“Non è l’abito che fa il monaco”!

Qualche domenica fa sono andato in una chiesa della città per celebrare una liturgia. Ho incontrato, purtroppo, una suora, che fungeva da segretaria, talmente indisponente, angolosa, autoritaria ed acida che mi ha lasciato veramente male e mi ha tolto la gioia della funzione per cui ero stato richiesto.

Proprio un paio di settimane dopo l’impatto deludente con quella consacrata, m’è capitato di incontrare, nell’ufficio di un ente pubblico, la segretaria di un dirigente, vestita, o meglio svestita, all’ultima moda, truccata abbondantemente, anche se non ne aveva bisogno perché era giovane e bellina, la quale, pur non conoscendomi, mi ha accolto e trattato con tanta disponibilità e cortesia, s’è interessata al problema che volevo esporre al suo superiore, mi ha richiamato al telefono per darmi una risposta, tanto che sono rimasto felicemente sorpreso di avere un trattamento così cordiale da una persona che sembrava effimera e solamente preoccupata di apparire bella.

Siccome questi due incontri si sono succeduti a breve distanza di tempo e siccome ambedue, per motivi diversi, mi avevano fortemente impressionato, pur essendo, questa, una suora con i voti di castità, povertà e obbedienza – quindi una “sposa di Gesù”, come si suol dire in certi ambienti ecclesiastici – e l’altra una donnina all’ultima moda con i pantaloni all’islamica, m’è venuto da chiedermi chi in realtà fosse la donna religiosa, la discepola di Cristo: chi aveva l’etichetta sulla tonaca o quella che invece sul vestito aveva l’etichetta di una casa di moda? Confesso che, nonostante le apparenze, sono convinto che la seconda interpretasse il linguaggio di Cristo meglio della prima, che ne aveva il distintivo ma non la sostanza.

Una volta ho sentito un frate che affermava che i cristiani si contavano alla balaustra, ossia erano quelli che ricevevano l’Eucaristia. Io, da un pezzo, non ne sono proprio convinto perché ritengo, come si diceva una volta, che “non è l’abito che fa il monaco” ma chi è dentro all’abito che fa o non fa il cuore e lo stile di Cristo.

Oggi pare che gli uomini del nostro tempo esigano autenticità piuttosto che maschere che nascondono il nulla o il peggio.

La risposta è nella conversione personale

Spesso, nei momenti di maggior onestà intellettuale, fa capolino nel mio animo un pensiero flebile, quanto mai scomodo, che mi tormenta e mi turba. Purtroppo, senza darlo a vedere anche a me stesso, lo allontano dolcemente, ripromettendomi di esaminarlo e di trovare le soluzioni del caso in momenti più opportuni, pur avendo la sensazione che questi momenti non arriveranno mai.

Ecco il pensiero che spesso mi ronza come un moscone e che non si rassegna ad andarsene: che la soluzione per una nuova pastorale e per la rievangelizzazione della cristianità non consista in nuove strategie pastorali e nel dar vita a nuove associazioni o a nuovi strumenti, ma nella conversione personale.

Oggi gli apparati della Chiesa non si può dire che se ne stiano quieti; dalle alte gerarchie alle curie diocesane o ai consigli pastorali delle grandi o piccole parrocchie, tutti si danno da fare per scoprire ed attuare soluzioni che facciano “il miracolo” di suscitare comunità cristiane vive, coerenti, presenti nel territorio ed incidenti sulla vita sociale e di generare fedeli che abbiano una coscienza ed un modo di agire da veri discepoli di Gesù.

Il mio “grillo parlante” però sta tentando, ad intervalli sempre più frequenti, di farmi capire che invece sono io a dover cambiare, ad essere cioè un vero discepolo di Gesù che testimonia fede, speranza e carità. Chiedere la conversione degli altri non è impossibile, mentre cominciare solamente ad essere il prete che Gesù descrive quando dà il mandato ai discepoli: “Partite poveri, senza vesti di ricambio e senza soldi, senza fidare sui mezzi a disposizione, ma solamente nella validità del messaggio che annunciate, accontentatevi di quello che vi danno, fatevi carica di chi soffre, annunciate che il Regno è vicino; gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, questo è tanto impegnativo, terribilmente impegnativo!

I venti secoli di storia cristiana stanno a ripetermi che i segni delle catene e il sangue dei martiri hanno fatto e fanno germogliare nuovi discepoli del Regno. E la vita dei santi mi sta a ripetere che la loro testimonianza ha dato volto religioso ad un’epoca o ad un popolo.

San Francesco d’Assisi sta ancora a testimoniare la validità del messaggio di Gesù più di tutti gli apparati ecclesiastici, tutte le curie, le parrocchie e le congregazioni dei preti.

Il “grillo” è certamente scomodo, ma ha ragione!

Come rendere la proposta evangelica comprensibile oggi?

Più volte ho ripetuto il mio disagio di vivere in un mondo che non è più il mio, o perlomeno che è diverso da quello che io ho conosciuto durante la gran parte della mia vita e per il quale ho speso tutte le risorse della mia esistenza. Credo che questo disagio, e forse il pizzico di rimpianto per “il piccolo mondo antico” conosciuto nella mia giovinezza e pure nella maturità, sia il prezzo che tutti noi vecchi dobbiamo pagare al tempo che passa.

Questo stato d’animo riguarda tutti gli aspetti della vita, ma io lo sento maggiormente per quello che riguarda la vita religiosa e il mondo ecclesiale. Io voglio pagare questo prezzo, ben conscio che dovrei pagarlo anche se non lo volessi, però mi struggo al pensiero di quale possa essere la “traduzione” attuale della proposta cristiana. Ci sono troppi preti che non vogliono guardarsi realisticamente attorno e preferiscono nascondersi dietro un dito tentando di perpetrare le soluzioni ricevute dalla tradizione applicandola ad un nucleo sempre più ridotto di praticanti, arrischiando di trovarsi un giorno con in mano un pugno di mosche e ad offrire la proposta cristiana ad uomini che non sono neppure un campione autentico dell’umanità che vive nel nostro tempo.

Credo che perlomeno sia onesto prendere atto della situazione reale e porsi alla ricerca di soluzioni nuove che salvino almeno e soprattutto la sostanza. Siamo finalmente onesti: oggi la confessione è saltata, la frequenza al precetto festivo è ridotta al 15-20 per cento della popolazione, il matrimonio celebrato in chiesa è al disotto del 50 per cento dei matrimoni e comunque il divorzio dal vincolo religioso o civile è dilagante. La famiglia, nel senso tradizionale, è malconcia, lo spartiacque della morale segnato dal decalogo è confuso e quanto mai aleatorio, la presenza attiva della realtà parrocchiale sul territorio geografico è pressoché inesistente e le parrocchie sono ormai arroccate all’ombra del campanile.

Ora il mio dramma è questo: come tradurre la proposta evangelica perché sia comprensibile e accettabile oggi? Di certo in questa operazione gli anziani sono i meno adatti a proporre soluzioni alternative, perché legati al passato, temo però che i giovani siano affetti dall’atteggiamento di controriforma piuttosto che apripista di una nuova pastorale.

So che c’è e si troverà una soluzione, s’è trovata anche nell’incarnare il messaggio cristiano in culture tanto diverse dalla nostra, però il trovarmi nel guado mi pesa alquanto, talvolta perfino mi angoscia.

Insinuazioni e accuse

Sono stato vicino per molti anni a monsignor Vecchi, ho conosciuto bene questo prete che io considero il fondatore della “Chiesa mestrina”, perché prima di lui, a livello religioso, Mestre era solamente un arcipelago di parrocchie senza legame alcuno fra di loro. Ebbene monsignore, che in realtà ha pure realizzato nella nostra città parecchie strutture – basti pensare a Villa Giovanna, Ca’ Letizia, il Palazzo delle comunità, la struttura delle associazioni accanto alla canonica, ecc., ha sempre sofferto perché molti concittadini volgarmente andavano dicendo che era un “affarista” e qualche altro, in maniera un po’ più elegante, ma non molto diversa, diceva che era un bravo “manager”.

A me è parso un prete distaccato dal denaro, un uomo che visse in maniera veramente povera, ma che non ebbe paura di sporcarsi le mani dando espressione reale al suo zelo pastorale di dotare la comunità cristiana degli strumenti indispensabili per rendere realistica la carità, facendone una risposta concreta e non limitandosi ad un’enunciazione formale, comoda ed inconcludente.

Io non avrei mai immaginato che avrei avuto la stessa sorte facendomi la fama di costruttore. Nel mondo dei preti poi vige una certa convinzione, forse propagandata dai pigri, dagli inetti o dai parolai, con cui si bolla chi tenta di dar volto, respiro e concretezza alla solidarietà, come malato “del male della pietra”.

L’epiteto e la definizione non mi lascia indifferente, anzi mi amareggia alquanto perché credo di non illudermi affermando che il meglio delle mie energie e del mio tempo l’ho dedicato di certo all’annuncio del Regno, a donare il messaggio di Cristo, ma al tempo stesso m’è parso di rendere credibile e di dar corpo alla dottrina di Cristo impegnandomi per dare pure visibilità e tradurre in maniera reale il comando limpido, preciso ed inequivocabile di Gesù: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.

Il fatto di non avere nessuna proprietà, di aver scelto di condividere la stessa condizione degli anziani poveri ai quali mi son dedicato, andando ad abitare in uno dei 315 minialloggi dei Centri “don Vecchi”, di non essermi mai comperato un’automobile, di non esser mai andato in ferie, pensavo fossero delle scelte che mi avrebbero evitato insinuazioni del genere. Invece no! Mi conforta che accuse del genere furono rivolte pure a Cristo e perciò spero che siano una parte di quella croce che ognuno deve portare per ottenere salvezza.

Le “buone parole”

Il pozzo dal quale in questi ultimi tempi sto attingendo, è il volume di Adriana Zarri “L’eremo non è un guscio di lumaca”. Ripeto ancora una volta, per chi non conoscesse l’autrice di questo volume, che la Zarri è una intellettuale, nata da una famiglia contadina, che mediante lo studio approfondito soprattutto delle cose che riguardano Dio, la fede, la Chiesa, la religione, è diventata, col tempo, una teologa quanto mai apprezzata. Spirito libero e in costante ricerca, talvolta è stata piuttosto critica nei riguardi dell’apparato ecclesiastico e soprattutto si è sentita portata a valorizzare le istanze sociali proprie della sinistra in quest’ultimo scorcio di secolo.

La Zarri ha avvertito il bisogno di “parlare” di Dio e della fede soprattutto a chi si dimostra ancora molto refrattario a questi discorsi, motivo per cui ha scritto spesso sul “Manifesto” su tematiche religiose. La prefazione infatti di questo volume, che rappresenta quasi il suo testamento spirituale perché essa è morta poco tempo fa, è curata da Rossana Rossanda, personaggio di estrema sinistra e direttore de “Il Manifesto”.

La lettura che sto facendo, pur faticosa, perché il pensiero della Zarri è denso, puntuale, quasi puntiglioso nel precisare le sue convinzioni, mi sta, tutto sommato, edificando e facendo del bene perché la fede dell’autrice appare limpida e assoluta in ogni sua riflessione.

La Zarri ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in forma eremitica essendosi ritirata in un cascinale abbandonato sulle colline piemontesi. Nella sua riflessione, che sa poco di diario e molto di indagine, afferma che spesso amici incontrati nella sua lunga vita di militante, quando le facevano visita, si aspettavano da lei, eremita, dei consigli spirituali, una buona parola, dei pensieri edificanti. Tutte cose che lei sdegnava, perché diceva che se mai avesse avuto qualcosa da dire, dato il suo vivere da eremita e in costante ricerca e comunione con Dio, non sarebbero state le parole lo strumento più adatto, ma la vita stessa. Solamente la vita, il suo spessore, la sua ricchezza di indagine e di pensiero possono diventare messaggio, solamente la testimonianza ha diritto di parola.

Ho riflettuto molto su questo rifiuto intransigente circa le “buone parole”. Oggi forse la Chiesa, la parrocchia e i cristiani in genere, affidano con troppa leggerezza il loro messaggio alla parole, strumento ormai inflazionato e pochissimo incidente sulle coscienze. Oggi pare che valga soprattutto e solamente la testimonianza. Il messaggio è la vita! Non per nulla è affermato nel prologo di san Giovanni: “La parola del Signore si fece carne”. Dio infatti sa bene la differenza fra ciò che comunica verità e ciò che invece fa solamente fresco!

La lezione di disciplina e di virtù di un giovane prete

In quest’ultimo tempo sto seguendo, spero con comprensibile attenzione e curiosità, la vicenda della nomina a parroco della comunità cristiana dei santi Gervasio e Protasio di Carpenedo, ove sono stato parroco per 35 anni, del giovane sacerdote don Gianni Antoniazzi.

La nomina a parroco di una comunità cristiana dovrebbe essere un evento che di per sé non fa notizia, o al massimo a cui i giornali locali dedicano quattro righette per i curiosi di cose di Chiesa. Questa volta per don Gianni la cosa non è andata così. La parrocchia di San Lorenzo Giustiniani, nella quale don Gianni operava da sette anni, s’è letteralmente ribellata, protestando in chiesa alla notizia, raccogliendo firme ed invocando a gran voce, specie da parte dei giovani, di soprassedere al trasferimento.

Questa “ribellione” popolare depone a favore di don Gianni. Oggi non è frequente che la gente manifesti rumorosamente per un trasferimento di routine. La protesta significa che don Gianni ha ben operato e s’è fatto ben volere. Magari scoppiassero più di frequente queste ribellioni popolari!

Quello però che maggiormente mi ha colpito, è che questo giovane prete abbia accettato il trasferimento mentre stava raccogliendo i primi frutti del suo straordinario impegno, abbia accettato sapendo che la parrocchia alla quale lo si è destinato gli avrebbe presentato notevoli difficoltà, non ultima quella economica, ma soprattutto mi hanno sorpreso favorevolmente le sue pubbliche dichiarazioni circa la sua volontà di obbedire e la convinzione che l’obbedire arricchisce.

Un tempo si diceva che i preti erano come i soldati e dovevano rispondere sempre “signorsì!” o, come Garibaldi, “obbedisco!” Queste reazioni sono oggi cosa d’altri tempi, specie quando la prospettiva di quello che ci si aspetta non è molto allettante.

Io sono ammirato dalla lezione di disciplina e di virtù di questo giovane prete, sono felice di apprendere che la Chiesa veneziana può contare ancora sui giovani preti di questo stampo, e più felice ancora che questo tipo di prete vada nella parrocchia che non ho mai cessato di amare. E soprattutto che egli possa ravvivare il progetto che il “don Vecchi” diventi il segno di una solidarietà come elemento sostanziale del nuovo programma pastorale.

L’inutile ricerca del paradiso terreno

Abbastanza di frequente mi capita d’essere colpito da qualche fatto strano, o dal modo di pensare di certe persone, e più spesso ancora sono colpito da certe idee peregrine che mi passano per la testa e che, di primo acchito, sono tentato di scacciare come mosche noiose che mi disturbano senza motivo. Da un po’ di tempo però ho cominciato a pensare che se la vita e il mondo rispondono ai criteri sapienti della Divina Provvidenza, non può esserci nulla di inutile, scontato e che non possa dare una risposta ad una presa di posizione nei suoi riguardi.

Da qualche tempo mi sono perfino imposto l’impegno di rispettare anche una formichina che cammina svelta sulla tavola con le sue gambette minute, perché anche lei fa parte dell’ecosistema che oggi regola la vita. In questo nostro tempo si parla tanto di questi equilibri essenziali, si spende tanto denaro perché non si estinguano certe specie protette, quali il panda o la tigre indiana; perché non dovrei accettare e prendere in considerazione allora certi pensieri strani che mi frullano inaspettati per la testa? Non possono essere anch’essi un messaggio per farmi arrivare a certe verità che possono aiutarmi?

Qualche giorno fa ho letto nella Genesi la cacciata dei nostri progenitori dal Paradiso terrestre con il relativo monito: “ti guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte”. Ho subito pensato che Adamo ed Eva avranno avuto per tutta la loro vita la nostalgia, il rimpianto e l’illusione di recuperare quel “paradiso” perduto. Speranze inutili!

Poi ho pensato che anche noi uomini del terzo millennio abbiamo ereditato, perché iscritto ormai nel nostro DNA, il rimpianto, la nostalgia e l’illusione di trovare, prima o poi, il paradiso irrimediabilmente perduto. Fatica sprecata, ricerca inutile, perché ciò è ormai impossibile!

Eppure tutte le smanie per il denaro, il potere, il sesso, l’affermazione, penso che siano le espressioni di questa illusione di poter trovare “il paradiso” quaggiù e purtroppo in questo sforzo e in questo tentativo noi uomini finiamo per non accettare le fatiche connesse al nuovo status di vita e finiamo per perdere anche quelle piccole gioie che sono ancora possibili, inseguendo invece quelle ormai perdute. Tutto ciò aggiunge alla vita ansie, fatiche e ricerca affannosa assolutamente inutili.

Quanto sarebbe più saggio accontentarci, accettare la vita qual’è e godere di quello che essa può ancora offrirci!

Le prediche di monsignor Vecchi

Uno dei miei “ragazzini” di trent’anni addietro un paio di settimane fa è venuto a farmi visita al “don Vecchi” per regalarmi un volume che non conoscevo: “Le prediche di monsignor Vecchi”, edite dalla Fondazione alla quale don Franco De Pieri ha dato vita per mantenere vive a Mestre la memoria e il messaggio di don Vecchi “padre della nuova Mestre”.

Non sapevo dell’esistenza di questo volume, che forse non è stato sufficientemente reclamizzato. L’opera è stata curata dal prof. Mirto Andrighetti il quale ha utilizzato il materiale che il vecchio sagrestano di Carpenedo, Olindo Caramaschi, all’insaputa del suo parroco, aveva registrato durante le prediche negli ultimi anni del servizio pastorale di Monsignore presso il duomo di Mestre.

Ho preso a leggere qua e là queste prediche domenicali del mio vecchio parroco e maestro di vita e di apostolato. Di primo acchito la lettura mi ha un po’ deluso, ma poi ho capito che altro è un testo scritto per essere letto, altro è la registrazione di un discorso che invece era destinato ad essere offerto a viva voce e che certamente risentiva del clima e dell’atmosfera dei fedeli che affollavano la chiesa.

Monsignor Vecchi poi era solito drammatizzare le sue omelie, per cui l’intonazione della voce, i silenzi ed i gesti avevano la loro parte nel rendere partecipi i presenti al messaggio che offriva di settimana in settimana.

La lettura del volume delle prediche di Monsignore mi ricordò pure come molto spesso egli al sabato mi chiedesse: «Che cosa dirai, don Armando, domani?» ed io gli riassumevo quei quattro poveri pensieri che avevo cercato di raccattare durante la settimana.

Il giorno dopo, la domenica, Monsignore celebrava alle 11, mentre io alle 12. Mentre attendevo di iniziare la mia messa, mi capitava di sentire la predica del parroco e, con sorpresa ed invidia, sentivo che le mie quattro idee erano diventate delle vere “perle” in bocca a Monsignore, che all’intelligenza e alla preparazione culturale, aggiungeva pure una vera arte di attore nel porgere il suo pensiero.

Col tempo ho fatto tesoro del suo modo di porgere, ma sono rimasto uno scolaro abbastanza mediocre.

La politica italiana

Non mi pare che De Magistris, nonostante appartenga al partito delle regole, della legge e dei giudici, stia risolvendo brillantemente i problemi dei rifiuti di Napoli.

Sembra che anche lui, una volta ancora, e con la solita lagna ed insistenza, chieda l’intervento del governo e l’aiuto delle altre regioni. La cosa potrebbe essere comprensibile e condivisibile se fosse la prima volta che il sud chiama il nord, ma non è la prima, la seconda, e nemmeno la decima… ormai, dalla fine della guerra, che è terminata più di mezzo secolo fa, Napoli non fa che ripetere la “fiaba del sior Intento”.

Ho seguito il tiramolla delle varie regioni che, più o meno ipocritamente, tergiversano perché credo che Napoli, nonostante il “sole mio”, ha finito per stufare un po’ tutti.

Il nostro Zaia ha tentato di togliersi dai guai dicendo che è disposto a mandare dei tecnici per insegnare le tecniche che usiamo noi nel Veneto. Se accetteranno perderemo i soldi del biglietto della ferrovia per il viaggio di questi tecnici, ma non sarà il peggiore dei mali! In Italia credo che sia sicuramente finito il tempo di cercare l’uomo forte – perché di esperienze amare ne abbiamo già fatte a sufficienza – ma che sia ora di mettere in piedi una democrazia forte, che faccia rispettare le leggi, che punisca in maniera esemplare i trasgressori non mettendoli in carcere, perché ci costerebbero 250 euro al giorno, ma mettendoli a fare lavori “socialmente utili”.

Finché però rimarremo in balia di amministratori locali e nazionali che sono vittime e prigionieri del loro elettorato, non ne andremo mai fuori da questo pantano.

Qualche giorno fa, parlando con un tecnico sul mio bisogno di reperire gli spazi per un’opera altamente sociale, qual’è il “don Vecchi” per gli anziani in perdita di autosufficienza, questi mi faceva osservare che quel determinato assessore non me lo avrebbe mai concesso, per non scontentare il rione in cui aveva la sua base elettorale.

Un mio amico mi ha passato una sua ricerca sul numero di italiani impegnati in politica e sui costi relativi: c’è veramente da mettersi le mani nei capelli! Con gli anziani del “don Vecchi” neanche tento di fare un colpo di stato o la rivoluzione; dovrò rassegnarmi al pensiero che a tempo debito il Signore “metterà il grano buono nel granaio” e la gramigna nella fornace ardente.

L’ossessione della cronaca nera

Ho letto che durante il fascismo il duce aveva ordinato che i giornali non riportassero, o almeno dessero pochissimo rilievo, alle notizie di suicidi e in genere ai fatti di cronaca nera. Non so bene perché l’avesse fatto, forse per dare alla nazione l’illusione che il fascismo era stato capace di offrire l’età dell’oro, o semplicemente il paradiso terrestre. Comunque penso che tra i tanti demeriti, quali l’aver privato l’Italia della libertà e l’averla trascinata in una guerra rovinosa, il duce abbia avuto almeno il merito di non aver permesso che la gente fosse condizionata psicologicamente dalla descrizione morbosa di questi fatti di sangue.

E’ proprio di queste settimane che la stampa nazionale si è occupata, spargendo fiumi di inchiostro, di quel tanghero di caporalmaggiore che avrebbe ucciso la sua sposa, madre di una bambina piccola perché si era incapricciato di un’oca di soldatessa.

Il secondo fatto di sangue tra i moltissimi di cui sono pieni i giornali, per me è stato il suicidio del braccio destro di don Verzè, il sacerdote più che novantenne che ha creato il miracolo del San Raffaele, ma che non essendosi messo da parte nel tempo giusto, l’ha pure fatto naufragare in un oceano di debiti.

Il terzo episodio, a livello locale, del quale Il Gazzettino ha dato notizia, è stato quello del giovane di Martellago, bravo, timido e fragile che, bocciato agli esami di maturità, rimasto solo a casa in un momento così pericoloso per la sua personalità, mentre i genitori se n’erano andati in vacanza, si è tolto la vita.

Nonostante i miei ottant’anni, durante i quali ne ho viste di tutti i colori – per cui la mia vita avrebbe dovuto temprarmi di fronte a tutto – tutto questo mi ha indignato, amareggiato e sconvolto quanto mai.

Io spero di rientrare almeno nella fascia umana della normalità, ma quante sono le creature che sono al disotto di questa fascia e che di fronte alla descrizione dettagliata e morbosa di certi fatti di sangue, giunta in un momento di difficoltà, si sono sentiti terribilmente tentati di scegliere queste apparenti scorciatoie per risolvere i problemi inevitabili del vivere.

Per questi motivi di certo non avrò rimpianti per l’era fascista, però non mi esalto neppure per questo tipo di democrazia carente e fortemente ammalata di debolezza cronica.

Il fondamentale pensiero del vescovo Hedel Comara

Talvolta ho la sensazione che qualcuno mi ritenga un sognatore, che col retino in mano cerca di acchiappare farfalle sul prato, o il filosofo che con la candela in mano cerca l’uomo in pieno giorno. Tento però di non lasciarmi mai condizionare da quello che pensano gli altri, ma di ascoltare invece la voce del cuore e di quell’istinto profondo che certuni possono pensare irrazionale, ma che per me è la freccetta che, magari tremolante, mi indica il nord.

Da sempre, specie in questi ultimi anni, sono un appassionato cercatore di gesti belli, di persone care ed oneste, di pensieri sublimi – realtà che sono tanto più belle delle ali iridate delle farfalle – per metterle nel profondo del mio cuore perché anche nei momenti di stanchezza, di amarezza o di delusione riaffiorino dall’intimo del mio essere e mi offrano, nonostante tutto, speranza ed una visione positiva della vita.

Questa mattina un amico mi ha passato una fotocopia di pensieri del vescovo dei poveri dell’America latina, Hedel Camara, che lui stesso aveva ricevuto da una donna amica, quel vescovo che di contrarietà dai colleghi vescovi e dai prepotenti del suo paese ne aveva ricevute fin troppe.

La pagina, che avrei il desiderio di ricopiare tutta intera per gli amici – ma lo farò di certo nell’opuscolo mensile “Il sole sul nuovo giorno” – ruota tutta su due concetti. Il primo: “non scoraggiarti mai qualunque siano le difficoltà e le avversità che incontrerai – e le enumera quasi in maniera ossessiva – perché tanti sono gli ostacoli e le difficoltà quotidiane anche se tu fai del tuo meglio per non meritarle e per risolverle”. Il secondo – una verità splendida e luminosa: “Vivi nella certezza che Dio ti ama”.

Ha ragione Hedel Comara, il vescovo dei poveri: l’amore di Dio è più caldo, più dolce, più rassicurante dell’amore che anche la donna più affascinante ti possa offrire.

Nel leggere questi pensieri, mi vennero alla mente quelli di un giovane d’oltralpe, Guy de Larigaude: “Qualunque cosa possa succedermi, io sono sereno perché Dio mi ama, perché Egli è mio padre, colui che mi ha donato la vita”.

La diversità di opinioni è davvero una ricchezza!

Credo che sia naturale sognare ed anche perseguire l’obiettivo della unanimità di pensieri e di progetti. Ogni movimento politico, religioso ed anche associativo tenta in tutti i modi di aggregare persone che accettino gli stessi obiettivi e la pensino alla stessa maniera. Ogni forma di proselitismo nasce da questo desiderio e forse dall’inconscia sensazione che più si è, più si ha forza e più si può imporre quel tipo di società che, a nostro parere, sia la migliore.

Tutto questo porta al tentativo di convincere, prima, da un punto di vista razionale, e poi dal punto di vista meno nobile – anche se camuffato da altri motivi pretestuosi – di imporre le nostre soluzioni.

Di tutto questo i partiti e i movimenti politici degli ultimi due secoli sono stati l’esempio più eclatante e più tragico; basti pensare alla rivoluzione sovietica che, per raggiungere questa conformità sociale, ha fatto decine di milioni di vittime. Altrettanto è stato per il nazismo ma, anche se in misura minore, lo è stato pure il fascismo ed il franchismo.

Oggi, in maniera un po’ ipocrita e formale, va di moda affermare che la diversità di opinioni e di pensiero è invece ricchezza. Mi auguro che questa visione della vita sociale si possa affermare – però ho i miei dubbi – perché è difficile redimerci dal “peccato originale” del voler tutti fatti “a nostra immagine e somiglianza”. Che la diversità sia ricchezza piuttosto che intralcio alla vita sociale, pare sia una scoperta recente della quale molti se ne fregiano per far bella figura, anche se in realtà è una posizione difficile da accettare e da perseguire.

A dire il vero anche per me questo discorso è stato una “scoperta” recente. Di questo però mi vergogno perché Cristo, nostro maestro, da venti secoli ci ha insegnato la tolleranza, il rispetto verso non solamente i diversi, ma pure i perversi.

Pensavo a questi discorsi qualche settimana fa quando, nella parabola del grano e della zizzania, Gesù dissuade i servi troppo zelanti che proponevano di estirpare la “gramigna”. Nonostante questo discorso così chiaro del Maestro, durante i venti secoli di storia noi cristiani ne abbiamo fatte di tutti i colori con le crociate, l’inquisizione e le repressioni nei riguardi dei dissenzienti. Mi auguro che la nuova moda di pensiero ci renda più lucidi e docili all’insegnamento di Gesù.

Renato

Di primo mattino la voce dolce e pacata della signora Luigina mi ha raggiunto attraverso il telefono per dirmi che Renato non c’era più. Erano ormai molti mesi che questo vecchio parrocchiano, già duramente provato dalla sorte, non stava bene. Più di una volta comuni amici mi avevano fatto capire che lui era in grosse difficoltà.

Ultimamente andava su e giù dall’ospedale, ma la sua grinta e la sua voglia di vivere, nonostante tutto, finiva sempre per avere la meglio. Renato, quando lo incontravo, mi metteva paura perché mi costringeva a domandarmi se io avrei avuto la forza di vivere nelle sue condizioni.

L’avevo conosciuto decine di anni fa: brillante ufficiale d’artiglieria, sportivo, amante della bicicletta, del pianoforte e della fisarmonica, cantava, sorrideva, mangiava e chiacchierava sempre, con una passione intensa. Nel mio animo lo vedevo più come un bersagliere di corsa, con la tromba e le piume al vento, che non come ufficiale dentro, o fuori dalla caserma ad ordinare: “fuoco!”.

Viveva sempre con entusiasmo, con ebbrezza, in maniera così giovanile che pareva che il tempo non lasciasse segno sulla sua indole e sulla sua volontà.

Lo ricordo ai tempi della polisportiva, quando galvanizzava la sua squadra di pallacanestro. Con lui non si discuteva: dovevano giocare come stessero compiendo la più sublime delle attività umane. Lo ricordo spassoso e gioviale, scanzonato e brioso, suonare al pianoforte pezzi che sembravano sempre un invito alla carica, e il suo cantare con la fisarmonica tra le braccia come fosse su una tradotta di giovani coscritti.

Poi quella terribile e assurda caduta nel rifugio di montagna dove aveva portato i suoi nipoti. L’ho visto tra la vita e la morte. Vinse anche quella terribile battaglia e la vita riprese, tanto che in ospedale infilava i corridoi con la carrozzella facendo finta di investire infermiere e poveri grami come lui.

Nonostante mille difficoltà non smise mai di combattere, di vincere sempre, anche immobile in carrozzella era un vittorioso, gli occhi vivi e sorridenti, la voce roca ma la battuta sorniona.

Il Signore ebbe pietà di lui e gli volle bene forse perché superò perfino Giobbe nel credere, pur nelle più grandi avversità fisiche e morali, e per tutto questo gli mise accanto angeli supplementari che rasserenarono il suo cuore fino all’ultimo respiro.

Renato, pur essendo in artiglieria, “è andato avanti” come gli alpini. Gli ho chiesto di aspettarmi, non lo farò certo attendere molto, vecchio ed accidentato come sono. Sento però il bisogno di ringraziarlo per la sua testimonianza di coraggio e di volontà di vivere nonostante tutto. So di aver bisogno di questo esempio perché il tempo del passaggio è difficile per tutti.

Una lettura che mi ha messo in crisi

Io sono lento nella lettura e poi leggo solo per breve tempo negli scorci che mi rimangono liberi durante il giorno. Ci sono alcuni che affermano di divorare i volumi e di arrivare a leggerne perfino tre o quattro al mese. A me capita esattamente il contrario, mi ci vogliono due o tre mesi per finirne uno soltanto.

Ho cominciato da alcune settimane il volume “L’eremo non è un guscio di lumaca”, edito dalla Einaudi, di Adriana Zarri, la scrittrice, teologa del dissenso cattolico, o perlomeno abbastanza libera e talvolta dissenziente dalle linee portate avanti dalla gerarchia della Chiesa, ed ho appena passato la metà del volume.

Credo che sia stato nelle intenzioni di questa donna narrare la sua scelta di vivere in maniera eremitica. Essa ha ottenuto, non so come, un vecchio cascinale abbandonato sulle colline piemontesi ed ha scelto di vivere sola, mantenendosi coltivando la terra, allevando conigli e galline e scrivendo qualche articolo per “Il Manifesto” o facendo qualche lavoro di recensione per qualche casa editrice.

In verità il volume che sto leggendo non è un diario e, meno che meno, un racconto della sua vita, ma una riflessione approfondita e critica su tutto quello che noi comuni mortali diamo per scontato circa il rapporto con Dio, con la natura e con gli uomini. Una analisi puntuale, talvolta perfino spietata sul concetto di silenzio, solitudine, sul concetto di sacro, di profano, di rapporto con gli uomini, con la terra, con gli animali.  Dalla lettura emerge una figura di eremita profondamente intellettuale, in costante verifica dei contatti e i rapporti del vivere quotidiano.

Man mano che vado avanti nella lettura, le riflessioni della Zarri mi mettono in crisi, perché mi fanno capire quanto superficiale, scontato, sia il mio vivere, il mio credere, i miei rapporti con le cose, gli uomini e la natura. La Zarri mi costringe a fermarmi, a verificare, a guardare dentro e a prendere posizioni nuove di fronte alla realtà del vivere. Le pagine intense e turgide di pensiero mi fanno cogliere la testimonianza di questa donna per la quale Dio è veramente tutto, emerge da ogni respiro, da ogni esperienza e da ogni lavoro.

Di certo, quando avrò finito il volume, io forse non mi ritirerò in una grotta o in una caverna di un monte, ma certamente non potrò più vivere in maniera scontata come prima e Dio non lo penserò solamente in qualche momento del giorno e non lo vedrò solamente nei riti, ma spero che diventerà per me, come per la Zarri, “il respiro” della vita.

Ancora una volta deluso da taluni politici cristiani

Nota della redazione: come consuetudine i commenti di don Armando, scritti in gran numero e largo anticipo, arrivano “alle stampe” con un certo ritardo. Nello specifico il disegno di legge cui fa riferimento non è ancora stato approvato.

In queste ultime settimane il nostro parlamento si è impegnato finalmente, in maniera un po’ meno esasperatamente polemica del solito, per salvaguardare la nazione da attacchi speculativi che la potevano mandare a picco: un’operazione finalmente riuscita. Ma contemporaneamente è pure giunto alla conclusione di un argomento che interessa meno l’opinione pubblica, che però è quanto mai importante, qual’è quello del “fine vita”.

Io, purtroppo, non sono un esperto neppure in questo settore, pur avendo qualche convinzione ben ferma e radicata in proposito. Radicali, in maniera particolare, ma pure una grossa fetta della sinistra e della destra liberale, per un’ennesima volta hanno tentato di darsi da fare con quella passionalità e faziosità che sono loro proprie, per introdurre nel nostro Paese l’eutanasia, ossia la “dolce morte” garantita e favorita dallo Stato, come è avvenuto per l’aborto.

Lo Stato laico pare che voglia scardinare i valori fondamentali della vita trattandola come una realtà in balia e in totale arbitrio dell’individuo, e così intaccare ulteriormente la sua sacralità difesa dal Cristianesimo.

Da quanto ho potuto apprendere dalla stampa in generale, e da quella cattolica in particolare, quale “L’avvenire”, la legge che ne è uscita pare accettabile. La Chiesa, nella sua globalità, s’era decisamente opposta con ogni mezzo alle tesi dei radicali, dei liberali e dei marxisti. Ora, grazie alle forze del centrodestra e dell’UdC, si sarebbe ottenuto questo risultato che pare rispettoso della vita e che non permette ad alcuno di sopprimere anche chi viva in maniera, almeno apparentemente, vegetativa.

In questa occasione ho avuto però un’ulteriore delusione ed amarezza. S’era detto che i cristiani, in qualunque partito militassero, sui valori fondamentali si sarebbero sempre trovati uniti e concordi. Mentre questo è avvenuto per i seguaci di Casini, non mi pare che sia successo per i cattolici militanti nel partito democratico. Credo che la Bindi, Fioroni, Franceschini ed altri ancora, abbiano votato per disciplina di partito assieme ai loro amici miscredenti.

In tempi ormai lontani il cardinal Ottaviani aveva definito personaggi del genere “comunistelli da sagrestia”. Ho l’impressione che questa definizione sia ancora valida. Mi dispiace tanto perchè, avevo sognato che i cristiani avrebbero potuto militare in ogni partito senza tradire la propria coscienza.