Ho letto qualche settimana fa su un bollettino parrocchiale, un articolo di un giovane parroco il quale fa un resoconto puntuale e perfino pignolo sul come nasce il suo stipendio e sulla sua consistenza che, a suo dire, appena gli permette di vivere in maniera molto modesta.
In verità ritengo che il discorso sia onesto ed ineccepibile, però confesso che m’è parso angusto, di poco respiro spirituale, tanto da sentirmi quasi a disagio di appartenere ad una categoria che si rifà piuttosto alle categorie del sindacato che a quelle della Divina Provvidenza.
A questo proposito la lettura di questo articolo mi ha quasi costretto a riandare alle vicende della mia vita. Ricordo che ai tempi in cui ero a San Lorenzo, insegnavo alla scuola pubblica e a fine mese consegnavo la busta chiusa del mio stipendio di docente alle superiori al mio parroco che lo divideva, dando ad ognuno di noi cappellani centomila lire (oggi sarebbero 50 euro). Una volta nominato “vicario parrocchiale” potevo beneficiare della rendita di una campagnola. Monsignor Vecchi mi suggerì di destinare tale rendita ad un prete anziano dell’Istria che viveva a Mestre. Ne fui felice e altrettanto don Budinich che ne divenne il beneficiario.
In quei tempi si discuteva molto sullo stipendio dei preti. Ricordo che in un’affollata assemblea di preti che dibatteva l’argomento, io presentai una mozione in cui si auspicava che tutti i preti del patriarcato avessero un salario pari alla paga di un operaio di Marghera. In quell’occasione si schierò con me don Alfredo Basso, che a quel tempo era considerato più estremista di quanto non pensassero di me. Fummo sonoramente battuti!
Giunto in parrocchia di Carpendo adottai la soluzione di monsignor Vecchi: la parrocchia provvedeva al nostro mantenimento e metteva a disposizione 50 euro attuali per ciascuno; tutto ciò che giungeva in parrocchia, tolte le spese di gestione, era destinato alle attività parrocchiali ed ai poveri.
Con questo regime abbiamo potuto dar vita a numerose e splendide strutture, vivendo in maniera sobria, ma serena.
Giunto alla pensione, come Pietro, ebbi un po’ di paura, perché col metodo usato, non avevo nulla a disposizione per la mia vita di pensionato e chiesi a monsignor Pizziol, allora responsabile diocesano, la consistenza della pensione. Egli si meravigliò che io non avessi accantonato nulla per la vecchiaia; al che io rimasi un po’ sorpreso e deluso.
Avendo però scelto di vivere al “don Vecchi”, condividendo la soluzione che avevo pensato per gli anziani poveri, la mia pensione mi basta, anzi mi avanza per fare un po’ di bene.
Se posso dare un consiglio ai confratelli più giovani, direi a tutti: «Non accumulate niente e guardate ai gigli del campo e agli uccelli dell’aria». Un prete, o si fida del buon Dio, o altrimenti è meglio che cambi mestiere!