E’ tempo non solamente di dare più anni alla vita, ma anche più vita agli anni!

Permettere che gli anziani vivano da persone fino alla conclusione naturale della vita, è di certo un’utopia a livello razionale, ma non certamente una chimera.

Adopero il termine “utopia” nel suo vero significato, ossia una méta alta e nobile a cui tendere anche se irraggiungibile in maniera definitiva, ma che costituisce la spinta ad avanzare costantemente e progressivamente, e non nell’accessione popolare in cui si pensa all’utopia come ad una realtà impossibile.

Noi del “don Vecchi” perseguiamo l’utopia che gli anziani possano vivere e dare il meglio di sé fino all’ultima goccia della loro esistenza e crediamo che ciò sia possibile facilitando l’ultimo percorso di queste persone della terza e quarta età.

A supportarmi in questa avventura sono gli anziani miei coinquilini del “don Vecchi” e pure un certo numero di anziani che, pur non abitando al Centro, ne condividono la vita e gli obiettivi.

Qualche giorno fa mi si è avvicinato il signor Nino Brunello, 95 anni a giorni, che due volte la settimana suona il violino nell’orchestra del “don Vecchi”. Mi dice: «Don Armando, domenica le suonerei un pezzo di Vivaldi, è contento?». Sempre lui ha cominciato a donarmi i dipinti della “sua” Venezia e poi, usando delle belle e grandi cornici, forniteci da amici, ha dipinto per noi altri bei paesaggi veneziani che si rifanno al Guardi e che “sanno di primavera” per le pareti del Centro di Campalto. Altri dipinti sono in magazzino in attesa del “don Vecchi 5”, destinato agli anziani in perdita di autonomia.

Al “don Vecchi” gli anziani novantenni non sono mosche bianche: il coro del Centro ha un’età media di 85 anni, eppure la domenica della neve ho dovuto proibir loro di venire nella chiesa del cimitero per animare la messa, altrimenti avrebbero sfidato in maniera impavida il ghiaccio e la bora.

Noi del Centro perseguiamo la massima che afferma: “E’ tempo non solamente di dare più anni alla vita, ma anche più vita agli anni!”. Mi pare che tutto ciò non sia una fata morgana, ma una meta allettante. Il sogno “che la morte ci incontri ancora vivi” è possibile a chi ha il coraggio di impegnarsi e non si fa mettere in casa di riposo.

Quell’opposizione incomprensibile

Nota della Redazione: come gli altri, anche questo articolo è stato scritto da don Armando un paio di mesi fa.

Con la richiesta che fosse un prete più giovane e più intelligente a presiedere la Fondazione che gestisce i Centri don Vecchi, pensavo di essermi finalmente ritirato a vita privata. La mia vita è sempre stata un “continuo combattimento”, come afferma una certa sentenza che non ricordo di chi sia. Ho sempre combattuto, mi sono sempre esposto in prima persona, incurante delle ferite, della solitudine e delle critiche, soprattutto quelle dei colleghi.

Sono rimasto un soldato semplice, ma questo non mi ha mai impedito di schierarmi con gli ultimi. Questa situazione è forse stata la mia salvezza. Mi ritrovo vecchio ed acciaccato, ma sono contento delle “battaglie” alle quali ho partecipato con fervore e passione sociale.

Sentendomi stanco e sempre più fragile, ho scelto liberamente, come Garibaldi, che la mia Caprera fosse il “don Vecchi”. Per facilitare la successione, ho promesso ai miei capi che avrei continuato ad offrire il mio contributo dietro le righe, in umiltà e al servizio di chi ha la responsabilità della Fondazione, rifacendomi alla massima che papa Roncalli citava spesso: “Miles pro duce et dux pro victoria”, il soldato agli ordini del suo comandante e il capo impegnato a raggiungere la vittoria.

Ora però arrischio di essere ancora coinvolto nell’agone sociale e sono tentato di scappare da Caprera come Garibaldi o dall’Isola d’Elba come Napoleone, anche se sono ben cosciente che i paragoni non reggono punto!

Questa mattina mi sono trovato il titolo di un servizio de “Il Gazzettino” che informa della bega tra preti in relazione alla costruzione del nuovo Centro “don Vecchi”. Don Gianni Antoniazzi, in qualità di presidente della Fondazione, che preme per ottenere dal Comune un’area per costruire una struttura, finanziata dalla Regione, per gli anziani in perdita di autonomia ed un parroco del quartiere, (parroco scaduto da quattro anni per limiti di età) che si oppone.

Questo vecchio parroco non è nuovo a queste opposizioni. Non riesco a capire il perché, anzi mi pare un autentico sacrilegio che un sacerdote si opponga a che qualcuno che si impegna a fare, un’opera di carità cristiana a favore dei poveri. Spero che sia l’età a provocare questo atteggiamento per me incomprensibile verso un confratello più giovane, zelante e pieno di entusiasmo. Anche se “Il Gazzettino” fa il mio nome, io non c’entro, sono soldato semplice e per di più in pensione. Confesso però che sento il bisogno e il dovere di “tirar fuori di nuovo la spada” e di andare sulle barricate se fosse necessario per difendere la causa dei poveri.

Sinistra? Centro? Destra? Io scelgo chi saprà creare una società più equa!

Ancora una volta mi si è posto un problema che non ho ancora risolto completamente, o meglio mi si pone il dubbio se la soluzione a cui sono arrivato sia giusta.

Una arzilla signora, anziana ma ancora reattiva, entrata da poco al Centro don Vecchi, quasi per presentarsi e mettendo le mani avanti, mi disse con decisione: «Io sono di sinistra». Queste affermazioni a me non fanno né caldo né freddo, perché il mio solo ed unico interesse è quello della solidarietà e dell’impegno verso chi è in difficoltà.

Tanto per continuare la conversazione e per non lasciare il dubbio che quella affermazione costituisse una frattura o perlomeno una barriera nel nostro rapporto, tentai di argomentare che attualmente i partiti di destra o di sinistra sono quasi totalmente decantati da ideologie che un tempo erano quasi dei dogmi religiosi assoluti e sopra la razionalità e che ora invece chi pratica la politica si muove in rapporto a scelte concrete sulle varie problematiche sociali. Poi continuai a dire che una certa diversità è quanto mai positiva perché la dialettica affina, approfondisce e motiva le scelte sociali di ognuno.

Al che ella ribatté decisa: «Comunque io rimango di sinistra!» Ero tentato di ribadire “buon pro ti faccia, anche se hai trovato alloggio presso un prete e non presso la sede del P.D. o presso una di quelle tante frange che sono come il delta del vecchio partito comunista, ormai allo sfascio e alla deriva”.

Lasciai perdere perché la polemica normalmente non costruisce nulla. Comunque mi sono domandato una volta ancora: “Io sono di destra, di centro o di sinistra?” Non riesco a dare una risposta con i termini correnti usati per queste cose. Però da tempo, dentro di me, ho scelto di essere con chi riesce a dare benessere alla nazione, con chi cerca di portare concordia nel Paese, con chi è preoccupato e riesce ad aiutare i cittadini più fragili e più deboli.

Se Bersani riuscirà a trovare la formula di governo per riuscire a fare dell’Italia un Paese come, ad esempio, la Svezia, nel quale c’è un buon tenore di vita, uno stato sociale veramente efficiente, un rispetto della persona, dove lo Stato è al servizio del cittadino e non viceversa, sono con Bersani e con chi è ancor più rosso di lui. Se però Monti, con le sue liberalizzazioni, riesce a creare ricchezza, a dividerla equamente, mettendo in moto sinergie tra tutte le realtà sociali del Paese, dal sindacato ai giudici, e riesce a risolvere civilmente il problema delle carceri, il controllo delle corporazioni privilegiate, sono con Monti!

Io scelgo e voglio sostenere chi, con i fatti, sa creare una società più equa, più umana, più solidale e più libera; il resto non mi interessa.

Omelie

Uno dei grossi problemi che riguardano la predicazione è certamente quello di discorsi disincarnati che si avvalgano di parole e pensieri scontati, di luoghi comuni legati ad una pseudo cultura teologica e che perciò passano tranquillamente sopra i capelli della gente senza lasciare traccia alcuna nella sensibilità, nella coscienza e nel pensiero di auditori che rimangono passivi all’annuncio.

Ricordo che fin da bambino circolava un detto nei riguardi delle prediche e della ricettività dei fedeli: “La gente in chiesa non reagirebbe anche se il predicatore affermasse che il diavolo è morto di freddo”. Era il tempo in cui i sacerdoti, e più ancora certi religiosi che si dedicavano alle missioni del popolo, insistevano quanto mai sul fuoco dell’inferno che bruciava i peccatori.

Purtroppo questo costume non è ancora scomparso e la mancanza di preparazione prossima e di ricerca costante, aggiunta ad una certa letteratura omiletica imperante nelle riviste o nelle rubriche destinate ai preti, han fatto si che le prediche siano “piuttosto soporifiche”, come diceva una signora nei riguardi dei sermoni del suo parroco.

Quando mi trovo in difficoltà nell’interpretare e rendere attuale il messaggio di certe pagine del Vangelo, talvolta ricorro anch’io alla lettura di certi sussidi, ma sempre sono astratti, desolanti e lontani mille miglia dalla sensibilità dell’uomo di oggi.

Io ho avuto la fortuna di vivere accanto a dei sacerdoti maestri in questo settore, Monsignor Vecchi, quanto mai valido, anche se un po’ teatrale, ma soprattutto monsignor Da Villa il quale, quando predicava, si spendeva tutto, usando un linguaggio fluido, incisivo, esistenziale, sembrava che prendesse per il bavero la gente, la mettesse con le spalle al muro dimostrando la validità e la verità del messaggio di Gesù.

Questi esempi sono fin troppo incidenti sulla mia coscienza, tanto che spesso mi mettono in crisi, preoccupato di non passare quelle verità del Vangelo delle quali tutti abbiamo bisogno, tanto che confesso apertamente che sono quanto mai critico ed esigente verso me stesso.

Qualche tempo fa, uscendo di chiesa dopo l’omelia in occasione di un funerale, un signore mi confidò: «Io non sono credente, ma la ringrazio davvero di ciò che ha detto. Mi ha fatto bene!». Volesse il Cielo che fosse sempre così!

La felicità è nel quotidiano, non nei moderni canti di sirene!

Ho l’impressione che gli uomini del nostro tempo vivano come se fossero drogati. Non mi riferisco però a chi, talvolta col pretesto di provare un attimo di euforia, assume l’eroina o tutte le altre “porcherie” che distruggono letteralmente la vita, ma penso a tutta quella miriade di persone che rimangono affascinate e si lasciano irretire da quelle bolle di sapone rappresentate dal guadagno, dal successo, dall’erotismo, dall’imporsi sugli altri o da quelle, ancor più meschine idolatrie della macchina, della pelliccia o delle vacanze in paradisi lontani.

Ci sono tantissime persone che si lasciano avviluppare dal canto di queste sirene e che oggi pare siano una quantità enorme; persone che diventano come creature stordite, quasi automi che seguono in maniera stolta ed incosciente i pifferai che fanno i loro interessi e che, a loro volta, seguono i pifferai di un grado più alto.

Tanta, troppa gente cerca la felicità o anche, più modestamente, la gioia del vivere, in feticci ingannevoli, mentre avrebbe a portata di mano e a prezzi irrilevanti, la risposta alle sue attese.

Qualche giorno fa ho celebrato il commiato cristiano di un concittadino che è ritornato al Signore dopo 95 anni di vita. Stanco di lottare, si stava lasciando andare, logorato dagli anni e da gravi perdite. La nipote, quanto mai affezionata al nonno, lo incitava invece a continuare a lottare per vincere il male e continuare ad essere per lei e per i suoi cari il punto di riferimento della loro vita. Allora il nonno, con un sorriso debole, quanto mai dolce, le sussurrò: «Finché mi volete bene cercherò di resistere per stare con voi!».

Qualche giorno fa scrivevo in una didascalia per la copertina de “L’incontro” che riportava la foto di una famigliola serena – babbo, mamma e due ragazzini: “C’è oggi troppa gente che cerca lontano, in paradisi irreali, la felicità, mentre l’avrebbero a portata di mano nell’affetto sereno verso la propria sposa, i propri bambini e nella loro casa.

Ricordo sempre una vignetta in cui erano disegnati due giovani sposi seduti su una panchina nel parco. Lui confida a lei: «Farò carriera, ci compreremo una villetta, ti regalerò delle belle vacanze, e così saremo felici». E lei gli risponde con un sorriso dolce e caldo: «Ma siamo già felici perché io ho te e tu hai me!».

Bisogna che scopriamo la felicità nel quotidiano, in quello che è a portata di mano. Non ci capiti come a quell’attore che fece scrivere sul marmo della sua tomba: “Fui felice ma non lo seppi!”.

“La fede senza le opere è sterile”

Qualche settimana fa il freddo era veramente pungente. Il vento di bora s’infilava nei vestiti e gelava le ossa. I mass-media poi, terminata la tragedia della Costa Concordia, avevano bisogno di un altro dramma per piazzare il loro prodotto e avevano “terrorizzato” i cittadini dando l’impressione che il gelo polare stesse letteralmente paralizzando l’intero Paese.

Così pensavo che il maltempo avrebbe scoraggiato i miei fedeli dal partecipare all’Eucaristia domenicale, tanto più che la mia chiesa è piuttosto decentrata e i miei fedeli non sono tutti proprio nel fiore degli anni. Mi preparavo quindi a vivere l’incontro col Signore con meno entusiasmo, non potendo avere il calore di una chiesa gremita come al solito.

Invece no! Pian piano i fedeli sono giunti a gruppetti, provando subito una sensazione di benessere fisico incontrando il tepore di un ambiente riscaldato e quanto mai accogliente. Quando tirai la cordicella del campanello di bronzo per l’inizio della messa, la chiesa era piena e la mia comunità particolare, legata da una comunione profonda che nasce da una scelta e non dalla costrizione geografica, era al completo. Anzi, prima del sermone, tanta gente se ne stava al centro e a lato in piedi. Il mio coro, formato da ultraottantenni, puntuale e completo al suo posto e i vari ministranti disponibili ad adempiere le loro funzioni come ogni domenica.

Iniziai confidando la sensazione che mi riscaldava il cuore “Fuori: gelo, solitudine, disorientamento; dentro: tepore, amicizia, fraternità e serenità”. La comunità di fratelli che si riunisce nel nome del Signore fa emergere sempre e subito i valori che danno conforto, sicurezza, pace e speranza.

Pur roco, perché raffreddato, tentai di passare, alla luce del Vangelo di san Marco, quanto la fede e la religione hanno come eterne e sapienti coordinate: la fede e l’amore a Dio e il servizio al prossimo. La solidarietà verso i fratelli in difficoltà non è quindi un optional, ma una componente essenziale e assoluta del cattolicesimo: “La fede senza le opere è sterile”. Un cristiano che non preveda e non attui nella sua vita atti di carità, in relazione alla sua condizione umana, non solamente non è un buon cristiano, ma è un cristiano monco di un arto essenziale.

La disabilità, per la carenza della componente solidale, non è facilmente visibile e verificabile nel singolo, ma è invece un elemento macroscopico che appare immediatamente nel volto di una parrocchia. Talvolta mi rifaccio al racconto del Tolstoi che immagina Gesù che in incognito visita le comunità cristiane della “santa Russia” e, deluso, non riconosce in esse, raccolte per il culto nelle loro chiese, comunità composte da suoi discepoli, perché non conformi al suo insegnamento. Non so proprio cosa accadrebbe se al nostro Maestro venisse in mente, una qualche volta, di fare una visita alle 32 parrocchie di Mestre.

Una scelta di sobrietà

Qualche settimana fa volevo scegliere per la copertina de “L’incontro” uno stormo di uccelli, perché questa immagine potesse rafforzare il messaggio che intendevo passare ai miei concittadini in questo momento in cui morde alquanto la crisi finanziaria.

Nella didascalia, avevo deciso di riportare la famosa frase di Gesù: “Guardate i fiori del campo e gli uccelli dell’aria…” per concludere “Cercate il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù”. Non sono stato troppo fortunato perché, pur avendo cercato lungamente nel mio archivio fotografie di uccelli, non ho trovato che un colombo e, per di più, paffutello. Spero comunque che il messaggio rasserenante lanciato dalla copertina de “L’incontro” possa offrire una “prospettiva di salvezza”.

La stessa cosa m’è capitata sei anni fa quando sono andato in pensione. Allora pensai di dare un piccolo segnale per la vita sobria della Chiesa e soprattutto dei sacerdoti, scegliendo di andare ad occupare un piccolo alloggio al “don Vecchi”, come gli anziani meno agiati della città.

Non sono in grado di poter dire se questa scelta-messaggio, abbia potuto incidere sulla coscienza dei miei concittadini ed in particolare dei miei confratelli, comunque per me è stata una scelta felice perché vivo serenamente e in pace con la mia coscienza. La scelta di condividere lo stesso alloggio dei meno fortunati della città, è risultata una scelta per me assai positiva perché mi ha permesso di spendere “il superfluo” per il mio prossimo e questo mi ha reso felice a livello personale e, nello stesso tempo, ho potuto rendere felici altri miei simili.

Ora mi hanno donato un'”automobile” a due posti di cilindrata 49 cc., l’auto più modesta in assoluto, e d’ora in poi sarà la mia automobilina che rafforzerà la scelta coerente alla mia missione e che potrà rendere un po’ più credibile il mio messaggio, come testimonianza di sobrietà di vita.

Credo che questa scelta sia giusta e coerente e nello stesso tempo l’immagine che rafforza questa scelta spero diventi un segno che non puntando in alto, ma in basso ci siano tanti vantaggi. Sono certo che quando i miei concittadini vedranno sfilare per le vie di Mestre la mia rossa 49 cc., saranno più edificati che se adoperassi una Mercedes o una BMV. Anche i segni hanno un loro messaggio!

I sogni che vorrei portare al nuovo Patriarca

Mi pare che i giornali abbiano detto che il nuovo Patriarca comincerà il suo servizio nella Chiesa veneziana a fine marzo. E’ veramente tardi, ma credo che di certo non sia per colpa sua, ma a causa di un apparato ecclesiastico che ha bisogno di essere oleato, o meglio ancora semplificato e aggiornato.

Spero che, essendo il nuovo vescovo relativamente giovane, imbastisca velocemente il “nuovo governo”. A pensarci mi vien da compiangerlo fin da subito, perché dovrà mostrarsi un capo veramente valido, dovendo accontentarsi della collaborazione di una compagine ben modesta.

Da parte mia, nel mio “sognerellare”, mi capita di sorprendermi a far congetture sull’azione pastorale su cui le varie componenti della diocesi premeranno perché egli vi dia nuovo avallo ed impulso. Di certo quelli che si interessano della cultura premeranno perché si prenda a cuore il Marcianum, il fiore all’occhiello che il cardinal Scola ha lasciato in eredità alla Chiesa veneziana; quelli della pastorale della famiglia faranno altrettanto, e così pure premerà per avere un sostegno chi si occupa della catechesi, della liturgia e della nuova evangelizzazione o della pastorale del lavoro.

Tutti presenteranno ciò che è stato realizzato e i progetti in corso. Tutto questo è giusto e opportuno, però anch’io, pur vecchio e lontano dal “palazzo” e dalle “stanze dei bottoni”, ho dei progetti e delle proposte che voglio fargli conoscere, magari attraverso il nostro periodico.

Per esempio il sogno della “cittadella solidale”, una struttura che esprima la carità della Chiesa veneziana e che dia risposte globali al vasto mondo degli emarginati.

E come non parlargli del “Samaritano” per dare alloggio a tutti coloro che vengono da lontano ad assistere gli ammalati degenti negli ospedali di Mestre, i fratelli che alla preoccupazione per i loro parenti ammalati, debbono farsi carico anche dei costi alberghieri proibitivi?! Come non dirgli del sogno di aiutare i padri di famiglia divorziati per i quali, al dramma dello sfascio della propria famiglia s’aggiunge anche quello della dimora e del rapporto con i figli!

Come non renderlo partecipe della splendida prospettiva di diffondere anche nelle varie zone pastorali della diocesi soluzioni analoghe a quella mestrina dei Centri don vecchi?

A mio modesto parere nella Chiesa di Venezia deve emergere e diventare più consistente la dimensione caritativa che attualmente è sottosviluppata in rapporto al culto e alla catechesi.

Spiace caricare sulle spalle del nuovo vescovo tutti questi fardelli, però sento il dovere di aiutarlo perché i carichi siano bilanciati e la solidarietà non continui a rimanere la cenerentola dell’impegno pastorale della diocesi.

Aiutiamo i mariti divorziati anche a Mestre!

Qualche settimana fa ho letto su “L’avvenire”, il quotidiano di ispirazione cristiana, una notizia su un’iniziativa pastorale di un ordine religioso attivata a Milano.

Dei frati hanno restaurato un loro edificio non più utilizzato, ricavandone una dozzina di monolocali per mariti divorziati. Il discorso sul grave disagio in cui spesso vengono a trovarsi certi mariti la cui famiglia si è sfasciata, l’avevo sentito trattare anche da monsignor Pistolato, responsabile della Caritas del Patriarcato di Venezia.

Pare, da quanto si riferiva, che normalmente il giudice, nelle cause di divorzio, assegni quasi sempre la casa alla moglie, da un lato perché essa è considerata l’elemento più fragile, e dall’altro perché quasi sempre le sono affidati i figli. Il marito quindi, indipendentemente dalle sue responsabilità nei riguardi del fallimento del matrimonio, viene a trovarsi senza casa, per di più deve passare un assegno per il mantenimento dei figli e, talora, della moglie. Con gli stipendi attuali quest’uomo viene a trovarsi quasi sempre in una condizione di vera povertà.

A questo grave disagio si aggiunge poi che se non può dimostrare di avere un luogo idoneo dove accogliere i minori per il tempo che il giudice gli assegna per poter vedere i suoi figli, corre il rischio di essere privato perfino di questo momento di conforto per realizzare la sua paternità.

A Milano, con il concorso della Provincia e degli enti locali, i religiosi di cui parlavo hanno posto in atto la risposta, pur limitata a 12 minialloggi, assegnandoli ad una pigione pressoché simbolica di 200 euro al mese; per il resto dei costi contribuiscono gli enti succitati, in modo che questi signori possano vivere, almeno per due anni, in un luogo confortevole a costi ridotti e inoltre possano accogliere i figli in una sala e in un parco sempre messi a disposizione dai frati.

Colpito da questa bella iniziativa, l’ho offerta, attraverso un editoriale de “L’incontro” alle parrocchie del mestrino, essendo la Fondazione Carpinetum impegnata su altri fronti. S’è fatta avanti una parrocchia che ha i locali, ma anche un mutuo gravoso da pagare che le risulta insostenibile. Pare che con mezzo milione di euro e la collaborazione di questa parrocchia si potrebbe porre in atto questa iniziativa pastorale veramente innovativa, offrendo quasi una decina di alloggi ad altrettanti mariti in difficoltà.

Voglio rilanciare il progetto, ora più definito, dalle pagine di questo nostro periodico. Spero che tra le 28 parrocchie del mestrino ce ne sia almeno una che da sola, o consorziata con altre, voglia realizzare quest’opera di carità.

Anziani e parrocchie, un rapporto non sempre facile

Il mio osservatorio, i miei monitoraggi e le mie inchieste sulla fede sono elementari sia dal punto di vista scientifico che da quello numerico. Non pretendo perciò che i miei dati siano significativi per l’opinione pubblica, essi però hanno certamente una profonda ripercussione sulla mia coscienza e sulla mia sensibilità di sacerdote.

Ho ribadito tante volte che, data la mia età e dato il mio ministero sacerdotale specifico, ora mi occupo quasi esclusivamente degli anziani e del fine vita.

Sono arrivato alla triste conclusione che non è come credevo, che gli anziani fossero ancora il grande e provvidenziale serbatoio che custodisce la fede e i grandi valori cristiani. Constato che c’è una grossa fetta di anziani che non potendo più praticare la chiesa e non avendo più alcun rapporto con la propria comunità cristiana geografica, finisce per entrare in una specie di letargo religioso che paralizza ogni espressione di fede.

Nel colloquio che tento sempre di premettere alla funzione di commiato, col quale cerco di informarmi sui lati positivi della vita del defunto, sulla testimonianza specifica di ogni creatura che può diventare dono ed eredità per chi rimane, non manco mai di fare una domanda sulla fede e sulla pratica cristiana del defunto. A questa domanda mi sento tanto spesso ripetere che lui o lei molto probabilmente era un credente, quasi mai un praticante, o per impossibilità o per scelta.

Quando poi mi spingo più in là per chiedere se il parroco lo conosceva, lo visitava o gli portava la consolazione cristiana, quasi mai mi si dice che il parroco era a conoscenza della infermità e, meno ancora, che visitasse il vecchio o l’infermo. Pare pure che i nuovi ministri della pastorale, quali i diaconi, gli accoliti, associazioni o movimenti di spirituali o di ricerche religiose, si interessino ben poco e raggiungano ancor meno questa falda di battezzati che quasi mai conclude la vita terrena – come si diceva un tempo – “muniti dei conforti religiosi”.

La presenza nel territorio della pastorale parrocchiale mi pare pressoché nulla. Non voglio, ancora una volta, ripresentare i miei tentativi a questo riguardo, ma mi pare che sia quanto mai urgente e necessario approntare delle iniziative pastorali che non s’accontentino dei praticanti, ma che puntino ad avere relazioni anche con chi non può o non ci pensa a frequentare la chiesa.

Il nostro Patriarca Francesco Moraglia

Nota della Redazione: come gli altri, anche questo articolo risale a diverse settimane fa, prima dell’arrivo di mons. Moraglia a Venezia

Dopo una lunga attesa è stato nominato il nuovo Patriarca. L’attesa ha spazientito e sorpreso più di un fedele della diocesi, me compreso, perché vorremmo la nostra Chiesa non solamente bella, coerente, evangelica, ma nel contempo anche al passo con i tempi, efficiente, viva e tempestiva. Comunque potrebbe esserci anche un aspetto positivo in questa riflessione per la scelta durata sette mesi; cioè speriamo che sia stata una ponderazione più scrupolosa del solito, date le particolari esigenze del Patriarcato, e che si sia finalmente trovato il vescovo giusto. Io voglio leggere l’evento da questo punto di vista, che mi sembra il più positivo.

Appena giunta la notizia, suor Teresa, dato che io sono inesperto del nuovo mondo di internet, m’ha portato tutta la documentazione sul nuovo Patriarca, una specie di curriculum un po’ sovrabbondante, come oggi si usa per chiedere un posto di lavoro.

Ho dato uno sguardo e m’è subito parso che il nuovo Patriarca venga da un mondo accademico, come il precedente cardinal Scola, che sia un grande esperto delle cose di Dio e sappia quasi tutto su quanto riguarda il Signore. Subito ho pensato che il cardinal Scola abbia chiesto al Papa un Patriarca che sapesse cullare e crescere la sua giovane creatura, il Marcianum, la quasi nuova università ecclesiastica di Venezia da lui fondata.

Non mi dispiace di certo che il nuovo Patriarca ne sappia di teologia, però i miei interessi sono assai diversi: piuttosto che i grandi misteri del Cielo, mi interessa l’uomo normale, quello della strada, e soprattutto l’uomo povero e fragile piuttosto che l’intellettuale.

Per fortuna sempre suor Teresa mi ha fornito un supplemento di documentazione che mi ha aperto il cuore alla speranza. In una delle foto ho visto il nuovo Patriarca con gli stivali infangati mentre dirigeva i suoi seminaristi che, per qualche tempo e per suo volere, hanno lasciato le aule della scuola per soccorrere gli abitanti delle Cinque Terre colpiti dall’alluvione.

Credo che ognuno abbia diritto di avere le sue preferenze e di scegliere le foto che gradisce di più da mettere sul suo tavolo di lavoro. Dove impagino “L’incontro” ci sarà il patriarca Moraglia in tonaca, ma pure con gli stivaloni infangati.

Credo che tutti vorremo bene al Vescovo che il Papa ci ha assegnato e che tutti ci metteremo a sua disposizione in ciò che ci interessa di più e che sappiamo far meglio. Per quanto mi riguarda mi darò da fare il meglio possibile perché il nuovo vescovo di Venezia appaia sempre con gli stivaloni e sia il Patriarca dei poveri.

Frutta e verdura per i nostri vecchi

Non c’è quasi nulla che sia impossibile. Sono convinto che la rete di confine del possibile sia determinata dalla fede in Dio e dall’amore al prossimo.

Ormai tutti sanno che il criterio con cui accogliamo i nuovi residenti al Centro don Vecchi sono la precarietà delle loro finanze e dell’autonomie esistenziale. Prendiamo i più poveri e i più malandati sotto ogni punto di vista.

Ricordo che quando cominciai ad imbarcarmi nell’impresa dei Centri don Vecchi, chiesi consiglio ad un mio amico commercialista. Questo signore mi rispose senza esitazione: «Don Armando, punti esattamente sulla categoria che ha la pensione medio-alta». Per fortuna, e per grazia di Dio, feci esattamente l’opposto.

Però confesso che non è facile pagare la pigione, i costi condominiali, le utenze, le medicine con una pensione di 580 euro, e talvolta anche meno. Nei Centri don Vecchi una cinquantina di residenti sono in queste condizioni ed altri cento non superano i sette-ottocento euro mensili. Perciò ci siamo dati da fare per trovare fonti alternative e soluzioni che agevolano questi poveri vecchi.

L’ultima trovata è stata quella del chiosco di frutta e verdura. Forte dell’esperienza della Bottega solidale, ci siamo lanciati in questa impresa. La “capa” è una mia coetanea ottantatreenne che ripete a tutti che il Centro don Vecchi non è una casa di riposo ma “un centro benessere”. Il frate elemosiniere è Luigi, un meridionale capace di vendere “aria di Napoli in scatola”. Questo signore si è creato una piccola “compagnia di Gesù” e con alcuni suoi adepti parte verso le quattro e va a questuare frutta e verdura a Padova e Santa Maria di Sala; altri rimangono a casa a preparare “il mercatino”. Altri ancora offrono a 5 euro al mese la tessera che dà diritto a ritirare questa frutta e verdura di prima qualità tre volte la settimana.

Io non so se sia sant’Antonio o san Gennaro, ma fatto sta che, a giorni alterni, arrivano uno o due furgoni carichi di frutta e verdura. I vecchi clienti del “don Vecchi” la ritirano per loro, per i figli, per i nipoti e i pronipoti, perché se i vecchi dovessero mangiare tutta la frutta e verdura che ritirano, scoppierebbero come la rana di Esopo che voleva diventare grande come la mucca.

Il banco alimentare del “don Vecchi” ci mette il furgone e il gasolio, io aggiungo soltanto brontolamenti, minacce, lusinghe e mediazioni per la pace.

Questo servizio fornisce alimenti ai due Centri di Carpenedo, quello di Marghera, quello di Campalto, e contemporaneamente rifornisce il banco alimentare del Centro che assiste duemila poveri alla settimana.

Vedendo tanto ben di Dio provo solamente tanta tristezza al pensare che molte parrocchie se ne stanno infreddolite all’ombra del campanile ad aspettare “il sol dell’avvenir”.

Spero che Monti possa fare le “pulizie di fondo”!

E’ arcinoto che Berlusconi e Bersani, pur avendo ambedue il nome che comincia con la B, sono come il demonio e l’acqua santa. Se se ne sono dette di tutti i colori, non sono mai stati d’accordo su nulla e pareva che fosse impossibile potessero lavorare assieme per il bene del Paese.

Non so chi ringraziare se non la Divina Provvidenza e il presidente Napolitano che bel bello, improvvisamente, ha tirato fuori, come per incanto, il coniglio dal cilindro, dando vita con Monti ad un governo di coalizione sostenuto appunto dal “demonio e l’acqua santa”.

La grande coalizione alla tedesca, che pareva assolutamente impossibile realizzare in Italia, è sorta quasi per miracolo, promovendo uno dei governi più efficienti e produttivi che abbiano governato l’Italia dalla liberazione a tutt’oggi.

Il governo Monti pare riesca a fare quanto, per i veti incrociati, non s’è riuscito a fare nell’ultimo mezzo secolo di Italia repubblicana. E’ ancora presto per gridare al “miracolo”, perché i vecchi istinti non sono ancora morti e non sono stati distrutti gli arsenali della polemica e della prevenzione. Io spero però che il miracolo duri almeno fino al 2013, perché col ritmo di lavoro con cui naviga, il governo Monti potrebbe affrontare la riforma elettorale, quella della giustizia, delle intercettazioni telefoniche, del lavoro e del sovraffollamento delle carceri.

Pare poi che Monti abbia riportato l’Italia a prender parte al gioco della scacchiera europeo, mentre fino a qualche giorno fa i governanti degli altri Paesi ci guardavano dall’alto in basso con un atteggiamento di scherno e di compatimento.

Quando, tempo addietro, ho manifestato il sogno che galantuomini scendessero in campo, e da gente non interessata promuovessero le riforme che vanno bene al Paese e non ad una fazione, sembrava che inseguissi una chimera o una fata morgana, mentre in realtà tutti scopriamo con stupore che l’Italia possiede ancora uomini e donne su cui contare.

Ora la mia preghiera quotidiana è perché Monti possa almeno fare le “pulizie di fondo” e sistemare l’ossatura della nostra società e perché gli italiani si ricordino che si possono ancora trovare qua e là dei Cincinnati disposti a perseguire il bene comune e poi tornarsene ai loro “campi”.

I miei angeli custodi

Io sono molto affezionato al mio angelo custode al quale ho sempre creduto, ma la mia fede è aumentata vedendo quel bellissimo film americano di Frank Capra in cui l’angelo diventa il protagonista di una storia di redenzione e di salvezza. La mia fede è ulteriormente aumentata quando ho sentito il racconto del nostro vecchio Patriarca, il cardinale Roncalli. Vale la pena che lo racconti anche ai miei amici, nella speranza che aumenti la fede e la fiducia nell’angelo a cui siamo affidati dal buon Dio.

Il futuro Papa ci raccontò che quando lo mandarono a Parigi, appena finita la guerra, spettava al nunzio apostolico presentare gli auguri al capo dello Stato, che a quel tempo era il generale De Gaulle, che in fatto di grandeur eccelleva alquanto.

Roncalli, come decano del corpo diplomatico, doveva fare il discorso di circostanza e lui, ch’era più saggio e furbo di quanto apparisse, sapeva che il generale voleva chiedere al Papa di togliere dalla loro diocesi una sessantina di vescovi che, a parer suo, s’erano compromessi col capo di stato Petain, filonazista.

Il Patriarca, cosciente della posta in gioco di quell’incontro, allora ci confidò che aveva pregato il suo angelo custode di accordarsi con quello del generale, perché così sarebbe stata più facile l’intesa tra i due relativi assistiti.

Non appena finita la confidenza, gli domandammo, curiosi, come era andata? E lui, quasi sorpreso, ci rispose che non poteva non andar bene dopo quella mediazione richiesta.

Da quel giorno ho cominciato anch’io ad usare questo stratagemma; non mi è sempre andata dritta, in verità, forse perché il mio angelo è di una categoria inferiore a quello del futuro Papa, comunque abbastanza di frequente l’operazione funziona.

Il Signore, buono com’è, durante la mia vita, mi ha sempre messo accanto qualche angelo di rinforzo, seppur di minore importanza, ma sempre specializzato. Ad esempio, quando consegno alla signora Laura Novello i manoscritti del diario, sono pressoché disperato, perché scarabocchiati, corretti male, con la sintassi e la grammatica che fanno acqua da tutte le parti. Quando poi mi ritrovo L’Incontro stampato, mi pare un miracolo perché i suoi rattoppi e i suoi interventi di chirurgia estetica mi hanno spesso posto la domanda “se sono stato proprio io a scrivere così bene”.

Non vi parlo degli altri angeli a part time o di rincalzo, che mi custodiscono ed assistono in tutti gli aspetti della mia vita. Il Signore me ne ha messo almeno uno in ogni mia impresa. Per questo io voglio tanto bene ai miei angeli custodi e li prego di frequente. Senza il loro aiuto sarei veramente perduto.

Il vestito del prete

E’ ben vero che “l’abito non fa il monaco”, però è altrettanto vero che l’abito aiuta a identificare la funzione di una persona nella società; se poi questa persona possiede anche tutti o tanti requisiti che quella divisa comporta, essa aiuta a presentare in modo più preciso quella funzione.

Questa riflessione, sulla funzione e sulla validità della divisa del sacerdote, m’è venuta osservando recentemente un prete vestito all’antica maniera: la lunga tonaca nera, la cotta inamidata con tanto di merletto, il tricorno in capo ed un ampio mantello.

Questa foggia di vestire m’ha sorpreso e incuriosito perché è piuttosto difficile incontrare un sacerdote vestito alla maniera preconciliare. Ora i preti vestono in tutte le maniere fuorché quelle indicate dalla disciplina della Chiesa, che col Consilio Vaticano Secondo ha suggerito un abito sobrio, pantaloni e giacca, e il collare bianco. Molti hanno aggiunto una crocetta d’argento sul bavero.

Adesso è facilissimo incontrare preti con i jeans, in cravatta, con colbacchi di pelo, giacconi, borselli e vestiti di tutte le fogge e di tutti i colori.

Il nostro è il tempo delle note “grida” manzoniane, spesso riproposte dalla stampa della categoria, osservate da pochi e non fatte osservare da chi avrebbe il dovere di farlo.

Io ritengo che la lunga tonaca nera sia un abito talmente fuori dal sentire comune, che perciò è opportuno abbandonare, però penso che una uniforme (nel senso letterale della parola, ossia uguale per tutti) sia quanto mai opportuna, anzi doverosa.

La divisa dà un senso di ordine, di disciplina, facilita un certo controllo di sé e aiuta a certi comportamenti che sono in linea con la serietà del ministero scelto dal sacerdote, che si distingue dagli altri per essere l’uomo della fede, della Chiesa e del sacro.

Ricordo quando, prima del Concilio, il mio vecchio parroco, mons. Da Villa, chiedeva a me e a don Giancarlo d’accompagnarlo a fare quattro passi in città; pretendeva che avessimo non solo la tonaca, ma anche la “spolverina”, magari al braccio, e il cappello rotondo a larghe falde alla don Camillo. Ogni volta che ero costretto a questo supplizio mi sembrava di assomigliare alla ronda dei carabinieri in alta uniforme in piazza san Marco, tanto che al passaggio di questi tre spilungoni vestiti nell’uniforme tutta nera, la gente si voltava indietro guardandoci, seppur con rispetto, ma anche giustamente con meraviglia.

Giunto il Concilio, andammo con monsignor Vecchi nei grandi magazzini di Coin alle Barche e uscimmo in clergyman elegante, compreso il cappello Borsalino, che però non adoperai mai avendo sempre avuto una selva di capelli quanto mai scomposti e ribelli.

Non rimpiango la tonaca, ma non mi entusiasmo neppure per il modo di vestire attuale di molti preti. Ora spero che il nuovo Patriarca metta un po’ di ordine anche in questo settore, pur marginale, della vita del clero.