Inimicizia e invidia

Durante il tempo che sono stato parroco era nata l’iniziativa pastorale di fare con gli anziani un’uscita quasi ogni mese in una località di un qualche interesse storico, artistico o paesaggistico del nostro Veneto. Con questa iniziativa speravamo di raggiungere più di un risultato: uscita, preghiera e vita assieme, il tutto senza troppa fatica e troppo denaro.

Ricordo che una volta siamo stati al castello di Valmarino che si trova dalle parti di Cornuda e di Valdobbiadene. Partimmo nel primo pomeriggio, celebrammo l’Eucaristia nel luogo prescelto, destinammo un po’ di tempo alla visita della meta prescelta e poi ci concedemmo una merenda assieme.

Il castello era stato costruito dalla nobile famiglia di patrizi veneziani che l’avevano abitato fino ad una ventina di anni fa. L’ultimo erede perse tutto al gioco, castello compreso, e poi risolse il problema con un colpo di rivoltella.

I salesiani comperarono tutta la collina su cui c’era il castello, tentarono di farne una scuola, ma la cosa non andò bene e così decisero di alienarlo anche loro.

Il castello era bello e collocato in un luogo splendido dal punto di vista paesaggistico. Però successe che durante l’interregno tra i vecchi e i nuovi proprietari, i contadini che conducevano le terre attorno e detestavano i padroni, fecero scempio del castello e rubarono quanto più poterono.

Ricordo che il rettore dei salesiani che ci ospitò, ci disse che avevano acquistato il castello e le terre adiacenti, ma con l’acquisto avevano pure acquistato tutto l’odio e il rancore che questi contadini avevano nutrito per i loro vecchi padroni che li avevano angariati per secoli.

Spesso, vedendo le difficoltà che il nuovo presidente dei Centri don Vecchi incontra, m’è venuta in mente l’affermazione dei salesiani a proposito del castello e dei contadini che lavoravano le terre del vecchio proprietario e m’è venuto da chiedermi, con preoccupazione ed amarezza, se non avessi anch’io trasmesso con i Centri don Vecchi anche le inimicizie, le invidie dei miei colleghi, dei miei vicini e della civica amministrazione con i quali ho dovuto sempre combattere per offrire agli anziani meno fortunati della nostra città un luogo confortevole e sereno.

Se fosse così, sarei tanto dispiaciuto, perché ho sempre inteso trasmettere al mio successore solamente delle strutture solidali e non le meschinità e il malanimo di vicini e oppositori. Speravo infatti che la meschinità e il rifiuto dovessi portarli con me e non fossero legati alla mia opera.

L’Europa, l’Italia, il Comune…

Anche quando uscirà questa pagina del mio povero diario spero che le cose delle quali ho pieno il cuore, e che mi preoccupano alquanto, siano felicemente risolte.

Ho osservato il silenzio perché ora non porto più la responsabilità della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi. Ritengo giusto che chi è al timone scelga la rotta e le modalità di condurla e che chi vi collabora non lo intralci, anzi favorisca in ogni modo il suo modo di raggiungere lo scopo. Ho poi grande fiducia e grande rispetto per il giovane “capitano” e perciò spero proprio che ci porti alla meta.

Grazie a Dio siamo riusciti, pur con qualche difficoltà, ad ottenere il finanziamento per il “don Vecchi 5”, destinato agli anziani in perdita di autonomia. L’assessore Sernagiotto ha ottenuto un fondo di rotazione di cui a noi sono stati destinati quasi tre milioni di euro, da restituire in 25 anni a tasso zero.

Sarà di certo un percorso di guerra quello di incassare concretamente la somma, perché alla burocrazia italiana dovremo sottostare; in questo nostro caso si è aggiunta quella europea.

Comunque, disponendo di collaboratori ormai abituati a percorrere gli itinerari tortuosi ed assurdi della burocrazia, credo che da questo lato ce la faremo. Mentre le difficoltà insorgono a causa del nostro Comune. La fruibilità di un terreno che la Fondazione possiede a Campalto è condizionata dal fatto che il Comune decida di fare o non fare la via Orlanda bis.

Il nostro Comune, anche in questo settore, si rifà al comportamento dell’asino di Buridano, che non riesce a scegliere. Allora ci ha ventilato, in alternativa, un’altra soluzione, ma anche per questa sta manifestando indecisione.

Intanto il tempo passa ed aumenta il rischio di perdere questa insperata e splendida opportunità. Oggi è in gioco il domani e la serenità di un’altra ottantina di anziani poveri e per di più alquanto acciaccati.

Io sarei stato per lo scontro frontale, per l’assalto mediatico all’arma bianca. Avrei portato alla sbarra dell’opinione pubblica l’indecisione e l’ambiguità di certi personaggi che tengono banco nella giunta comunale di Venezia. Appartengo infatti alla categoria del piccolo David che ha fiducia nella sua fionda e nei ciottoli del torrente, piuttosto nell’armatura pesante della diplomazia.

Spero, una volta tanto, di aver torto e che il guanto di velluto del nuovo Consiglio di amministrazione raggiunga lo scopo senza ferite e “spargimento di sangue”. Sarò quindi ben felice se la Fondazione otterrà, prima della scadenza del tempo, la superficie alternativa a quella che abbiamo indicato alla Regione. Se così non avvenisse, “non ci saranno santi che tengano”: attaccherò con ogni mezzo chi si è offerto di governarci e ora non ha più coraggio di farlo.

Una lunga inaccettabile attesa

Sento il bisogno e il dovere di fare alcune premesse a quanto sto per scrivere.

La prima: butto giù questa riflessione domenica 29 gennaio di primo mattino; quando vedrà la luce l’evento su cui credo giusto dir la mia opinione e dare il mio contributo, questi pensieri non saranno né attuali, né tempestivi, ma la vita è lunga e continua, perciò penso che possano servire per il domani.

Seconda: ieri, sabato 28 gennaio, il Gazzettino, il quotidiano della nostra città, dopo aver parlato molte volte della nomina del nuovo Patriarca e aver fatto supposizioni, analisi, previsioni ed illazioni, dava ormai per certo per oggi la nomina di mons. Moraglia, vescovo di La Spezia. Oggi però non c’è neppure mezza riga sull’argomento.

Terza premessa, forse la più importante: intervengo solo perché amo la Chiesa, la sogno povera, pulita, coerente al Vangelo, semplice, però anche seria, ordinata e più pronta ed efficiente di quanto non siano gli apparati della nostra società e del nostro Stato. Detto questo, sento il bisogno di affermare la mia amarezza e la mia delusione per il comportamento della curia locale e quella vaticana. Sette mesi di attesa sono comunque troppi, qualsiasi siano le ragioni con le quali si tenti di giustificare questa lentezza burocratica.

Per quanto riguarda i personaggi che hanno gestito localmente l’evento, mi sono sembrati, privi di un minimo di intraprendenza. Mi pare che san Paolo, ch’era pure lui un pivello nella gerarchia ecclesiastica del tempo, dica: “Gli resistetti in faccia!”.

Per quanto riguarda la burocrazia vaticana, che per me rimane sconosciuta e misteriosa, erede purtroppo di un passato poco nobile, peggio ancora! Credo che sarebbe stato opportuno che qualcuno scoperchiasse il tetto, come quando i cardinali non riuscivano ad eleggere il Papa.

Io, ripeto, amo la mia Chiesa, e per questo la voglio vedere bella, pulita, semplice ed efficiente. La vorrei vedere come la sognava don Tonino Bello, il vescovo di Barletta, “in grembiule”, come le nostre mamme che non perdono tempo e tengono sempre in ordine la loro casa, i loro figli e perfino il capofamiglia.

Si è detto, nella stampa di casa nostra, che non era opportuno manifestare sogni e desideri nei riguardi del nuovo pastore; io invece l’ho fatto e ne rivendico il sacrosanto diritto, ma accetterò di buon grado quello che verrà e mi metterò a sua disposizione per quel poco che posso.

Troppo spesso in troppi guardano solo ai propri diritti

Nelle mie vicende “imprenditoriali” mi è capitato purtroppo di frequente che qualche vicino ad una o all’altra delle nostre strutture a carattere solidale, ritenesse, giustamente o no, di essere leso in qualche modo nei suoi diritti veri o presunti e perciò reagisse offeso. In verità ritengo di non aver mai preteso di infrangere la legge; pensavo che, dato che l’opera era sempre costruita a favore di persone bisognose, mi spettasse il diritto di essere compreso ed aiutato.

Spesso, per amor di pace, credo di aver subito reazioni e pretese del tutto ingiustificate e certamente egoiste. Questo modo di pensare però mi ha fatto capire che la gran parte delle persone è estremamente ed esageratamente preoccupata dei propri diritti e per nulla disposta a prender in considerazione e, soprattutto, a farsi carico delle difficoltà degli altri. Per tutto ciò che riguarda la carità si accetta che se ne occupi il prete, ma guai al Cielo se il suo impegno per il prossimo lede diritti veri o presunti tali.

A questo proposito avrei una variegata e, purtroppo, numerosa casistica riguardante il passato ed anche il presente. Qualche giorno fa, a questo proposito, ho assistito alla televisione ad una scena piuttosto emblematica. Marchionne della Fiat ha mandato un operaio metalmeccanico, suppongo della Fiam, in uno stabilimento Fiat delocalizzato in Polonia. Stesso stabilimento, stesso lavoro, stessi macchinari, stessi orari; ciò che risultava diverso era il fatto che mentre l’operaio della Fiat torinese ha uno stipendio di 1300-1500 euro al mese, il collega polacco ne percepisce solamente 400 al mese.

L’operaio torinese si meravigliò e chiese perché i metalmeccanici della Fiat polacca non protestassero e non scioperassero. Al che i polacchi risposero che negli stabilimenti Fiat delocalizzati in Romania gli operai che hanno le stesse mansioni, lo stesso orario, gli stessi macchinari dei torinesi e dei polacchi percepiscono 200 euro al mese e quindi i polacchi accettano i 400 euro al mese senza protestare. Questo è il mondo, questa è la “giustizia”!

Finché non capiremo che dobbiamo creare una società solidale (ma non tra le nostre varie consorterie e corporazioni di privilegiati d’Italia), non si divideranno i beni della Terra ugualmente fra tutti e non ci convinceremo che non è concepibile l’egoismo dei ricchi, come anche quello dei “poveri”, non ci sarà mai né giustizia né pace. Ormai il mondo è, come oggi si afferma, un “villaggio” globale nel quale non devono esistere queste sperequazioni.

Il portafoglio dei preti

Ho letto qualche settimana fa su un bollettino parrocchiale, un articolo di un giovane parroco il quale fa un resoconto puntuale e perfino pignolo sul come nasce il suo stipendio e sulla sua consistenza che, a suo dire, appena gli permette di vivere in maniera molto modesta.

In verità ritengo che il discorso sia onesto ed ineccepibile, però confesso che m’è parso angusto, di poco respiro spirituale, tanto da sentirmi quasi a disagio di appartenere ad una categoria che si rifà piuttosto alle categorie del sindacato che a quelle della Divina Provvidenza.

A questo proposito la lettura di questo articolo mi ha quasi costretto a riandare alle vicende della mia vita. Ricordo che ai tempi in cui ero a San Lorenzo, insegnavo alla scuola pubblica e a fine mese consegnavo la busta chiusa del mio stipendio di docente alle superiori al mio parroco che lo divideva, dando ad ognuno di noi cappellani centomila lire (oggi sarebbero 50 euro). Una volta nominato “vicario parrocchiale” potevo beneficiare della rendita di una campagnola. Monsignor Vecchi mi suggerì di destinare tale rendita ad un prete anziano dell’Istria che viveva a Mestre. Ne fui felice e altrettanto don Budinich che ne divenne il beneficiario.

In quei tempi si discuteva molto sullo stipendio dei preti. Ricordo che in un’affollata assemblea di preti che dibatteva l’argomento, io presentai una mozione in cui si auspicava che tutti i preti del patriarcato avessero un salario pari alla paga di un operaio di Marghera. In quell’occasione si schierò con me don Alfredo Basso, che a quel tempo era considerato più estremista di quanto non pensassero di me. Fummo sonoramente battuti!

Giunto in parrocchia di Carpendo adottai la soluzione di monsignor Vecchi: la parrocchia provvedeva al nostro mantenimento e metteva a disposizione 50 euro attuali per ciascuno; tutto ciò che giungeva in parrocchia, tolte le spese di gestione, era destinato alle attività parrocchiali ed ai poveri.

Con questo regime abbiamo potuto dar vita a numerose e splendide strutture, vivendo in maniera sobria, ma serena.

Giunto alla pensione, come Pietro, ebbi un po’ di paura, perché col metodo usato, non avevo nulla a disposizione per la mia vita di pensionato e chiesi a monsignor Pizziol, allora responsabile diocesano, la consistenza della pensione. Egli si meravigliò che io non avessi accantonato nulla per la vecchiaia; al che io rimasi un po’ sorpreso e deluso.

Avendo però scelto di vivere al “don Vecchi”, condividendo la soluzione che avevo pensato per gli anziani poveri, la mia pensione mi basta, anzi mi avanza per fare un po’ di bene.

Se posso dare un consiglio ai confratelli più giovani, direi a tutti: «Non accumulate niente e guardate ai gigli del campo e agli uccelli dell’aria». Un prete, o si fida del buon Dio, o altrimenti è meglio che cambi mestiere!

Com’era bello celebrare l’amore degli sposi!

Mi capita assai spesso di incontrare gente di tutte le età che mi tratta con una certa confidenza e familiarità, tanto che spesso mi viene da chieder loro “ma mi conosce?”, e più di uno mi risponda: «Non si ricorda, don Armando, che mi ha sposato?». In cinquant’anni di ministero sono “moltitudini” i giovani che ho sposato!

Ho letto in qualche bollettino parrocchiale i bilanci e i resoconti di fine anno di certe parrocchie numericamente consistenti. Per quanto riguarda i funerali, il numero sembra pressappoco quello dei decenni passati, ma il numero dei matrimoni spesso si conta sulle dita di una mano, mentre ricordo che quando ero a San Lorenzo e anche a Carpenedo, spesso i numeri erano invece a tre cifre.

Io nella mia vita di cappellano e poi di parroco, ho celebrato tantissimi matrimoni e l’ho sempre fatto con gioia profonda; la celebrazione dell’amore è sempre stata per me momento inebriante, potendo assistere ad uno dei miracoli più belli della vita. Di natura sono sempre stato un po’ sentimentale e ho sempre coltivato un pizzico di romanticismo, per cui i miei sermoni erano sempre profumati di sogno e di poesia, piuttosto che di fredda teologia o di misticismo, incomprensibile per gli sposi e pure per me.

Ogni tanto mi salgono alla memoria certi schemi ai quali amavo rifarmi. In questi ultimi tempi, avendo la sensazione che la nostra società sia avvolta da un grigiore un po’ cupo, senza entusiasmo e senza sogni, ricordo certe prediche nuziali che mi venivano dal profondo del cuore di fronte a degli sposi che sprizzavano amore da ogni poro. Quando dicevo loro: «Fate che la vostra vita sia una bella avventura, un bel gioco, condotto con entusiasmo, coraggio e passione, ricordatevi che solo i poeti, i santi e gli innamorati sanno vivere davvero, e solo loro colgono tutto il profumo della vita.

Ora sentirei il bisogno di emulare i grandi predicatori del medioevo, che di fronte alle antiche cattedrali parlavano alle folle del mistero di Dio e del dono della vita. Quanto sognerei poter fare alla gente della mia città e del mio Paese il discorso caldo e suadente che un tempo facevo ai giovani che di fronte all’altare stavano giurandosi amore per la vita e che letteralmente bevevano quelle mie parole che volevano essere un invito a vivere la vita con pienezza cogliendo i suoi aspetti più affascinanti.

Come mi piacerebbe ripetere a tutti che la vita può essere un bel gioco ed una splendida avventura che solamente si può cogliere appieno essendo santi, poeti ed innamorati!
Devo però accontentarmi di farlo da questo pulpito di carta, sperando che raggiunga ugualmente lo scopo.

Traditori di ideali

La figura del traditore è per me sempre losca e deludente e mi provoca istintivamente un sentimento di rifiuto e perfino un po’ di ribrezzo.

Al traditore abbino anche la figura di chi si approfitta della buona fede altrui e di chi millanta sentimenti non veri o proposte ed offerte puramente formali perché intaccate dal tarlo dell’egoismo e dell’interesse.

Anche l’opinione pubblica normalmente avalla queste reazioni verso le persone che non sono limpide, trasparenti ed oneste nel loro comportamento e nelle loro proposte.

Qualche tempo fa mi sono soffermato a riflettere su questo argomento in rapporto ad una mia presa di posizione (come sempre mi avviene, dura e tagliente) nei riguardi del comunismo cosiddetto reale, ossia non quello dell’utopia, del sogno di un mondo più giusto, ma quello che storicamente ha tradotto il “manifesto” di Marx, ossia quello del regime sovietico, dei Paesi dell’est e dell’America latina.

Mentre rileggevo le mie affermazioni taglienti, decise, forse perfino spietate, m’è venuto di pensare ad un’anziana signora che mi è molto cara, che stimo tantissimo e a cui voglio bene. Ebbene alla fine ella fu, e forse è ancora, una comunista convinta, che ora soffre e si sente a disagio vedendo le misere rovine dei suoi sogni e dei suoi sacrosanti ideali di giustizia.

Purtroppo ci sono state delle losche figure che hanno approfittato di aspirazioni alte e belle per costruire regimi dispotici, sanguinari e rovinosi. Io non solo comprendo, ma quasi mi faccio carico, dell’amarezza e della delusione di milioni di persone che hanno dato credito a chi s’è offerto di tradurre a livello politico i loro ideali del tutto condivisibili. Altrettanto condivido la delusione di chi ha abbracciato una visione evangelica della vita e della storia e poi s’è accorto che certi uomini di Chiesa o certe aggregazioni religiose si sono impadronite del messaggio di Gesu, e dell’adesione candida e generosa di tanti suoi discepoli, solamente per gloria effimera e pacchiana.

Come mi provoca ribrezzo chi si approfitta del bisogno di amore di creature rimaste sole, contrabbandando con risposte apparentemente rispondenti alle legittime attese, con la libidine e il capriccio mascherati di parole belle.

Il prendersi gioco delle persone che perseguono grandi e nobili ideali, tradire le loro aspettative perseguendo invece fini loschi e meschini, è di certo un sacrilegio che merita il castigo di Dio e il biasimo degli uomini.

La Fede autentica di molti “lontani”

Io conto parecchie amicizie anche tra quelle persone che il mondo cattolico definisce “i lontani”. Il termine “lontano”, secondo l’opinione ecclesiastica, si riferisce, in maniera sommaria ed impropria, alle persone che militano nella sinistra, a quelle che sono poco o nulla praticanti, ad altre ancora in posizioni formalmente irregolari per la Chiesa (vedi divorziati, conviventi, sposati civilmente), altre infine critiche nei riguardi di certe scelte delle gerarchie ecclesiastiche, o del comportamento morale, o di una mancanza di coerenza da parte di certi membri del clero.

Io, ripeto, conosco, ho rapporti positivi, voglio bene e stimo moltissime persone che fanno parte di questo mondo tanto eterogeneo ma che, non solo i clericali, ma anche molti “buoni cristiani” ritengono lontane da Dio e dalla Chiesa, guardandole con atteggiamento diffidente e critico.

Dovrei pure aggiungere che sento particolare attenzione per questa gente, che non solo mi è cara, ma capisco e sento vicina. Non credo di nutrire questi sentimenti e fare queste scelte per spirito da “bastian contrario” che vuole diversificarsi dalla sua categoria. Questa mia propensione verso i “lontani” credo nasca dal fatto che li sento umanamente ricchi perché le loro scelte sono controcorrente e perciò frutto di ricerca solitaria, spesso sofferta.

Gesù, a proposito di questo discorso, afferma: “Non chi dice `Signore Signore’ entrerà nel Regno, ma chi fa la volontà del Padre” e la volontà di Dio è che le sue creature siano come Egli le ha progettate: oneste, sane, vere e capaci di relazioni piene e costruttive nei riguardi dei fratelli.

Cristo poi, in un’altra occasione, dice che Dio, al figlio che con faciloneria assicura che lavorerà nella vigna e poi si limita al suo “si” formale e non dà seguito al suo impegno, preferisce l’altro fratello che ci pensa, ed apparentemente si nega, mentre poi risponde con i fatti all’invito di suo padre.

Sono convinto che la risposta, pur sofferta, data con i fatti, è di molto più vera di quella data con formule altisonanti ma che non coinvolgono la vita.  Dio ci informa inoltre “che i pubblicani e le prostitute precedono, nel Regno di Dio, gli osservanti formali e i pignoli dell’adempimento delle norme della tradizione”.
Per non parlare poi della parabole del fariseo e del pubblicano al tempio.

La fatica, lo sforzo di autenticità e lo spirito di sacrificio che spesso dimostrano i cosiddetti “lontani” nel perseguire obiettivi che nella sostanza sono “cristiani”, perché normalmente validi, mi rendono molto più cauto nel collocare le persone nella categoria dei “lontani”, piuttosto che in quella dei “vicini”.

I capi del nostro tempo

Il tipo di società in cui sono nato era di certo imperniata sull’autoritarismo. In famiglia c’era il “padrone di casa”, in Comune il federale, nella nazione il duce. Da questa esasperazione dell’autorità è nato un desiderio infinito di democrazia; peccato però che sia arrivato un tipo di democrazia a carattere assembleare o puramente numerico che, tutto sommato, credo sia ancora peggiore del suo opposto. Ho l’impressione che in Italia si stia ancora cercando, senza averlo trovato, quel giusto equilibrio di una guida che sappia prendersi la responsabilità e fare le scelte che in coscienza ritiene necessarie e, nello stesso tempo, sappia raccogliere le idee e le proposte dei cittadini, armonizzandole e facendo da piedestallo alla sua azione di governo.

Nel nostro Paese questo processo non è ancora avvenuto. Chi deve decidere, spesso, preoccupato di non perdere il consenso, rimane in balia degli elementi più turbolenti, faziosi e irrequieti della società e quindi rimane quasi paralizzato. Un capo serio, rispettoso di tutti, attento a garantire a tutti uguale libertà e pari diritti, è forse la soluzione più giusta, ma purtroppo la più difficile.

Un mio collega auspicava un regime democratico, però guidato da un forte leader; io correggerei un po’ la formula auspicando il libero contributo di idee e di critica da parte di tutti, ma anche un capo onesto che sappia assumersi le sue responsabilità, non permettendo il ricatto o la prevaricazione di alcuna componente della società che deve guidare. Questo vale per qualsiasi società, Chiesa compresa, anche se il suo regime è un po’ più atipico.

Nella nostra situazione storica penso che si sia molto lontani da questo regime che spesso è “governato” da elementi molto fragili, ricattabili, perché l’ordinamento giuridico non li salvaguarda, perché sono pochissimo autonomi dalle maggioranze che li esprimono, e soprattutto perché spesso non sono forniti di una dignità personale e di una autorevolezza di pensiero, diventando così dei “re travicello” pressoché inutili per la comunità che dovrebbero guidare.

I giovani preti e il domani della Chiesa

Un giovane collega, critico nei miei riguardi, recentemente ha giustificato la sua non condivisione, o magari il suo rifiuto delle tesi che mi sforzo di portare avanti, affermando che “scrivo” troppo.

Penso che questa osservazione si debba interpretare più giustamente con l’affermazione che porto avanti tesi non condivisibili o, peggio ancora, azzardate, o forse non in linea col pensiero ufficiale della Chiesa.

Premetto, a scanso di equivoci, che se in realtà facessi qualcosa di dannoso per la fede, non esiterei un istante a “chiudere”. Sono infatti sempre stato mosso dal desiderio di fare del bene in generale, ed in particolare di rendere sempre più coerente ed evangelica la Chiesa di cui mi sento membro, che amo e che voglio servire.

Le “verità” che perseguo e i valori che voglio sottolineare, credo che siano sempre largamente all’interno dell’ortodossia. Non per questo pretendo la condivisione, ma quello che mi aspetterei è invece un serio dibattito per innervare del messaggio evangelico le nostre comunità, la Chiesa, la pastorale, la politica e la vita.

Tutto questo però ritengo che non avvenga minimamente, forse per inconscio desiderio di quieto vivere, forse per mancanza di idee, di poca passione o di quella prudenza che camuffa l’ignavia, il servilismo o il segreto desiderio di carriera.

Io sono vecchio e mi aspetterei che all’interno della comunità cristiana i giovani preti, anche se pochi, rappresentassero l’utopia, l’entusiasmo, la “rivoluzione”, il domani. Invece ho l’impressione che troppo spesso rappresentino il riflusso e il ripiegamento su posizioni di comodo e di retroguardia.

Ultimamente m’è capitato di vedere qualche curatino in tricorno con la cotta con le frange di merletto e tutta pieghettata, e m’è parso l’espressione di un mondo che vive nell’ultima periferia della vita, della storia e della società attuale.

Spero che non sia un desiderio cattivo, ma io auspico che quel po’ di giovane clero che ancora c’è, rappresenti la punta e non la coda di Santa Madre Chiesa.

Spero che Monti segua la sua coscienza!

L’argomento su cui ho riflettuto ultimamente, l’ho riesumato da vecchi ricordi ed esperienze del sessantotto.

In quel tempo andavano di moda le assemblee e le soluzioni “assembleari” come il massimo livello di democrazia possibile. Chi non condivideva questa posizione, che poi s’è visto che corrispondeva pressappoco alla moda del momento, non meno vanesia di quella appena comparsa nel mondo femminile – stivali, calze di maglia nera ed un gonnellino inconsistente che assomiglia molto ai perizomi delle tribù della foresta – veniva definito con un colpo alla nuca: “sei un fascista!”.

Ritorno all’argomento: molti sono convinti che solamente le soluzioni che nascono da un’assemblea più numerosa possibile sono soluzioni democratiche. Nulla di più falso! La verità e il bene non nascono dalla maggioranza numerica, ma dall’intelligenza e dall’esperienza su un certo argomento. L’ascoltare, il tener conto, il valutare le opinioni più disparate, sono un dovere ed una risorsa, ma poi la scelta deve essere fatta dal capo, dal responsabile.

Non c’è peggior democrazia di quella in cui il responsabile è in balia del numero degli interessi, delle minacce. Il capo vero è quello che ascolta, media, ma poi decide con la sua testa, costi quello che costi.

Sto seguendo in questi giorni con attenzione e preoccupazione il comportamento di Monti e del suo governo. Attorno a lui c’è la bagarre dei tassisti, dei farmacisti, degli ordini professionali (categorie odiose di privilegiati), sindacati, parlamentari di destra e di sinistra.

Spero che Monti resista, ascolti tutti ma faccia quello che in coscienza ritiene giusto fare per il bene del nostro Paese. Lo preferisco bocciato e mandato a casa che saperlo succube dei prepotenti e degli egoisti. Se Monti è costretto ad andare a casa l’Italia potrà sempre contare un cittadino libero ed onesto, mentre, se si lasciasse condizionare, avremmo un “re Travicello” di cui nessuno saprebbe cosa farsene.

Nella piccola e povera esperienza, anch’io ho avuto a che fare con consigli, piccole lobbies, interessi più o meno ambiziosi, ma posso dire con ebbrezza che “ho sempre deciso io”. L’unico padrone che riconosco e a cui ho dato, e darò, le chiavi di casa, è la mia coscienza.

Questo modo di fare, che però per me è l’unico veramente democratico, costa molto. Per questo motivo raddoppierò la dose di Ave Marie per Mario Monti.

Il fine della religione è salvare l’uomo!

Se c’è qualcuno che scopre per caso queste mie carte e gli capita di leggere qualche riga, mi scusi se si accorge che prima o poi ritorno sugli stessi argomenti.

Poco tempo fa ho scritto che mi ritrovo così solo a portare avanti certe “verità”, che ho paura che, una volta scomparso, non ci sia più alcuno che evidenzi certe ricchezze nascoste del Vangelo. Ho detto pure che certe scoperte di aspetti particolari del messaggio di Gesù, mi paiono così esaltanti e veri che mi sembra un peccato non offrire la ricchezza scoperta ai miei fratelli e concittadini.

Qualche giorno fa ho riletto nella liturgia feriale, l’episodio in cui è descritto Cristo che provoca “scribi e farisei”, cioè gli uomini della tradizione, della legge e forse del diritto canonico di quei tempi. «E’ lecito – disse Gesù guardando negli occhi gli osservanti pignoli delle patrie leggi (mentre leggevo mi pareva di vedere Di Pietro e tanti suoi seguaci in politica e in religione) – guarire nel giorno del Signore?». Poi, senza aspettare risposta, guarì il paralitico.

Essi non si convinsero affatto, ma immediatamente si misero a tramare per farlo fuori; per loro la tradizione, il codice, le regole, erano più importanti dell’uomo e del suo bene.

Riflettendo entusiasta sulla presa di posizione di Cristo, che fa una proposta così umana e così attenta alla sofferenza dell’uomo, fregandosene di certi feticci “legali e religiosi” inconsistenti e frutto della pochezza, della faziosità e forse, dell’interesse, mi si illuminò la mente con una luce improvvisa e forte che mi ha fatto capire “tu per tanti anni della tua vita hai pensato, come gli ebrei, che la religione deve curare esclusivamente `gli interessi di Dio’, mentre per Cristo essa deve essere tutta tesa a difendere, salvare, rendere felice l’uomo in senso assoluto!”.

Questa accezione del fatto religioso è quella che mi piace di più, mi convince, mi dà desiderio di offrirla anche agli uomini del mio tempo. Capisco che questa interpretazione del pensiero di Gesù “massacra” letteralmente coroncine, madonne con le lacrime, sforzi per consolare Gesù e tanti più esercizi. Credo però che essi si possano anche salvare a patto che tutte queste pie pratiche, devozioni, aspirazioni e preghiere, siano unicamente finalizzate alla “salvezza” e al bene dell’uomo.

L’insegnamento che ci ha lasciato “il parroco dell’isolotto”

Qualche giorno fa i giornali nazionali hanno speso quattro righe in zone povere dei loro fogli per una notizia che credo abbia detto meno di niente ai lettori poco addentro nella storia recente della Chiesa italiana.

I giornali informavano che era morto il “parroco dell’isolotto”. Credo non sia inutile dare un minimo di informazione su questo prete fiorentino. Questo parroco dell’isolotto, quartiere povero di Firenze, svolgeva la sua attività pastorale ai tempi del Concilio ecumenico vaticano secondo. La Chiesa italiana era in estremo fermento a quel tempo. Papa Giovanni aveva fatto saltare il tappo che la teneva ingessata ormai da decenni di vita stantia, ossequiente ai vecchi canoni della pastorale; ma sotto quella quiete apparente c’era un autentico vulcano in forte ebollizione. Il Concilio fece esplodere la pentola e la “lava incandescente” cominciò a scendere da ogni dove.

Fu un tempo estremamente vivace, ma assai scomposto, irrequieto ed esagerato come ogni rivoluzione. Ricordo che a quel tempo si diceva che un prete di quella Olanda bigotta e allineata, una volta celebrata la messa, dava alle galline del suo pollaio i resti delle ostie consacrate. Ricordo che da noi un collega, prima della messa, mandava il chierichetto a comprare un chilo di pane per dare la comunione ai fedeli. Ognuno, in particolare gli spiriti un po’ esagitati, si dava da fare per tradurre al presente i divini misteri.

Ebbene, il prete fiorentino morto l’altro ieri, aveva inventato un nuovo catechismo per i bambini della parrocchia. Io l’ho anche letto e non era male come tentativo di decodificare il messaggio cristiano costretto dentro le vecchie formule del catechismo di Pio X.

Quel prete ebbe la sfortuna di avere lo stesso vescovo che mandò don Lorenzo Milani nella parrocchia di Barbiana che a quel tempo aveva 42 abitanti. Si arrivò allo scontro, fu proibito al prete di celebrare in chiesa, egli diede appuntamento in piazza ai suoi seguaci e credo che per moltissimi anni abbia celebrato all’aperto per la comunità della diaspora.

Molti vescovi del Concilio avevano applaudito il collega, mentre io, garibaldino come sempre, avevo scritto che se continuava così la Chiesa italiana non avrebbe avuto “un isolotto” ma un arcipelago in rivolta.

Non so che cosa sia rimasto di quella comunità, anzi suppongo che siano rimaste solamente rovine. Non so pure se avesse ragione più il prete o il suo vescovo, forse avevano torto ambedue.

Da questo fatto non esaltante ho capito che nella Chiesa chi crede di avere qualcosa da dire ai suoi capi, lo deve fare dall’interno, senza sbattere la porta di casa; andandosene uno provoca solamente guai, senza costruire nulla di buono. Dall’altra parte, quella del vescovo, vorrei con umiltà ma con convinzione, affermare che il dissenso, o meglio la diversità, anche se è faticosa da accettare, arricchisce sempre, mentre gli atti di intolleranza fanno forse danni maggiori dei primi.

La mia “unità pastorale”

Basta vivere un po’ di anni per accorgersi che tutto passa e si modifica radicalmente. Trenta, quarant’anni fa, sotto il patriarca Carlo Agostini, da una parte per l’immigrazione dal sud e dall’altra parte per il naturale aumento anagrafico, si è proceduto a costruire nuove chiese e a dar vita a nuove parrocchie.

Dalla mia vecchia parrocchia di Carpendo sono gemmate le attuali nove comunità cristiane. A neanche mezzo secolo di distanza però, ora sta avvenendo il processo opposto, si sta procedendo ad accorpamenti a motivo della crisi demografica, della scarsa pratica religiosa e soprattutto della carenza di sacerdoti.

Questo nuovo processo è stato denominato, un po’ ipocritamente, con un termine che non vorrebbe evidenziare il reale arretramento: “unità pastorale”. Ora di questo termine un po’ magico si fa un tale elogio che sembra quasi un’avanzata piuttosto che un arretramento; purtroppo però si tratta di una sconfitta e di ripiegamento.

Il fenomeno è generale, ma a Venezia è esasperato a causa del numero infinito di bellissime chiese da presidiare, della progressiva ed ineluttabile diminuzione della popolazione – dai 150.000 veneziani del 1945 ai poco più di 60.000 attuali – dell’età veneranda dei preti.

Anche a livello personale sono coinvolto in qualche modo, ma per motivi diversi, da questo fenomeno. Attualmente anch’io gestisco una “unità pastorale”, ma parte di questa comunità aumenta di settimana in settimana ed è costituita dai cristiani che partono per il Cielo. Lassù in Paradiso conto su una numerosa e splendida comunità di miei “parrocchiani” che cantano notte e giorno la gloria del Signore. Questa comunità del Cielo, di cui vado fiero e che mi dà immensa consolazione, vivifica la mia esperienza ed aiuta anche la comunità di quaggiù. Essa, pur fatta di creature normali, è bella, anzi meravigliosa.

Ad 83 anni avere ogni giorno feriale dai 30 ai 40 fedeli, che si raccolgono nella “chiesa cattedrale” per la preghiera, e alla domenica quasi 300 fedeli che partecipano devotamente e con tanta fede ai divini misteri, è quanto di meglio un vecchio prete possa sperare.

I miei parrocchiani giungono alla spicciolata dai luoghi più diversi avendo scelto con decisione e fedeltà la chiesa fra i cipressi come loro chiesa di elezione; essi pregano, cantano, si accostano all’Eucaristia, ascoltano con attenzione la Parola del Signore, si vogliono bene e dimostrano tenerezza al loro vecchio “parroco”. Cosa potrei desiderare di più e di meglio?

Io benedico e ringrazio il Signore perché vivo in un’isola felice che non conosce né la secolarizzazione né la crisi religiosa del nostro tempo e sono quanto mai gratificato spiritualmente dalla mia “unità pastorale”.

Il ruolo del capitano

Il naufragio della Costa Concordia ha certamente offerto un piatto assai ghiotto ai giornalisti della carta stampata e della televisione. Almeno per un paio di settimane essi hanno potuto fare servizi su servizi sugli aspetti più diversi del dramma di quel colosso del mare naufragato in maniera così prosaica e banale.

Io ho seguito questo dramma come tutti i miei connazionali partecipando al dolore delle persone e della Nazione, ma c’è stato un particolare di molto rilievo che mi ha sorpreso e mi ha fatto riflettere: quello del capitano, messosi in salvo tra i primi, trovato seduto su uno scoglio, mentre sulla sua nave avveniva un dramma quanto mai tragico.

La stampa ha ripetuto che la guardia di finanza e la capitaneria del porto l’hanno invitato più volte a tornare sulla nave per dirigere l’abbandono. Pare che abbia accennato di si, ma poi se ne sia rimasto a guardare, stordito, il naufragio della sua nave.

Premetto che nelle mie letture giovanili, e poi nel periodo dell’ultima guerra mondiale, tante volte mi si è presentata la figura del capitano di una nave che, dopo aver fatto l’impossibile per salvare i passeggeri, affonda, coraggioso e fedele, col suo battello. Forse questo attaccamento quasi esistenziale alla propria nave fa parte di una certa visione eroica della vita e sa di romanticismo esasperato, comunque il capitano nella sua nave riassume nella sua persona le funzioni più importanti della vita di una comunità, egli è il responsabile primo, il magistrato, forse persino il capo famiglia. Il capitano non è solamente il tecnico esperto, ma è in assoluto il punto di riferimento per ogni necessità di quella consistente comunità di uomini che oggi si trova in una nave di crociera.

Non sono riuscito neppure ad immaginare questo capo per antonomasia che, seduto su uno scoglio, guarda sgomento l’esodo disordinato ed angosciato della gente che si era affidata alla sua esperienza e alla sua autorità.

Quel capitano della Costa Crociere m’è parso il simbolo in negativo di questa nostra società che ha svuotato e svilito fino all’ignavia e all’incoscienza uno dei punti cardini della vita sociale: il capo.

Una cultura “democratica” miope ed angusta ha finito di privare la nostra società, in ogni sua articolazione, di quegli uomini guida che sono indispensabili per l’economia, il governo, l’industria e persino la religione.

Ho letto che i capitani di industria sono la ricchezza vera dell’economia, ma io sono convinto che ogni capo che si assuma le proprie responsabilità e poi guida la sua comunità, costituisce la ricchezza vera di ogni tipo di realtà sociale.