Storia di un “invito a nozze”

Confesso: non so se sia una tentazione maligna o, finalmente, un lampo di onestà. E’ successo qualche settimana fa quando, su mandato del Consiglio di Amministrazione che mi ha incaricato di invitare, secondo la prassi, “le autorità civili, militari ed ecclesiastiche” per l’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto, ho trovato qualche difficoltà a reperire un elenco di tutti i notabili che normalmente si invitano in queste occasioni. Allora m’è venuta la “tentazione” (ma, ripeto, non ho ancora capito se sia stata tale o sia stata una “ispirazione del Cielo”) di mandare ai giornali e alle televisioni locali il testo della parabole evangelica dell'”invito a nozze”.

Tutti ricordano quel re che desiderava che le persone più ragguardevoli del paese partecipassero alle nozze del figlio, nozze che egli aveva preparato con tanta cura ed amore. Purtroppo i notabili di allora, con una buona dose di ipocrisia, si scusarono e lasciarono cadere l’invito: “ho preso moglie e perciò abbimi per iscusato, ho comperato un paio di buoi, devo andare a vedere i campi, ecc.” Quel re, deluso e sdegnato, mandò l’invito a ben altre persone, dicendo ai suoi servi: «Andate per le strade, nei sobborghi, raccogliete i poveracci, gli storpi, gente che non conta, e fateli venire alle nozze di mio figlio».

A suo tempo avevo invitato la Regione, la Provincia, il Comune, gli industriali, la Camera di Commercio, le banche, i ricchi di Mestre a partecipare alla nobile impresa di far festa agli anziani, offrendo loro una dimora confortevole. Nessuno, proprio nessuno ha partecipato neppure con un euro. Mi sono rivolto allora ai poveri, ai mestrini e agli extracomunitari, che non si possono permettere non solo di andare per gli acquisti alla boutique, ma neanche in negozio, e perciò vengono al “don Vecchi” ai magazzini “San Martino”.

Loro hanno risposto a centinaia, a migliaia, con i loro spiccioli – cinquanta centesimi, un euro, cinque euro – e con questi contributi della Mestre povera ed emarginata abbiamo costruito il “don Vecchi” di Campalto.

La mia “tentazione”, o la mia “illuminazione” era quella di dire ai giornali e alle televisioni: «Invitate a nome mio i più poveri, i mestrini che non contano, le moldave, le donne ucraine, le badanti, perché chi aveva soldi s’è “scusato” a causa della crisi, mentre i poveri hanno risposto a migliaia. Sono quindi questi ultimi che meritano d’essere invitati “a nozze”, ossia all’inaugurazione.

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