Chi sfascia le città va fermato!

Vi sono eventi particolarmente forti che si affacciano all’attenzione dell’opinione pubblica, i quali mi turbano profondamente, mi mettono in crisi e mi indignano e creano in me un senso esasperato di sfiducia e di malanimo nei riguardi dell’organizzazione dello Stato, delle sue istituzioni e dei suoi responsabili. Ho poi la sensazione che l’opinione pubblica, esasperata per la marea di disordine sociale che ogni giorno le si rovescia addosso dai mass-media, finisca per abituarvisi e, dopo un momento di condanna, di rifiuto e di esecrazione impotente, finisca per voltar tristemente pagina, delusa e rassegnata.

A parte i disastri ambientali, dovuti pure all’incuria, all’irresponsabilità dei cittadini e degli amministratori pubblici – ma in questi casi c’entra pure la componente di fenomeni naturali non sempre controllabili – ci sono altri eventi che, pur talvolta ufficialmente motivati da ragioni ideali comprensibili e condivisibili, finiscono per permettere ad alcune schegge impazzite, irresponsabili e violente della nostra società, di scatenarsi con inaudita violenza e spirito di distruzione assurda contro tutto e contro tutti. Mi riferisco alla guerriglia che ultimamente s’è scatenata in occasione della ferrovia ad alta velocità in valle Susa e all’ultimo “sacco di Roma”.

I centri sociali sono risultati gli organizzatori e i protagonisti di questi fatti delittuosi contro le leggi dello Stato e contro il patrimonio pubblico e privato. Non riesco minimamente a capire perché non si chiudono questi covi della guerriglia e non si avviino a campi di rieducazione sociale gli irrimediabili. Forse lo Stato non ha i mezzi? Mi pare di no! Ripeto ancora una volta che sono stato quanto mai sorpreso dal gran numero di soldati e di mezzi che lo Stato ha a disposizione in occasione della parata del 2 giugno, voluta dal presidente Napolitano.

Io, ripeto ancora una volta, sono contrario alla guerra e perciò anche all’esercito, ma se proprio si pensa che non se ne possa fare a meno, perché non lo si adopera per fermare qualche migliaia di esasperati rompitutto?

A me lo Stato ha minacciato una multa perché ho fatto scrivere “Centro don Vecchi” sulla nuova struttura per anziani e sto aspettando da più di tre mesi l’autorizzazione a farlo, pagando una tassa, mentre a questi aderenti ai centri sociali si permette di sfasciare una città, far danni per milioni di euro, e di fronte a questa guerriglia urbana se ne prendono due o tre che poi la magistratura mette fuori dopo un paio di giorni.

E’ questo lo Stato di cui Napolitano ci invita ad essere fieri? I benpensanti e la sinistra o la destra mi dicano pure quello che vogliono, ma io non ci sto!

Il giudice Livatino, un esempio che dà onore alla magistratura

In quest’ultimo tempo ho avuto modo di leggere sulla stampa cittadina molti servizi sul giudice Livatino, il magistrato trucidato dalla mafia per la sua condotta integerrima coerente alla sua coscienza di cristiano e alla sua missione di amministratore della giustizia.

A vent’anni dalla tragica fine di questo servitore della società nel settore della giustizia e cristiano esemplare, gli organi di stampa hanno riacceso i riflettori sulla sua persona e sulla sua fine in occasione della scelta della Chiesa di iniziare il processo per la sua beatificazione.

La Chiesa ha un fiuto particolarmente attento nel presentare, come punto di riferimento per la società, quei discepoli di Cristo che possono diventare creature esemplari per quelle categorie della nostra società che annaspano nella nebbia e che sono in crisi per la perdita dei valori autentici la cui presenza dovrebbe essere di supporto alla nazione.

Io mi sento veramente triste e sconsolato leggendo, ogni giorno di più, la crescente critica ed accusa documentata agli uomini della politica. Nel mio animo il cittadino che si rende disponibile a lavorare ai massimi livelli per il bene comune, dovrebbe essere un modello ed un punto di riferimento esemplare per tutti i cittadini, mentre oggi, in realtà, questa categoria di operatori sociali, nel suo complesso, si sta dimostrando avida, parolaia, interessata, faziosa, inconcludente ed incline ad ogni compromesso: questo è uno scandalo, un sacrilegio esecrando!

Ma più ancora dei politici, i magistrati e tutti gli operatori della giustizia, dovrebbero essere le persone più integerrime, laboriose e sopra le parti, coloro che non solo amministrano con saggezza il codice civile e penale, ma che lo impersonano loro stessi.

Ora non capisco bene se per carenza di uomini e di mezzi, per un impianto giuridico pletorico, sorpassato ed inadeguato o per indolenza, spirito di parte, posizione di privilegio e sete di potere, sta di fatto che vi sono centinaia di migliaia, forse milioni, di cause inevase, processi infiniti, sentenze scandalose, poca serietà professionale, per cui avvengono fughe di notizie e, peggio ancora, di delinquenti emeriti, sperperi di denaro, partecipazione, fin troppo scoperta, a partiti politici.

Per questi motivi plaudo quanto mai la Chiesa che presenta figure emblematiche quali il giovane magistrato Livatino, o il politico De Gasperi, quali esponenti splendidi e gloriosi di quelle categorie di persone che oggigiorno arrischiano di squalificare in maniera irrimediabile corpi essenziali della comunità civile, quali sono la politica e la magistratura.

I magazzini “San Martino”

La celebrazione del decennale dei magazzini “San Martino” ha avuto vasta eco sulla stampa e sulle emittenti televisive locali. Il direttore generale e il comitato direttivo dell’associazione “Vestire gli ignudi”, che gestisce l’ipermercato solidale a favore dei cittadini italiani e stranieri che versano in disagio economico, hanno voluto dare risalto a questa “impresa” che in controtendenza alla situazione generale del commercio, è invece quanto mai florida e vitale.

I poveri conoscono già molto bene i magazzini degli indumenti, infatti li affollano ogni giorno e “acquistano” vestiti per sé e per le loro famiglie che vivono in Romania, in Moldavia, Marocco, Algeria, Zambia o Madagascar, mentre pare che questa iniziativa benefica sia meno nota tra le parrocchie, le aziende che producono e vendono indumenti, tra le organizzazioni caritative e l’amministrazione comunale.

Si ha la sensazione che questa realtà, o per disinteresse ai bisogni della povera gente, o per inedia congenita, o forse per invidia, sia una soluzione bellamente ignorata, mentre in realtà è affermata ormai a livello nazionale.

E’ purtroppo vero che quando si parla di carità o di organizzazioni caritative, l’opinione pubblica pensa sempre ad una elemosina dalla quale il beneficiario è messo nella condizione di vergognarsi e che quasi mai risponde in maniera adeguata al suo bisogno. Questo non si può dire, fortunatamente, per la nostra organizzazione e “l’impresa solidale” che la gestisce.

Possiamo affermare, con legittimo orgoglio, che a Mestre nessun cittadino, proprio nessuno, può lagnarsi o soffrire per mancanza di indumenti, perché la nostra risposta è esaustiva per tutti. Nessuno è messo nella condizione di vergognarsi per ciò che riceve, perché lo “paga”, anzi ne può andare fiero perché il “prezzo” che esborsa diventa atto di carità per altri bisognosi.

Infine l’ipermercato solidale degli indumenti “San Martino” si regge, dal punto di vista economico, in maniera autonoma, anzi produce guadagno. Noi di “vestire gli ignudi”, per grazia di Dio, possiamo offrire un nuovo modello di solidarietà che non solamente in dieci anni è diventato una esperienza leader in campo nazionale, ma possiamo far scuola a tutte quelle organizzazioni traballanti, inconcludenti e che puzzano di beneficenza ad un chilometro di distanza.

L’uomo e la natura

Prima nel paradiso terrestre delle Cinque Terre – quella riviera incantata in cui la montagna sembra abbracciare il mare, quella che una decina di anni fa ho visitato con gli anziani di Carpenedo – e poi a Genova, la città che vive sul mare, s’è scatenato il “diluvio universale”.

Ora che il mondo s’è fatto piccolo ed è diventato il villaggio in cui le case sono accostate le une alle altre ed in cui ognuno sa tutto dell’altro e partecipa, anche emotivamente, a ciò che tocca al vicino, siamo tutti coinvolti dal dramma del “diluvio” che ha colpito la Riviera di ponente. Abbiamo visto le scene raccapriccianti, la potenza rabbiosa e distruttiva dell’acqua che si è ribellata all’egoismo e alle forzature dello sfruttamento del suolo.

Di fronte allo spettacolo infernale, credo che tutti siamo rimasti attoniti e sgomenti, avvertendo finalmente tutta la nostra fragilità ed impotenza di fronte alla forza della natura.

Questo inferno dantesco ha colpito spesso il nostro meridione, lo scorso anno il nostro Veneto, ora la Liguria, ma nonostante questi “segni dei tempi”, come li chiamerebbe papa Roncalli, pare che non abbiamo ancora capito la lezione e continuiamo ad essere egoisti, arroganti, illusi d’essere riusciti a sederci nel trono di Dio attraverso le scoperte scientifiche, la violenza sulla natura, le manipolazioni genetiche e tutte le diavolerie dell’uomo moderno, montato, illuso e sapientone.

Io sono troppo piccolo e modesto per comprendere il senso di questi segni, che penso debbano essere moniti a rispettare il progetto di Dio sulla terra e sull’uomo.

Ho letto un tempo una massima che mi aiuta un po’ ad inquadrare questi eventi: “Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, ma la natura mai”. L’uomo si autocondanna alla sofferenza e alla morte ogniqualvolta si illude di manipolare e storpiare il progetto di Dio. I disastri del diluvio di Genova e della splendida Riviera di ponente sono sotto gli occhi di tutti!

Ora opinione pubblica e magistratura cercheranno inutilmente i colpevoli, mentre siamo tutti colpevoli perché non ci fidiamo della sapienza di Dio e vogliamo far di testa nostra.

Foglie secche

La nuova viabilità mestrina mi costringe, almeno due volte al giorno, ad imboccare la molto trafficata via Giovanni Da Verrazzano per girare poi a sinistra, dopo il primo semaforo, e percorrere quasi tutto viale Garibaldi.

Nei giorni di inizio novembre percorro il viale con vera ebbrezza, ammirando le foglie tutte d’oro dei grandi tigli che fiancheggiano la strada che i mestrini di quasi un secolo fa costruirono per collegarsi a Treviso, ispirandosi ai viali parigini di Versailles – come annota l’architetto Artico che progettò la nuova arteria, che in realtà unisce Mestre a Carpenedo.

I raggi di sole dell’estatella di san Martino fanno letteralmente sfolgorare quei gialli forti ed intensi che già tendono al marrone. Percorro il viale per motivi del mio ministero nel camposanto a mezza mattina e nel primo pomeriggio.

Ad ogni passaggio noto che le foglie dei grandi tigli offrono il meglio del loro splendore prima di cadere fatalmente ogni giorno in numero sempre maggiore sull’asfalto. C’è però qualche tiglio che, non so per quale motivo, conserva più foglie ed esse sono più verdi, più salde sui rami. Però presto cadranno anche loro.

In questi giorni sto leggendo una biografia di un vecchio prete nato al confine tra la provincia di Venezia e quella friulana. Il volume ha un titolo singolare “Foglie secche”. Riporto il primo pezzo della prefazione che ben si coniuga col mio stato d’animo, con la stagione della mia vita e le note del mio “diario”.

Foglie secche

Una sera a Pechino, uscendo per la prima volta di casa dopo una grave malattia, mi diressi, col fedele C. Comisso al parco imperiale ed entrai nel recinto di una solitaria pagoda.

Il recinto era pieno di grandi alberi. Un malinconico e dolce senso di raccoglimento era diffuso nel luogo; il silenzio era solo turbato qualche volta dal frusciare delle foglie per il passaggio di qualche alito d’aria.

Il sole, tramontando, accendeva riflessi d’oro sui tetti di smalto del tempio e sulle foglie autunnali degli alberi. Molte altre foglio erano già cadute al suolo, coprendolo di un soffice tappeto giallo.

Il guardiano della pagoda uscì da una casetta laterale e prese a scopare il pavimento, ammonticchiando le foglie negli angoli per trasportarle poi fuori e deporle in qualche luogo riposto e selvatico.

Mi pare che la mia vita somigli ad uno di quegli alberi autunnali; molte foglie sono cadute, altre si dispongono a cadere. Come quel custode, anch’io ho pensato di raccogliere un po’ di foglie secche; le foglie non valgono più nulla, ma possono ancora contenere qualche nascosto ed utile germe. Anche la più umile vita può riserbare qualche buon seme di esperienza. Ecco il perché di questo libro e di questo titolo.

La mia vita non ha nulla di straordinario; ma ben sono stati straordinari il tempo ed i luoghi in cui mi è spesso toccato di vivere.

Bene fanno i radicali a protestare per le carceri!

La signora Laura, che non soltanto inserisce nel computer le mie riflessioni appassionate ma vagabonde, ma è pure la coscienza critica della grammatica e della sintassi dei miei periodi aggrovigliati ed infiniti (tanto che penso che solamente san Paolo usi nelle sue lettere uno stile altrettanto e forse più contorto), mi ripete con amabilità e dolcezza che arrischio di essere spesso ripetitivo. Tutto questo è vero, anzi verissimo. Ciò è dovuto al fatto che il mio patrimonio di pensiero personale e di cultura è povero e limitato, ma anche al fatto che sono talmente convinto ed innamorato di alcune idee portanti della mia visione della vita, le vedo così poco condivise e ho coscienza dell’estrema difficoltà di passarle, che mi trovo quasi costretto a ritornarvi sopra e a ribadirle, battendo spesso sugli stessi “chiodi”.

Una delle sentenze che ai tempi del liceo i nostri professori tentavano di passare a noi studenti, poco amanti del sapere, era questa: “repetita iuvant”, il pensiero ripetuto finisce per entrare nella coscienza e perciò giova alla saggezza. Sentenza che noi, dissacratori del sapere, storpiavamo aggiungendo, in un latino maccheronico, “sed stufant”, ma finiscono per stancare!

Con questa premessa e con questa tentata giustificazione, sento il bisogno di ribadire la mia ammirazione per l’appassionata ed ammirevole campagna dei radicali, e in particolare di Marco Pannella, nel denunciare l’ignominia del nostro Stato che permette l’obbrobrio di centinaia di migliaia, e forse di milioni, di pratiche giudiziarie inevase e giacenti negli sgangherati archivi dei tribunali, e l’altra, ancora peggiore, delle carceri sovraffollate, disumane, che riescono ad ottenere l’esatto contrario di quello dichiarato: la redenzione del colpevole.

Io non sono in grado di affermare di chi è la colpa, chi deve intervenire, però sono ben consapevole che questa è una barbarie, una colpa sociale ed un peccato imperdonabile. Perciò Pannella e la sua sparuta squadretta di fanatici – anticlericali finché si vuole – hanno il merito di denunciare in maniera appassionata questo imperdonabile degrado sociale, di farlo insistentemente, con ogni mezzo, anche a prezzo di un isolamento politico e di un pericolo per la propria vita – vedi i digiuni prolungati di Pannella.

Una volta ancora mi rendo conto che le vie che portano al Regno sono infinite e che quasi certamente i radicali cantano la gloria di Dio e si “guadagnano il Paradiso” attraverso le loro denunce e le loro “penitenze”!

Un pensiero quantomai attuale di don Mazzolari sulla carità

Un mio giovane collega ha pubblicato recentemente sul periodico della sua parrocchia – uno dei più degni fogli parrocchiali della nostra città – un pensiero di don Mazzolari, che io non conoscevo. Sento il bisogno di riportarlo perché avverto ancora troppa sonnolenza, disattenzione ed assenza su questo fronte del messaggio cristiano.

Dice don Mazzolari, il sacerdote che papa Roncalli definì “La tromba di Dio nella Bassa padana: «Chi ha poca carità vede pochi poveri, chi ha molta carità vede molti poveri, chi non ha carità non vede nessuno!».

Don Mazzolari è uno dei profeti maggiori del nostro tempo ed un interprete aggiornato e fedele del messaggio cristiano per la gente di oggi.

La sua sentenza perentoria può sembrare perfino esagerata, ma se ci si rifà al pensiero di san Giovanni Crisostomo, il quale afferma che è preferibile onorare e servire Cristo nella veste del povero che nella sontuosità dei templi e dei riti, si capisce subito come egli abbia ragione.

Oggi non c’è parrocchia che non abbia una chiesa più o meno bella, un campanile con le relative campane che suonano l’accolta dei fedeli per la preghiera, non c’è parrocchia che non possegga un patronato, un campetto di calcio per i ragazzi, delle aule di catechismo per educare i fanciulli all’apprendimento della dottrina cristiana.

Non altrettanto si può dire per quanto riguarda la carità. Sono ancora troppo poche le parrocchie che diano testimonianza di un’attenzione e di un servizio serio a favore dei poveri, e meno ancora quelle seriamente impegnate a dare risposte aggiornate, serie e concrete alle nuove povertà. Rifacendoci a don Mazzolari, ciò è dovuto alla grave carenza della pratica della virtù della carità, che non è solamente una delle virtù principali proposte dal messaggio di Gesù, ma rappresenta un aspetto essenziale della proposta cristiana. La sontuosità dei riti religiosi e la stessa partecipazione dei fedeli alla liturgia, non solamente non può fare da contrappeso alla pratica della carità, ma anzi può ingannare i fedeli e contrabbandare una prassi cristiana come autentica, mentre manca di un elemento essenziale.

Il rispetto fra credenti e atei deve essere reciproco!

Ho scritto più volte che io nutro una gran comprensione per chi non crede, però mi aspetto che chi non crede nutra pure lui rispetto verso chi la pensa diversamente. Non sopporto chi irride i credenti, chi pontifica dall’alto con la prosopopea di chi ha in tasca tutta la verità, chi mortifica senza motivo la fede dei semplici e degli umili.

Nella Chiesa oggi vige la tolleranza e il rispetto, com’è giusto che sia, verso chi non condivide il più sacro patrimonio ideale dei credenti, ma spesso c’è ignavia ed acquiescenza verso chi con arroganza dissacra chi crede. Verso questi atei militanti ed integralisti penso si debba reagire con decisione e senza complessi di sorta.

Qualche settimana fa la redattrice della rubrica de “L’incontro” che tratta problemi di ascetica, di teologia, di biblica e di spiritualità in genere, mi ha raccontato una sua recente avventura a proposito di questi atei militanti. Attratta dal titolo, che sembrava affrontare una tematica religiosa che si sarebbe tenuta in un incontro al “Candiani”, decise di parteciparvi. Ben presto si accorse con sorpresa e stupore che la conversazione era stata organizzata da un’associazione di atei che operano a Mestre e che chi conduceva l’incontro ridacchiava in maniera dissacrante ed irriverente la Bibbia, senza che alcuno dei presenti, molti dei quali erano ignari del gruppo che aveva organizzato l’incontro e probabilmente erano intervenuti pensando che l’argomento fosse trattato a livello serio, avesse avuto il coraggio di prendere la parola.

La giornalista de “L’incontro”, a cui non manca la dialettica e la preparazione culturale, ha preso la parola ribattendo le tesi esposte e soprattutto reagendo al settarismo con cui esse erano trattate.

Di certo non ha convinto questi quattro saccenti ed irriverenti, ma almeno ha portato il dibattito ad un livello di seria dialettica, tanto che qualcuno le ha chiesto di intervenire ancora ai dibattiti che il gruppo avrebbe organizzato in futuro.

La nostra collaboratrice ha fatto presente che era stucchevole e poco interessante riproporre le solite vecchie tesi che ci arrivano dall’illuminismo e dal razionalismo dei secoli passati. La ricerca religiosa esige sempre onestà intellettuale, rispetto delle posizioni altrui, argomentazioni razionali, non certo alterigia intellettuale e supponenza di pensiero.

Quello che mi sorprende è che la curia, con tutto quel mastodontico apparato pastorale che appare nell’annuario, non segua questi eventi e non mandi persone preparate culturalmente per costringere ad una ricerca e ad un dialogo rispettoso questi corpuscoli che possono seminare l’idea di essere i soli detentori della scienza e della verità.

Contro una burocrazia impossibile

Sarei strafelice se potessi constatare ogni giorno che le cose nel nostro Stato e nel nostro Comune funzionassero a dovere e ci fosse una grande sinergia tra enti statali, parastatali, comunali e del privato sociale. Poter registrare questa funzionalità sociale indurrebbe alla fiducia nella “cosa pubblica”, desterebbe orgoglio di appartenere ad un paese ordinato e funzionale che eroga con rapidità ed efficienza i servizi di cui i cittadini hanno bisogno e desterebbe nella gente un senso di sicurezza e di serenità.

Invece no! Chi si occupa in qualche modo degli altri e si impegna nel sociale, si imbatte ad ogni pié sospinto in una burocrazia inefficiente che complica in modo indicibile ed assurdo anche le cose più elementari.

Di fronte a questa ottusità, degna del Regno delle due Sicilie e di re Franceschiello, ho deciso di non rassegnarmi, di non subire, ma di reagire sempre e comunque, non battendo la strada delle raccomandazioni ma del pretendere ciò che mi è dovuto, anche denunciando con documenti e certificati ogni singolo fatto ai responsabili dei vari enti arrivando perfino al procuratore della Repubblica per ogni disfunzione che torna a danno del cittadino.

Vengo ad un esempio quanto mai recente. Il 15 ottobre abbiamo inaugurato il “don Vecchi” di Campalto, una splendida struttura che mette a disposizione della città altri 64 alloggi per anziani con la pensione di 480 euro mensili. Abbiamo scritto sulla facciata della struttura, che dista una settantina di metri da via Orlanda, “Centro don Vecchi”. Il giorno prima dell’inaugurazione è venuto un agente di quell’Anas, ente da cui abbiamo aspettato per mesi e mesi il permesso di far passare il tubo della fognatura sotto la strada, senza fermare il traffico e pagando ben 30.000 euro. Il funzionario era venuto a segnalarci l’infrazione, o il “reato”, di aver scritto “Centro don Vecchi” senza aver prima chiesto il permesso e pagato la tassa. Bontà sua che non ci ha applicato la multa, ma in attesa di ottenere il permesso e pagato la tassa abbiamo dovuto coprire la dicitura. Eh no, così non va!

Fra qualche settimana una ottantina di anziani del “don Vecchi”, dai settanta ai novant’anni, nuovi residenti di questa struttura, dovranno percorrere più di mezzo chilometro di via Orlanda, la famigerata strada che non prevede neppure un centimetro per i pedoni e le biciclette, perché dovranno pure andare in centro a comprarsi da mangiare. Prevedo che se non si provvede immediatamente ad una pista ciclo-pedonale ci sarà un morto al giorno!

Ho già pronta una lettera con ricevuta di ritorno con la quale rendo personalmente responsabile “Chi di dovere” di ogni eventuale incidente, una all’assessore della viabilità del Comune di Venezia ed un esposto al Procuratore alla Repubblica, oltre ad un articolo alla settimana sulla stampa locale.

Credo che questo sia l’unico mezzo per stanare questi funzionari degli enti pubblici e per costringerli a fare il loro dovere.

La vita religiosa nel Veneto di ieri costringe a guardare l’oggi con altri occhi

Una bimbetta, conosciuta più di trent’anni fa al “Germoglio”, il prestigioso centro polifunzionale per l’infanzia della mia vecchia parrocchia di Carpenedo, ed ora ricercatrice e funzionario della Sovrintendenza ai monumenti di Venezia, è venuta a cercarmi per regalarmi un volume che lei, giustamente, riteneva che mi avrebbe interessato.

Credo che Elena, questa giovane e brillante signora, si interessi particolarmente dei monumenti e degli scavi nel Veneto orientale ed in particolare di Concordia. Nelle sue ricerche si è imbattuta in un volume di un vecchio parroco di Concordia, don Celso Costantini, il quale ha scritto la sua biografia, intitolandola “foglie secche”, volume su cui intendo ritornare a motivo della sua prefazione. Dato che il volume non si trova più in libreria e nell’attesa e nella speranza che sia ristampato, la signora, ricordandosi del suo vecchio parroco e del suo diario, si prese la briga di fotocopiarlo interamente per farmene un regalo.

Questo don Costantini lo avevo già conosciuto sommariamente perché sia lui che suo fratello, pure sacerdote, avevano, come si suol dire, fatto una brillante carriera ecclesiale: uno diventato vescovo e l’altro cardinale. Uno dei due, grande esperto d’arte sacra, aveva scritto un libro che, in seminario di Venezia, avevano adottato come libro di testo.

Sto letteralmente divorando il testo regalatomi, per la prosa brillante, per l’impronta squisitamente pastorale e soprattutto perché descrive i costumi, le usanze, la religiosità e la vita delle parrocchie venete che io ho conosciuto nella mia infanzia. Leggendo il testo di questo prete, d’origine friulana, ma di educazione veneta, ho riscoperto le radici della religiosità semplice ma robusta della mia gente e sono costretto a fare delle comparazioni con il mondo religioso in cui ora sono immerso.

Questo ultimo secolo ha segnato dei mutamenti radicali nelle convinzioni e nella pratica religiosa del Veneto. Ho l’impressione che oggi sia rimasta la forma negli ambienti più poveri della nostra campagna, ma che se ne siano persi il cuore, la sostanza, l’essenza, mentre s’avverte ancora molto poco della religiosità promossa dal Concilio, condizionata dalla cultura corrente.

Credo che i preti siano riusciti ben poco a far passare il guado religioso e offrire il nuovo respiro che deve avere il cristianesimo d’oggi se vogliamo che i princìpi evangelici incidano sulla coscienza e sulla vita degli uomini del mondo attuale.

Che gioia la prima riunione del nuovo Consiglio della fondazione!

Durante la scorsa settimana sono stato gentilmente invitato a partecipare alla prima convocazione del nuovo consiglio di amministrazione della Fondazione del “don Vecchi”. Sono stato estremamente ben impressionato, a cominciare dalla convocazione.

Sotto la mia gestione l’incontro del Consiglio era una vera questione di Stato. Si cominciava con una serie di telefonate per verificare la disponibilità dei vari membri a parteciparvi e non era cosa da poco riuscirvi, per i vari impegni di ognuno. Una volta risolto questo problema, veniva mandata una E-mail con l’ordine del giorno. Infine, non fidandomi delle “diavolerie” dell’elettronica, mandavo anche una lettera. Quasi sempre mancava qualcuno e tra quelli che intervenivano c’era sempre uno o due che dovevano andarsene presto per precedenti impegni.

Con don Gianni le cose sono cominciate ben diversamente. Inviò ai consiglieri una semplice e-mail a bruciapelo, a me una telefonata per rispetto alla mia canizie. Don Gianni, presidente, ha tirato fuori il suo computerino portatile e mentre con la bocca parlava, le sue mani danzavano leste sulla tastiera.

Il nuovo presidente ha comunicato velocemente date e modalità della nomina, si è informato sui problemi più urgenti, ha fatto mettere a verbale le prime iniziative e scadenze ed ha condotto in maniera veloce e spigliata la seduta di consiglio, riprendendo in mano l’annosa discussione sulla “cittadella della solidarietà”, avviando il progetto su un binario sicuro e sgombero da ostacoli curiali.

Sono rimasto veramente ammirato dalla autorevolezza, dalla spigliatezza e dal senso di responsabilità nel prendere in mano le varie questioni. Sono uscito ringraziando il Signore della grazia che ha fatto a me e al “don Vecchi” per aver mandato questo giovane prete, perché credo che con lui il movimento della solidarietà avrà certo un domani.

Ritornando in appartamento ho ripetuto il “nunc dimittis Domine” che avevo pronunciato durante l’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto, dicendo l’antica frase che ripetono gli anziani: “Beati voi giovani!”. Sono convinto che nella famiglia del “don Vecchi” si siano ricomposti i ruoli e finalmente io potrò svolgere quello che mi si addice, cioè il nonno!

La burocrazia c’è anche nella Chiesa!

Quando sei anni fa ho cominciato questo mio diario ho capito subito che non potevo alla sera scrivere la pagina perché l’indomani mattina fosse pubblicata, e meno ancora scrivere al sabato perché la domenica mattina il settimanale fosse in edicola. La filiera della mia “azienda” è condotta da volontari i quali fanno quello che possono e quando lo possono e quindi il percorso è lungo e tortuoso. Il mio diario quindi lo scrivo quando ho tempo e quando penso di avere qualcosa che penso opportuno dover dire.

Ho fatto questa premessa perché quando “L’incontro” va “in edicola” il diario porta il nome dei singoli giorni della settimana e le date relative, però in realtà io ho messo nero su bianco anche due o tre mesi prima. Il mio diario vuole essere in realtà solamente uno strumento di dialogo, una riflessione sul quotidiano, un messaggio ed una critica, che però è legata ad una stagione della vita piuttosto che ai giorni del calendario.

E vengo all’argomento di cui voglio parlare, che al momento in cui scrivo è quanto mai attuale, ma che probabilmente potrebbe essere del tutto superato come fatto contingente nel momento in cui uscirà, ma che nella sostanza può valere per altre realtà.

La nostra diocesi è senza capo ormai da mesi. Per l’ordinaria amministrazione hanno messo su un “governo balneare” o meglio “autunnale”, ma è un po’ arruffato, con pochi poteri e meno programmi. Perché? Credo che in Italia vi siano migliaia di monsignori che sognerebbero di diventare vescovi, decine e decine di piccoli vescovi che sognerebbero di diventare patriarchi. Quindi non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Mi riesce difficile, se non impossibile, pensare che il Santo Padre se ne stia con la testa tra le mani, per risolvere il dubbio amletico su chi nominare a Patriarca di Venezia. Se il Papa avesse proprio tanta difficoltà, potrei aiutarlo anch’io suggerendogli qualche nome di parroco della diocesi che potrebbe fare benissimo da vescovo di Venezia. Il guaio però credo che sia la solita burocrazia a complicare le cose e rendere difficili anche le cose più semplici di questo mondo.

Si è detto che il comunismo aveva creato il più imponente ed inefficiente apparato burocratico, però mi pare che il nostro Stato, parastato e perfino le strutture ecclesiastiche non siano proprio da meno. La burocrazia di ogni tipo è sempre tanto assurda quanto soffocante. Che non sia il caso di aggiungere un’altra litania a quelle che si rivolgono a Dio per liberarci dai burocrati che infestano la vita sociale, aggiungendo l’invocazione: “Dalla burocrazia assurda ed inconcludente, liberaci, o Signore!”?

Il passato insegna: quando servono, bisogna accettare anche le medicine amare!

Nota della Redazione: questa rifllessione di don Armando, come tutti le altre che pubblichiamo qui e su “L’Incontro”, risale a un paio di mesi fa, anche se nomi a parte, appare estremamente attuale.

Mia mamma era piuttosto empirica nel curare la sua numerosa nidiata di sette figli. In cucina c’era un vecchio cantonale dipinto di marron che fungeva da ambulatorio e da farmacia familiare. Dentro ci metteva l’olio di ricino che lei usava senza risparmio e che riteneva efficace per quasi tutte le “malattie”, qualche vasetto di pomata, e il “santonico” (a quel tempo lo si chiamava così), che credo fosse un infuso per il mal di pancia, e infine “lo spirito”, ossia la boccetta dell’alcool.

Nessuna di queste medicine ci era assolutamente gradita, ma la mamma sentenziava, con la sicurezza di un cattedratico che “le medicine quanto più sono cattive, tanto più fanno bene!”. Con questa dottrina ci ha curato tutti e sette e con efficacia perché da me, che sono il primo ed ho quasi ottantatrè anni, al più piccolo che è don Roberto e ne ha più di sessanta, siamo tutti vivi e vegeti.

Mamma mia era una donna autorevole, sicura di sé, per cui non si discuteva sulle sue diagnosi e sulle terapie con cui ci ha curato tutti e sette.

Ho pensato spesso a mia madre e ai suoi rimedi sanitari in quest’ultimo tempo in cui la nostra società ha mal di pancia, di testa e un’infinità di altri malanni. Se mia madre avesse perso tempo ad ascoltare le nostre lagne e le nostre bizze per non ingoiare l’olio di ricino o per farsi disinfettare le sbucciature delle ginocchia con “lo spirito”, credo che saremmo morti da tempo.

Qualche volta mi verrebbe la voglia di telefonare a Napolitano o a Berlusconi, al presidente della Camera o del Senato e dir loro: «E’ inutile e stupido che ascoltiate tutte le lamentele e le insofferenze dei parlamentari, dei sindacati, della Confindustria o dell’artigianato, perché le medicine che fanno bene sono sempre amare, l’Italia ha bisogno di sobrietà, di severità, di impegno sul lavoro, di meno lussi, di meno vacanze e di meno sprechi. Poi ha bisogno che la gente che ha il compito di comandare, comandi, senza farsi turbare dalle critiche, dalle chiacchiere e dalle illusioni di chi non ha responsabilità.

Questi sono i due rimedi infallibili: olio di ricino e alcool!

Io nel passato mi sono sempre rifatto alla dottrina di mia madre e la mia parrocchia è diventata una delle più ricche e delle più efficienti ed ora è la stessa cosa per il “don Vecchi”.

Il mio vecchio parroco sentenziava: “Chi è in mare naviga e chi è in terra critica!” Non si può navigare, ma si deve navigare! Ed oggi è possibile come sempre!

Un mondo che ha perso l’onestà dei rapporti umani

Molti anni fa, al tempo in cui mi occupavo di Radiocarpini, un po’ per vezzo, un po’ per “amor di Patria”, pensai che anche la radio parrocchiale dovesse avere, come ogni realtà che si rispetta, il suo marchio. Dapprima pensai di inventarmelo e poi, avvertendo che la cosa non era così facile quanto pensavo, decisi di rivolgermi ad un grafico.

Qualche tempo dopo questi mi presentò la sua opera: una specie di colomba, un po’ paffutella, che usciva da qualcosa che poteva sembrare una finestra (immagino che si sia ispirato alla colomba dell’arca di Noè, mandata a vedere se la terra fosse tornata all’asciutto dopo il diluvio universale). A me disse che significava la comunità cristiana che inviava un messaggio di pace e di bontà al mondo attuale. Come idea non era male, anche se il volto dell’idea non era altrettanto felice.

Comunque di questa esperienza ricordo un altro aspetto, meno gradevole. Quando il grafico mi portò il suo lavoro, me lo consegnò in una busta bianca molto grande; dentro c’era un foglio nero piegato, dentro il foglio un altro foglio di carta velina ed un altro ancora di carta bianca su cui c’era il disegnetto con la colomba. Dapprima rimasi stupito di questa dovizia di minialloggi, quando egli avrebbe potuto consegnarmi il foglietto brevi manu, senza tante cornici. Poi, quando io gli chiesi il costo ed egli mi rispose “quattrocentomila lire”, allora capii il perché di tanta ampollosità della custodia del progettino. Ho imparato la lezione. Però confesso che non posso e non la voglio accettare, perché mi sa di ipocrisia e di raggiro.

Questo discorso vale per tanti professionisti e per i notai, in specie, per il mondo del commercio, dell’industria, della ristorazione: tanto spreco per la forma, per nascondere l’inconsistenza e la povertà della sostanza!

Il nostro mondo mi pare che sia impostato su questi riti esteriori che nascondono il nulla o l’effimero. Quanto non preferisco la stretta di mano o il “si” o il “no” del Vangelo. E’ tempo che svestiamo il re e lo mettiamo a nudo per riportare i rapporti umani all’onestà e alla essenzialità!

Difficile festeggiare la “liberazione” della Libia

La “liberazione” della Libia da un dittatore stravagante e feroce avrebbe dovuto suscitare sentimenti di esultanza e profonda soddisfazione in uno come me che crede perdutamente nella libertà e nella dignità della persona. E invece no!

Le vicende della Libia hanno lasciato nel mio spirito un sentimento di tristezza, una sensazione di sporco per un qualcosa che è cominciato certamente male e che sono preoccupato che finisca peggio.

L’iniziativa a sorpresa della Francia, la quale improvvisamente sembra che non potesse più vivere per l’incubo della dittatura di Gheddafi, mentre non sembra per nulla preoccupata e non abbia iniziative di sorta per quella cinese.

L’accordarsi veloce di molti Stati europei – e particolarmente dell’Italia – preoccupati di essere esclusi dalla caccia al petrolio.

L’impegno bellico degli Stati d’Europa a smantellare con i loro raid aerei l’apparato bellico della Libia, intervento senza il quale mai e poi mai i ribelli di Bengasi avrebbero avuto la meglio, intervento che ha letteralmente devastato le città di quella povera gente dell’Africa settentrionale che già aveva sofferto per i quarant’anni di “regno” di un satrapo della peggior specie.

“L’esercito di liberazione” poi, più simile ad una “armata Brancaleone”, disordinato, senza la minima norma, che spara in maniera dissennata senza risparmio e senza perché, m’è sembrato una banda di gente vogliosa solo di menar le mani. E ancora il linciaggio e la barbara esecuzione del colonnello, fatta da un ragazzotto, mi ha riempito l’animo di orrore.

La prospettiva di scontri tribali che certamente non favoriranno la nascita di un’autentica democrazia, un governo provvisorio che pare più attento agli ordini dei finanziatori della ribellione che ai grandi valori della libertà. E infine il primo atto ufficiale della nuova leadership che sceglie la Sharia, concezione e cultura politico-religiosa più vicina al medioevo che al terzo millennio, mi rende assai perplesso, mi crea dubbi e preoccupazioni amare.

Quando penso alla povera gente che è passata con disinvoltura dall’osannare con fanatismo il dittatore, alla baldanza per la vittoria finanziata da Sarkozy, mentre il Paese è sfasciato e con prospettive affatto lusinghiere, non riesco proprio a brindare per la riconquistata libertà e democrazia della Libia.