua, mi ascoltò, ripeto fin troppo, mandando Albino Luciani che era straricco di modestia e di umiltà, tanto che in occasione delle cresime, me lo vidi un giorno arrivare da Favaro, tutto sudato, in bicicletta!

Forte di questa esperienza positiva, questa volta chiedo al Signore un vescovo “mediocre”. Mi spiego: non un vescovo in odore di diventare Papa, o che ambisca che Venezia diventi la cerniera tra l’oriente e l’occidente, o che sia richiesto a parlare ovunque in ogni occasione dai massimi sistemi, ma un vescovo alla Agostini, il vecchio Patriarca che si interessava della dottrina cristiana, delle prediche di noi preti, che controllava se fossimo per tempo al confessionale e di come andavano le associazioni delle parrocchie.

Sogno un Patriarca che sia un buon padre di famiglia, così alla buona che partecipi ai drammi dei preti, condivida le loro difficoltà, sia in visita pastorale ogni giorno, così semplicemente, alla chetichella, per incoraggiare, consolare, pungolare e, perché no? anche pretendere!

Penso che sia difficile anche per il Signore trovare un vescovo di eccellenza, ma donarci un vescovo che sia il parroco dei parroci, dovrebbe essere meno faticoso e più facile reperirlo. Chissà che il Signore non mi ascolti anche questa volta!

Il ruolo del parroco

Ogni tipo di “mondo” ha i suoi problemi specifici, le sue speranze, le sue illusioni e perfino il suo tipo specifico di chiacchiere.

Il mondo che si rifà alla Chiesa non è, da questo punto di vista, diverso da quello degli altri mondi. E’ comprensibile che io conosca e mi interessi di più di questo tipo di realtà avendoci speso dentro una vita ed essendomi interessato quasi esclusivamente di esso.

Nel passato ho fatto parte per alcuni anni di un organismo ecclesiale che si interessava di valutare l’opportunità o meno di elargire aiuti economici alle parrocchie in difficoltà che ne facevano richiesta. In realtà la commissione di cui facevo parte si doveva limitare ad istruire una pratica e ad esprimere un parere; erano poi altri ad erogare il denaro tenendo forse anche conto dei pareri della mia commissione. Le richieste provenivano quasi sempre dalle stesse parrocchie e le motivazioni pure erano sempre le stesse: appartenenza ad una zona popolare, di gente povera e poco incline a farsi carico dei bisogni della loro comunità.

Io votavo quasi sempre contro, perché notavo in queste richieste una mentalità da questuanti, poca iniziativa, pigrizia di fondo e soprattutto richieste che non erano quasi mai motivate dalla solidarietà.

Alcuni colleghi della commissione dissentivano perché pensavano che certe comunità fossero più fortunate, mentre altre meno e perciò più bisognose di aiuto.

Io sono sempre stato, a parere degli altri, in parrocchie fortunatissime, ricche, generose e con parrocchiani attenti e sensibili ai bisogni della Chiesa. A mio parere nulla di meno vero. Rimango invece convinto che la fortuna e la sfortuna, la prosperità o la miseria di una parrocchia dipende quasi esclusivamente dalla lucidità delle scelte, dalla coerenza, dalla sobrietà di vita e dall’impegno del parroco, dalla sua disponibilità a lavorare e dal suo altruismo.

Gli ebrei stanno facendo fiorire il deserto, mentre gli arabi stanno desertificando le terre fertili, il nord produce ricchezza, mentre il sud produce rifiuti, ove ci sono parroci impegnati e coerenti le chiese si riempiono, ove invece i parroci si dedicano al computer, all’automobile ultimo modello e alle vacanze, le chiese si svuotano.

Questa è la realtà, inutile nascondersi dietro un dito rifugiandosi in motivazioni ambientali di comodo.

Anche in questo campo l’assistenzialismo perpetua la miseria, mentre lo stimolo, il pungolo e il mettere la gente di fronte alle proprie responsabilità, forse è la posizione più onesta e più propositiva.

La visita del Sindaco Orsoni al don Vecchi

Il dottor Boldrin, membro della Fondazione che governa i Centri “don Vecchi”, qualche tempo fa ci ha portato il sindaco Orsoni.

Il noto avvocato veneziano era già venuto al “don Vecchi” per la campagna elettorale. In quella occasione gli avevamo prospettato le problematiche del Centro, ma m’era parso così sperduto, frastornato per i tanti incontri, per i tanti problemi che il Comune di Venezia ha da sempre.

In verità gli avevo già mandato nei mesi scorsi, quando ero pressato dalla gran paura di non farcela a pagare Campalto, due lettere accorate per chiedere aiuto. Non avevo ricevuto risposta alcuna e ciò mi aveva un po’ indispettito e deluso. Poi, leggendo i giornali, che da mesi e mesi non hanno fatto che parlare della crisi finanziaria in cui il Comune di Venezia si dibatte, e conoscendo purtroppo, per esperienza diretta, la burocrazia comunale, dispersiva ed inefficiente – infatti i giornali in questi ultimi tempi ci hanno informato che è pure corrotta – ho provato un po’ di pena, immaginandolo indifeso ad annaspare fra infiniti problemi. Motivo per cui l’ho risparmiato dalla mia critica che non vorrebbe guardare in faccia nessuno e che esige efficienza, servizio e attenzione particolare per i più poveri.

Il sindaco ci ha ascoltato paziente; mi è sembrato che abbia condiviso i nostri sforzi tesi solamente a dare una mano al suo e nostro Comune, per cui l’amministrazione dovrebbe esserci eternamente riconoscente, perché noi facciamo presto, a poco prezzo e in maniera efficiente, quello che per il Comune richiederebbe anni e a costi astronomici.

In verità l’avvocato Orsoni non si è compromesso più di tanto, comunque credo che almeno egli ci abbia aperto la porta perché il discorso possa continuare con i suoi collaboratori.

Anche in questa occasione il sindaco mi ha ripetuto che gli ho fatto catechismo quando era bambino. Io non ricordo il bimbetto di cinquant’anni fa, ma di certo gli ho insegnato che il buon Dio vuole che amiamo il nostro prossimo, specie quello più indifeso e quello più povero. Spero tanto che egli non abbia dimenticato questo insegnamento del suo prete-catechista e mi dia una mano per aiutare i poveri.

Profumo di fraternità

Recentemente mi sono recato al “don Vecchi” di Marghera per informare i residenti che i due volontari che quattro anni fa si sono assunti la responsabilità di gestire il Centro, lo hanno avviato e seguito fino ad oggi, se ne andavano da Marghera per aprire il nuovo Centro e far nascere la nuova comunità di Campalto.

Lino e Stefano in questi quattro anni hanno donato il loro tempo e le loro energie perché il “don Vecchi” di Marghera crescesse in un clima di fraternità e in un ambiente signorile e sereno. Ora che stanno raccogliendo i frutti dell’impegno non facile di far convivere persone provenienti da ambienti e da esperienze le più diverse, e non tutte facili, hanno sentito il dovere di rendersi disponibili per aprire la nuova comunità di Campalto. Senza batter ciglio e pretendere riconoscimenti di sorta hanno fatto fagotto e sono partiti verso una realtà che ora assomiglia più ad un cantiere che ad una convivenza per anziani. Non ci saranno né fanfara, né sindaco, né Patriarca a riconoscere i loro meriti, devono accontentarsi del grazie di questo povero vecchio prete che non cessa di sognare la Terra Promessa. Essi lasciano una dimora avviata per sobbarcarsi l’impegno di dar vita ad una comunità di cui, per ora, ci sono solo i muri; impegno certamente arduo!

Nel contempo essi hanno preparato, a sostituirli, una coppia di sposi, Teresa e Luciano ai quali ho chiesto di diventare padre e madre della grande famiglia di soli nonni che ha dimora presso la chiesa dei Santi Francesco e Chiara di Marghera. Neanche per queste due care persone ci saranno mandati ufficiali, contratti per remunerazioni adeguate, ma solo l’onore di poter servire anziani, vecchi genitori dei quali molto spesso i figli non si sono fatti carico.

In questo passaggio di consegne senza difficoltà s’è respirato solamente profumo di fraternità, sogno di un mondo nuovo, desiderio di far felici gli infelici.

Il tutto si è svolto in un ambiente quasi incantato, prato verde rasato come un tappeto, pavimenti lucidi, quadri alle pareti, silenzio e buon gusto. Me ne sono tornato a casa con la sensazione che il “Regno” di cui Cristo parla di frequente nel Vangelo sia del tutto simile, se non uguale, a quello che già esiste in via Carrara 10 a Marghera, accanto alla Chiesa dei Santi Francesco e Chiara.

La caduta di don Verzè

Lo stato d’animo con cui apprendo il susseguirsi di notizie sulla voragine di debiti del San Raffaele di Milano e della conseguente notizia del suicidio del braccio destro di don Verzè e defenestrazione di questo prete, mi ha portato dalla sorpresa alla delusione e quindi allo sconforto. Questo succede ogni volta che s’apre una crepa e frana un’istituzione che tutti per molti anni hanno creduto meravigliosa e viene fuori una serie di notizie che nemmeno potevamo immaginare.

Io non ho certamente modo di verificare ciò che afferma la stampa, che cioè la Fondazione di don Verzè aveva investito in alberghi, in fazendas e che questo prete aveva un suo aereo personale, ma se ciò fosse vero ne sarei ulteriormente rammaricato e sarei quanto mai deluso che dietro ad una così bella facciata ci fossero affari e sperpero non conciliabili con la vita di un prete che è chiamato ad essere povero e a cui il diritto canonico vieta il commercio.

Due altre volte ho parlato su “L’incontro” di don Verzè e le sue opere e sempre con grande ammirazione per la sua testimonianza di fede e di carità cristiana; ora mi ritrovo a constatare che ho preso un grosso abbaglio che turba la mia già fragile stima sul comportamento di tanti preti e che mi costringe a ribadire, per me ma anche per tutti gli operatori ecclesiastici e civili, che quando le parole e le opere non sono accompagnate da una coerenza e da una sobrietà di vita personale, esse spesso sono effimere e per nulla credibili.

Cristo, maestro mio e di don Verzè, ma anche di chi si dichiara cristiano, ci ha detto chiaramente: «Andate, non portate due tuniche o denaro nella cintola ed annunciate che il Regno è vicino, e siate solidali con chi soffre». Questo monito vale per la “casta politica”, ma più ancora per la “casta ecclesiastica”. Quando il meccanismo di certe opere e di certe persone si inceppa, vengono fuori inaspettate magagne che scandalizzano “i poveri”. Purtroppo di queste sorprese ne sono venute fuori fin troppe dal mondo della politica, della Chiesa e della magistratura.

E’ male quando si scopre qualcosa di poco chiaro, o peggio di marcio, nel mondo dell’industria e del commercio, ma quando questo capita nei capisaldi della società – i governanti, gli ecclesiastici e i magistrati – è veramente rovinoso perché queste istituzioni dovrebbero rappresentare la coscienza sana del Paese.

I costi che gravano sulla solidarietà

Per grazia di Dio in questi ultimi tempi un signore di Mirano ha lasciato in eredità alla Fondazione l’appartamento in cui viveva: un bell’appartamento, anche se un po’ vecchiotto, di 140 metri quadri di superficie e in bella posizione.

L’intenzione era di lasciarci la casa che si era costruita in una vita di lavoro, purtroppo l’imprecisione con cui ha scritto il testamento non ci ha permesso di beneficiare di tutto ciò che intendeva destinare agli anziani in difficoltà, ma solamente dell’appartamento in cui abitava. Pazienza! Quello che la Provvidenza ci ha fatto avere è stata già una vera manna del cielo che ha concorso in maniera determinante a coprire i costi del “don Vecchi” di Campalto.

Ora, espletate le pratiche non facili per la successione, affronteremo l’impresa di venderlo – in questo momento, il più infelice per alienare una casa. Oggi ho pagato la parcella del professionista che ha seguito la pratica. In Italia un povero cittadino normale viene a trovarsi in un labirinto di pratiche per cui è praticamente impossibile fare da sé; devi sempre ricorrere all’esperto che ti aiuti.

Il nostro esperto, che ci ha detto che ci ha trattato bene perché sa che cosa stiamo facendo, ci ha chiesto cinquemila euro. Il costo non si ferma qui perché su questa somma lo Stato, che pure sa quanto stiamo facendo avendoci inseriti nel catalogo delle Onlus – cioè degli enti di beneficenza – ha preteso, su questa parcella, il 20 per cento di Iva ed un altro 20 per cento per la trattenuta d’acconto.

Io so, per motivi di giustizia e di solidarietà e perché devo insegnare la morale, che è giusto pagare le tasse, ma credo che sia sacrilegio che lo stesso Stato butti questi soldi, che andrebbero direttamente ai poveri, li sprechi e li consegni ai burocrati inconcludenti che passano le giornate per complicare la vita ai cittadini che lavorano e più ancora a quelli che per scelta si fanno carico delle difficoltà dei meno abbienti.

Brunetta ha fatto qualche sparata iniziale, però ho l’impressione che ad esempio l’assenteismo, dopo il primo momento di resipiscenza, continui pacificamente – vedi Rovigo dove più della metà dei dipendenti della Regione vanno pacificamente a farsi le spese in orario di “lavoro”.