Il nuovo Pastore e questo nostro ovile tutto buchi

L’esser vissuto per più di mezzo secolo a Mestre e l’essermi sempre interessato intensamente ed in prima persona dei problemi di ordine pastorale, mi consentono di rendermi perfettamente conto della situazione religiosa delle singole parrocchie e dell’intera città.

Io non so come vanno le cose in altre diocesi ed in altre città, ma capisco perfettamente che la situazione in cui verte la Chiesa mestrina è veramente grave, anche se apparentemente tutto è tranquillo.

Tante cose mi sono fonte di preoccupazione.

Quando penso all’estrema carenza della presenza della Chiesa sul territorio! Spesso la gente nasce, vive e muore senza che la comunità cristiana neppure se ne accorga!

Quando penso al crollo dei matrimoni religiosi, all’aumento dei bambini non battezzati e ai morti che arrivano alla tomba senza passare per la chiesa, e tutto questo senza che apparentemente il clero sia turbato!

Quando penso ai mezzi di informazione delle parrocchie, inconsistenti e per nulla incisivi.

Quando penso ai gruppi giovanili, spesso striminziti e talvolta inesistenti.

Quando mi rifaccio alla tanto propagandata nuova evangelizzazione, della quale non vedo cenno alcuno. Quando mi accorgo che la Chiesa mestrina è formata da un arcipelago di parrocchie che hanno solamente qualche legame formale, ma poco organico e sostanziale! Aumenta la mia angoscia.

Quando penso alle organizzazioni di categoria ormai totalmente scomparse e al mondo del lavoro definitivamente abbandonato a se stesso, allora mi balza davanti agli occhi la figura del nuovo Pastore con questo suo gregge che ha un ovile tutto buchi; allora avverto più che mai un sentimento di affetto, di compatimento e di solidarietà nei suoi riguardi.

M’era, in verità, venuta in mente l’idea di scrivergli che mi sarei messo volentieri a sua disposizione, ma poi ho compreso che ad 83 anni avrei potuto offrirgli ben poco. Preferisco fargli sapere la mia stima e il mio affetto, garantirgli la mia preghiera e dirgli che farò del mio meglio per portare avanti con passione e zelo il piccolo settore di cui ancora mi occupo e che pregherò ogni giorno perché egli riesca a dare nuovo vigore all’antica e povera Chiesa di Venezia.

Sprechi carnevaleschi

Non so proprio quando uscirà su “L’incontro” (e sul blog, NdR) questa pagina del diario. Tante volte ho ripetuto che il mio diario fissa sulla carta incontri, pensieri, reazioni o sogni che mi vengono in un giorno determinato, che come tutti i giorni, porta una data specifica, ma che la sua uscita sul periodico può variare anche di mesi.

Mentre sto buttando giù questo appunto il carnevale impazza, a Venezia intasa calli, campielli e vaporetti e la città spreca centinaia di migliaia di euro, forse milioni, mettendo in luce l’inconsistenza, la fatuità e l’effimero della nostra società.

In un momento in cui il Governo è costretto a tagliare dappertutto, la nostra amministrazione comunale, i nostri enti sociali, culturali, ecc. ecc. seminano a piene mani migliaia e, ripeto, forse milioni di euro nelle calli veneziane. Pinocchio fu certamente meno scialone quando si lasciò convincere di piantare qualche solderello “nel campo dei miracoli”.

Io non leggo certamente le cronache che interessano “Il Gazzettino” sui “voli dell’angelo” dal campanile di San Marco da parte di ragazze vestite da aquila o da oca, della “pantegana” dal ponte di Rialto o dell’asino dalla Torre di Mestre. Il telegiornale però ci offre con voluttà carrellate sulle maschere che vengono dal mondo intero, vestite con costumi dalle fogge più diverse, ma sempre e comunque costosi a non finire, così che allo sperpero di denaro pubblico si aggiunge quello dei privati. Pare che sia sempre stato così.

Comunque non è consolante che col passare dei secoli la nostra società non sia rinsavita e che i reggitori della cosa pubblica continuino ad imbonire le folle, a frastornarle con queste manifestazioni che distraggono il popolo dall’essere parco, dall’adoperare per le cose importanti il poco denaro di cui dispone.

So che “quaresima” dice quasi nulla alla nostra gente, che il messaggio di verifica, di ripensamento, di sobrietà e generosità non andrà neanche fuori dalle porte delle chiese, nonostante ciò niente riesce a distogliermi dal sognare una società con costumi più austeri, capace di essere serena e di badare a ciò che la vita può offrire a buon prezzo.

Da parte mia faccio fatica a capire ove posso tagliare, però sono convinto che, dopo una seria verifica, qualcosa di meglio potrò fare, memore di una “sentenza” di un mio collega delle magistrali che in tempi lontani mi disse di aver scoperto una grande verità, che cioè si può sempre fare un passo in avanti o un passo indietro!

La cura di Monti

Già ho confidato agli amici che la mia vecchia mamma curava quasi tutti i malanni della sua numerosa nidiata di figlioli, con l’olio di ricino. Non credo che questa medicina elementare esista ancora, penso che vi siano dei farmaci altrettanto efficaci e meno pestiferi.

La mamma ce lo propinava con una zolletta di zucchero, con il limone, ma nonostante ciò aveva sempre un gusto nauseabondo. La mamma pareva che avesse un convincimento radicato, che cioè quanto più una medicina era “cattiva”, ossia disgustosa, tanto più faceva bene. La mamma non andava tanto per il sottile e con sette figli non poteva perdere troppo tempo per convincerci e perciò tirava diritto, nonostante le nostre reazioni.

Ho l’impressione che Mario Monti si sia assunto l’ingrato ma salutare compito di far prendere l’olio di ricino agli italiani. Monti però non adopera l’olio di ricino a scopo punitivo o repressivo come fece Mussolini, ma l’adopera a scopo medicinale e curativo.

Monti poi, come mia madre, non ha molto tempo e molte possibilità di convincere a prendere questi rimedi non troppo appetitosi e perciò deve tirar diritto ed anche in fretta, dovendo rimediare in un paio di anni al massimo alle rovine che i politici hanno fatto in più di sessant’anni.

In questi giorni ho sentito l’ultimo intervento, che mi ha fatto tantissimo piacere: primo, perché io non ne sono personalmente coinvolto e, secondo, perché l’ho sognato da tantissimi anni. Pare che Monti e la sua squadra siano decisi a smobilitare varie decine di migliaia di militari e soprattutto di mandare in pensione e promuovere col contagocce generali, colonnelli, capitani e tenenti.

Non ho mai fatto mistero che io sognerei che si facesse come nel Granducato di Lussemburgo: vendere come ferro vecchio carri armati e tutto l’armamentario, sciogliere l’esercito e sostituirlo con un consistente corpo di polizia. Tanto è stato dimostrato a che cosa son serviti gli otto milioni di baionette di triste memoria!

Anche Obama – che è tutto dire – sta smobilitando, figurarsi noi! Credo che per l’Italia basterebbe l’equivalente delle “Guardie svizzere” per un po’ di coreografia o di folklore, ma nulla più.

In quest’ultimo periodo poi, con le bufere di neve, mi sono più che mai convinto dell’assoluta inutilità dell’esercito, a motivo della mentalità dei suoi comandanti, della sua organizzazione e delle cattive abitudini che fa prendere ai suoi membri.

L’esercito ha mandato qua e là venti, trenta, cento soldati, pretendendo poi che i Comuni dessero loro una seconda paga, quando ne avrebbero potuto mandare cinquanta, centomila senza che i sacri confini della Patria fossero in pericolo!

Per carità, io non ho nulla con i soldati, ma penso che sarebbero più utili se facessero i metalmeccanici, i fornai o i pasticceri. Pare strano che non si sia ancora capito che con le armi non si fanno che danni. Allora: “Forza Monti!”.

E’ difficile parlare del “peccato” all’uomo di oggi

Mi costa sotto ogni aspetto commentare il Vangelo ogni domenica alla folla di fedeli che gremisce la mia “chiesa di cartone”, pur volendo un mondo di bene ai miei fedeli e pur essendo certo che pure loro mi vogliono veramente bene. Mi costa perché non sono sciolto nel parlare, perché la mia gente meriterebbe di più di un vecchio prete, ma soprattutto perché ho l’angoscia di non riuscire a presentare, come sarebbe giusto, quelle splendide “perle” che sono le verità del Vangelo di Gesù.

Mi preparo, mi arrovello la coscienza, tento di dare il meglio di me, ma pur tuttavia sento che il Vangelo meriterebbe molto di meglio. Spesso offro al Signore la mia delusione e la mia sofferenza, sperando che Egli la trasformi in aiuto alla gente alla quale vorrei tanto offrire proposte di vita positive e serene.

Spesso, mentre rifletto per conto mio, faccio delle “scoperte” esaltanti, che mi paiono di una bellezza sovrana, e che ho la sensazione che potrebbero offrire prospettive rasserenanti e profondamente vere, così da illuminare il volto, spesso confuso, del nostro vivere. Poi, al tentativo di tradurre in parole o in messaggi le intuizioni, le “scoperte” o il messaggio, ho la sensazione di non riuscire a trasmettere alle coscienze la bellezza e l’importanza di queste verità.

Qualche domenica fa toccava il commento della guarigione del paralitico calato giù dal tetto da quattro volonterosi. Il disabile, finalmente, si trovava di fronte un’occasione veramente provvidenziale, unica; sennonché si sente dire da Cristo: «Ti sono rimessi i tuoi peccati!». Posso immaginare la sua delusione, quella dei “barellieri” e quella dei presenti. A quel pover’omo interessava muoversi, camminare, essere autonomo e null’altro!

Il discorso dei peccati è per tutti estremamente marginale, un discorso da chiesa, uno di quei discorsi da iniziati che han poco a che fare con i veri bisogni esistenziali. Credo che anche per la gente del nostro tempo il “peccato” sia quasi un’astrazione mentale, un qualcosa che siamo abituati a sentir ripetere fin dall’infanzia, ma niente di più.

Se poi vado alla definizione del catechismo o alle tante espressioni delle anime pie, “offesa al Signore”, la cosa diventa ancora più inconsistente e vaporosa, quasi una quisquiglia da preti.

Eppure oggi, quando pare si sia recuperato il valore della legge, delle regole, si dovrebbe comprendere che l’infrazione, il disordine, rompono un’armonia, quel fragile e pur indispensabile equilibrio di rapporti, sia personali che sociali, per cui lo sgarrare porta sofferenza, disordine e crea quel malessere che determina disagio e mancanza di serenità.

Ho tentato di recuperare l’incidenza malefica del “peccato” come vera causa dei malanni personali e sociali, estrapolandolo da un limbo evanescente per indicarlo come “nemico” della vita e della felicità umana. Non so proprio se ci sia riuscito, per questo ritento di farlo con la penna.

Celentano a Sanremo

Non è che io rifiuti Sanremo, come qualcosa di futile e di osceno, perché se molti milioni di italiani lo seguono vuol dire che ci deve essere qualcosa di positivo, anche se mi dà la sensazione della richiesta della folla anonima ed incolore che fin dai tempi di Roma s’aspettava dai capi “panem et circenses”, cioè benessere e divertimento.

Non l’ho seguita, come mai l’ho seguita, da quando è nata, questa manifestazione canora; mi urtano il canto sguaiato, le “ochette” di turno che non sanno far altro che spogliarsi sempre un po’ di più, e tutta quella montatura scenica di poco gusto. D’altronde penso che per un più che ottantenne, quale sono io, tutto questo dovrebbe essere scontato, comprensibile e giustificato. Confesso però che quest’anno mi è dispiaciuto di non aver fatto un “fioretto” di anticipata quaresima, così da perdermi il polverone suscitato da Celentano.

Di Sanremo so quello che mi hanno riferito e quello che ho letto sui giornali ed ho visto alla televisione a cose avvenute. Soprattutto mi son fatto un’idea dalla rubrica “Arena”, condotta da quel brillantissimo giornalista che è Massimo Giletti.

Io sono apertamente per Celentano, anche se il suo intervento l’ha fatto in maniera istrionica, esagerata e provocatoria, propria di Celentano. Mi hanno detto pure che le canzoni che ha cantato sono state bellissime e di contenuto religioso. Ma, a parte queste canzoni, che sono lo specifico degli apporti culturali e religiosi che egli può offrire, sono stato edificato dalla sua testimonianza di fede profonda ed esistenziale e dal fatto che ha portato alla ribalta dell’intera nazione un problema ed una realtà che solitamente sono relegati alla Chiesa, per gruppi sparuti di persone e per di più tutte schierate.

Mai ho sentito parlare di Dio in maniera così scoperta, rispettosa e sofferta negli ambienti futili, superficiali e spessissimo laici ed agnostici, quali sono quelli della televisione.

Anche se non condivido al cento per cento quello che ha detto di “Famiglia Cristiana” ed “Avvenire”, penso che quei due periodici avessero bisogno di una scossa per far loro cadere le tante foglie secche.

Contemporaneamente a Sanremo a Roma c’è stato il conclave per la nomina dei nuovi cardinali. Mi sono chiesto quale di questi due avvenimenti, a livello spirituale, abbia inciso di più sulla coscienza degli italiani. Io sono vecchio, amo la Chiesa, il Papa, i vescovi, ma confesso che tra la testimonianza di fede del cantante e il rito ampolloso, coreografico e stantio del conclave, sono decisamente per Celentano.

Quelle signore che cantano la gloria di Dio con la scopa delle pulizie

Qualche giorno fa mi sono recato nella mia vecchia parrocchia nella speranza di vedere “la mia sposa” riordinata e rimessa a nuovo, fresca di restauro. Nessuno sa quanto non abbia amato la mia chiesa che ho curato con infinita attenzione perché tutti la potessero incontrare pulita, adornata con buon gusto, allietata dai fiori, quasi vezzosa colle sue vesti neogotiche.

I miei parrocchiani erano orgogliosi della loro chiesa, tutti erano convinti che fosse la più bella della città ed io li incoraggiavo in questa convinzione, anche se sapevo che le sue vesti erano vecchie di almeno due tre secoli, perché è nata quando non si usava vestire le chiese con le vesti del momento, ma ci si rifaceva ai tempi “d’oro della fede”, come ci si illudeva che fossero i tempi antichi.

Comunque, anche se vestita con un falso d’autore, la mia chiesa è bella. Purtroppo essa da anni era ingabbiata in un’autentica selva di tubi Innocenti. Ogni volta che vi entravo era per me una sofferenza ed una spina al cuore.

Avendo saputo che finalmente era stata liberata dai puntelli, sono andato a vederla nella speranza di incontrarla come “la sposa bella”.

Sono stato contento a metà, perché erano appena usciti gli operai che avevano smontato le impalcature e c’era la squadretta che era intenta a lavare il pavimento e a vestirla a nuovo. Sono stato sorpreso perché a pulire la chiesa erano le mie vecchie “ragazze” di venti, trenta anni fa; ora esse hanno tutte i capelli grigi ma scopavano e tiravano il moccio con l’entusiasmo di un tempo e la passione di chi invece della scopa suona il violino! Mi venne da esclamare affettuosamente, vedendole così appassionate a far bella la chiesa: «Sempre le solite!»

Sapevo che negli ultimi tempi delle sposine s’erano messe in guanti e vestaglia a far quel lavoro, ma non so per quale ragione sono ben presto scomparse e la “vecchia guardia” ha dovuto riprendere le armi e mettersi a servizio di nostro Signore. Le ho guardate con infinita simpatia, vedendole impegnate con l’entusiasmo di chi fa il primo lavoro per far bella la casa di Dio e della comunità. Le avrei abbracciate una ad una, vedendole nel loro impegno generoso, scevro di mistica e teologia, ma ricche di amore perché la chiesa profumasse di vita e di bellezza.

Quelle donne hanno imparato solamente il catechismo di san Pio X, non frequentano di certo i corsi di biblica o i gruppi di ascolto, ma servono il Signore e cantano la gloria di Dio con la scopa e col moccio, come avessero in mano il violino di Uto Ughi!

Un gran bell’inizio!

Nota della redazione: questo intervento è stato scritto diverse settimane prima dell’ingresso del nuovo patriarca a Venezia

I nostri vecchi dicevano che “il giorno si vede fin dal mattino” ed aggiungevano con il gran buon senso di una volta: “chi ben comincia è a metà dell’opera”. Infine: “Il mattino ha l’oro in bocca”. E chissà quanti saranno i detti sapienziali che riguardano l’importanza di iniziare bene qualsiasi opera che ci si proponga di fare.

Io ho confessato che di tutte le foto che i mass-media ci hanno offerto del nuovo Patriarca, terrò sul mio tavolo di lavoro quella che lo ritrae con gli stivaloni infangati e con la semplice tonaca nera, mentre si dà da fare con i suoi seminaristi per aiutare la gente delle Cinque Terre colpite dall’alluvione e dagli smottamenti della montagna fradicia d’acqua.

E’ vero, come ci è stato ripetuto fin troppo dai “capetti”, che bisogna accettare con fede il Patriarca che il Signore ci manda ed è altrettanto vero che non si può avere un Patriarca corrispondente a tutti i gusti, ma credo che pure sia lecito sperare che il nuovo vescovo ci appaia il più adatto a dare un volto sobrio, adeguato ai tempi e capace di parlare e di farsi ascoltare dalla nostra gente,

Io spero che il Signore mi abbia accontentato e che il nuovo vescovo sia intenzionato a far indossare alla Chiesa veneziana “il grembiule da lavoro” per mettersi a servire i poveri.

In questi giorni poi ho letto come avverrà l’ingresso di mons. Muraglia nella nostra diocesi e sono stato felicemente sorpreso di apprendere che alla vigilia dell’ingresso si recherà a Ca’ Letizia a servire, con i pochi chierici del nostro seminario, alla mensa dei poveri.

Io non ci sarò, ma sarò ugualmente felice che quel seme sparso quarant’anni fa assieme a mons. Vecchi, abbia la prima attenzione e continui ad essere coltivato dal nuovo apostolo del Signore in terra veneta.

In questi giorni ho pensato che il Signore mi ha fatto un secondo dono stabilendo che il conclave per la nomina dei nuovi cardinali sia stato fissato in una data che non ha permesso al nuovo Patriarca di ricevere la berretta cardinalizia. Per carità! Avrei accettato di buon grado anche il Patriarca vestito di “porpora e di bisso”, vesti che mi ricordano fin troppo quelle dell’Epulone, ma sono contento che il Signore mi abbia risparmiato questo sforzo ascetico, perché confesso che non è che mi abbia esaltato quel concistoro, con tutto quel rosso, quelle poltrone rococò tutte dorate e quei riti fuori corso per il conferimento di un titolo onorifico.

Ringrazio ancora il buon Dio che ha permesso che il Patriarca entri quasi alla chetichella, con un anticipo, a Mestre, ove pulsa la vita, prima di entrare in museo. Ora spero soltanto che il comitato della curia “non mi rompa le uova nel paniere!”.

Invitato a parlare del don Vecchi

Il Centro di Studi Storici di Mestre mi ha invitato a parlare al Candiani sui Centri don Vecchi. Quando il presidente di questo prestigioso gruppo culturale, con una telefonata calda e confidenziale, mi ha invitato ad esporre questa esperienza, che grazie a Dio è diventata, certamente non per merito mio esclusivo, un fiore all’occhiello della nostra città, d’istinto gli avrei detto subito di no. Io sono schivo, introverso e sono convinto di non avere le qualità del conferenziere sciolto e brillante che sa presentare l’esperienza – pur estremamente valida, ne sono convinto – in maniera convincente e soprattutto tale da non annoiare, ma anzi di entusiasmare il pubblico.

Il prof. Stevano, però, è stato così irrompente e deciso che non sono riuscito a sottrarmi all’invito che mi offriva l’opportunità di promuovere questa struttura per gli anziani e soprattutto mi offriva “peso” per poter ottenere dall’amministrazione comunale la superficie indispensabile per attuare il progetto, già finanziato dalla Regione, a favore di una struttura destinata agli anziani in perdita di autonomia.
Dissi di si proprio perché non sono riuscito a dir di no!

Il Centro Studi Storici ha fatto veramente le cose per bene. Un titolo incisivo: “Il miracolo della sfida dei Centri don Vecchi”. Un manifesto con la mia immagine, molto bello, tanto che mi sono sorpreso della mia figura armoniosa, quasi quella di un vecchio dalla capigliatura copiosa e candida, ma soprattutto dal volto ricco di bonomia e di calda umanità. Consistente la diffusione dei manifesti e notevole l’informazione sulla stampa.

Il pubblico m’è apparso subito accattivante: molti volti conosciuti ed amici, consistente la rappresentazione del popolo dei vecchi, il resto costituito perlopiù dalle solite persone anziane che normalmente partecipano a queste cose.

Mi sono subito sentito a casa, facilitato da un anfitrione che ha condotto il discorso con maestria, interrompendo quel temuto monologo che mi avrebbe affossato in un mare di noia.

La dottoressa Corsi poi, ora funzionario del Comune e mia antica allieva delle magistrali, la quale è stata praticamente l’ideologa e la “cofondatrice” di questa iniziativa innovatrice nel settore della terza età, ha costruito in maniera brillante una cornice di taglio intellettuale al mio intervento. Cosicché, tutto sommato, penso che la cosa abbia sortito un risultato positivo.

Ora, forte anche di questo avvallo civico, presenterò con più decisione ed autorevolezza la mia richiesta al Comune io mi predisporrò ad uno scontro deciso attraverso i mass-media per ottenere quello che il Comune ci dovrebbe dare in un piatto d’argento.

La vittoria di Pirro

Ormai è da un’eternità che per “vittoria di Pirro” si intende una riuscita fatua, inconsistente, quasi un boomerang che finisce per colpire non l’obbiettivo prefissato, ma colui che l’ha lanciato.

Ormai mi pare sia notizia sicura che il nuovo “don Vecchi” per gli anziani in perdita di autonomia non si farà in margine al parco di viale don Sturzo. Ha vinto il parroco della parrocchia di San Pietro Orseolo e un comitato del rione che s’era battuto contro l’installazione di un’antenna per telefonini, ma che per l’occasione è stato delegato a portare avanti anche questa “nobile” battaglia contro la cementificazione del verde.

Io in verità non avevo mai creduto alla realizzazione del progetto in quel sito, perché da trent’anni ho avuto modo di conoscere i soggetti protagonisti dell’attuale triste vicenda. Hanno raccolto 150 o 350 firme, ma che cosa rappresentano quando in cinque minuti avremmo potuto raccoglierne altrettante e più ancora tra gli attuali residenti di viale don Sturzo 53, che attualmente abitano al Centro? A meno che, secondo la logica marxista di triste memoria, alla quale qualcuno torna ancor conto di credere, non si dica che questi cittadini non sono “democratici” e perciò i loro pareri non sono comparabili a quelli illuminati e progressisti.

La cosa è andata così ed io che credo alla Provvidenza, spero che tutto sommato la soluzione alternativa sia veramente migliore. Peccato perché questo viale, che è rimasto viale non raggiungendo ancora la soglia di comunità cristiana e che prevedo che prima o poi ritornerà sotto ogni aspetto a ridiventare un “colmello” della vecchia parrocchia di Carpenedo, aveva tutto da guadagnare con la nuova struttura, anche se avrebbe perduto due o tremila metri di verde pubblico di cui nessuno fruisce.

Il “don Vecchi” è l’unica cosa bella e qualificante del viale don Sturzo, è il suo fiore all’occhiello sotto ogni punto di vista, tra un dilagante anonimato che forse ora ha, come punto di riferimento significativo solamente l’Ins, il supermercato popolare.

La vita continua, però confesso che percorrendo questo stradone costruito dall’ingegner Cecchinato proverò tristezza pensando a questa comunità che si rifà ad un doge diventato santo per il suo amore verso i poveri e che oggi è costretto a far da patrono a fedeli che dei poveri e dei vecchi non ne vogliono proprio sapere.

I “comitati del no”

Quando ero bambino la mia gente nutriva un estremo disprezzo per “gli uomini che si fanno comandare dalle donne”. Certamente questo era ancora un antico retaggio della cultura maschilista imperante, soprattutto in campagna, fino a mezzo secolo fa. Ora non so come vadano le cose, ma credo che la mentalità sia cambiata anche nei paesi di campagna.

A dire il vero, quando mi capita di vedere qualche bisbetica di donna che tratta il marito come un cagnolino e gli comanda a dritta e a manca, la cosa non mi esalta, anzi provo disistima per quel poveruomo che non reagisce ai capricci, al fare smorfioso, arrogante e poco rispettoso di queste presunte superdonne che schiavizzano chi vuol loro bene e sfruttano questo amore per imporre le loro bizze.

Un qualcosa di simile lo provo anche per i reggitori delle comunità più vaste della famiglia: Comune, Regioni e lo stesso Stato.

Mentre butto giù queste mie note è appena terminata “la guerra” del “no Molin”, una furia invece quella del “no Tav” in Val di Susa. Comprendo i valligiani, attaccati ai loro prati e ai loro boschi, ma non comprendo punto i giovani incappucciati che, come soldati di ventura, si spostano, si arruolano per combattere, da mercenari della violenza, la guerra di turno.

Meno che meno poi comprendo la polizia che non ne fa qualche retata di tre o quattrocento al colpo e li mette nelle patrie galere, quanto mai adatte a far sbollire i roventi spiriti.

Non comprendo lo Stato che non interviene in maniera massiccia ed efficace.

In questi giorni i giornali hanno plaudito all'”eroico” carabiniere che, imperterrito, ha ascoltato le sciocchezze, i vaniloqui di un giovane contestatore; io l’avrei ammirato molto di più se avesse usato decisamente il manganello che aveva in dotazione.

Oggi non si fa che ripetere il valore sacrosanto delle regole, delle leggi che il popolo sovrano ha promulgato per il bene della collettività, mentre poi si permette che della gente dissennata, che dei perditempo cronici e violenti, sbarrino le strade, impedendo il lavoro delle gente per bene e creando danni quanto mai consistenti.

Oggi “i comitati del no” nascono come funghi e sentenziano su tutto, facendo perdere tempo e denaro.

Noi del “don Vecchi” siamo stati fortunati, perché il locale comitato “non antenna”, bontà sua, “ci permette” di fare il nuovo Centro, ma lontano dal quartiere, e mi tocca poi vedere che l’amministrazione comunale si adegua a tanta prepotenza e a tanta insensatezza nei riguardi del bene comune!

Quel commiato contestato

In questi giorni mi è capitato un inconveniente che mi ha messo a disagio e mi ha provocato alquanta amarezza, anche perché la stampa locale, che s’è occupata della cosa, ha pubblicato la notizia in modo assolutamente distorto.

Mi era stato richiesto di celebrare un funerale da parte di un’impresa funebre che è nota per il suo pressapochismo e la sua faciloneria interessata. Acconsentii anche perché questo, oggi, è il mio ministero specifico. Sennonché nella tarda vigilia di quella celebrazione, mi accorsi di un titolo a cinque colonne sulla stampa cittadina, che ne aveva montata la vicenda. C’era pure tanto di foto della chiesa di un mio collega il quale, dopo aver fissato il funerale, si era accorto che il richiedente intendeva spargere le ceneri in laguna, come gli attuali provvedimenti del Comune ora permettono e aveva rifiutato di celebrarlo perché, secondo lui, l’autorità religiosa non permetteva simile prassi.

Da un lato mi spiaceva, pur inconsapevole, di fare ciò che un collega, per motivi comprensibili, aveva rifiutato, e dall’altro mi misi nei panni di quel povero marito che aveva già avvertito parenti e amici, e poi aveva dovuto disdire l’appuntamento per il commiato della sua povera moglie che aveva percorso una lunga via Crucis. Rifiutando, avrei mandato a monte, per la seconda volta, la cerimonia a poche ore dalla data fissata.

Ci pensai un istante e optai per l’uomo piuttosto che per le rubriche, per i giudizi malevoli che avrei avuto dai colleghi e per l’opinione pubblica.

Ripeto che il mio non è stato un atto di menefreghismo delle regole, pur essendo io poco amante di esse, ma che in questo caso assolutamente ignoravo, né fu una scelta di dissociarmi dai colleghi, ma soltanto di comprensione per quel poveruomo ignaro delle sottigliezze liturgiche e delle discrepanze tra le norme comunali e quelle ecclesiastiche.

Ho fatto la mia scelta in umiltà e nella sola intenzione di cercare il bene dell’uomo e della comunità cristiana, disposto a pagare il prezzo di questa “disobbedienza” formale.

Di certo l’episodio mi ha costretto a riflettere e prendere interiormente posizione sulle rubriche liturgiche circa il “luogo sacro”. Non so se chi ha vergato quella presunta norma, che ora pare sia superata, abbia mai visto il fango, le pozzanghere, i rimasugli delle rimozioni precedenti del terreno del nostro cimitero in cui si seppelliscono i nostri morti, per poterlo definire “luogo più sacro” dell’acqua del mare infinito o dei monti solitari.

Il “centralismo” liturgico mi pare sia una piaga come ogni forma di decisionismo dall’alto. Mi pare che sia tempo, soprattutto per queste cose estremamente marginali alla religione e alla fede, di permettere che la gente faccia le sue scelte con semplicità e libertà.

L’uomo di oggi non è più un “bambino” e, meno che meno, un cagnolino da tenere al guinzaglio. Per quel che mi riguarda mi impegnerò a battermi perché ci sia più rispetto per i fedeli e i preti relativi.

E’ duro toccar con mano la disperazione dei disoccupati!

Credo che nella mia lunga vita di prete abbia potuto contare a migliaia le persone che mi hanno chiesto una raccomandazione per trovare un posto di lavoro. Da quanto ricordo trovare un posto di lavoro non è mai stato facile. Un tempo poi tutti erano convinti che la raccomandazione di un prete fosse più che sufficiente per essere assunti. Non fu mai così, comunque ho sempre cercato di accontentare questa povera gente che ricorreva a me fiduciosa, tentando di essere il più convincente possibile, personalizzando al massimo le mie presentazioni e le mie richieste.

Talvolta però suggerivo: “Per cercar lavoro ritieniti assunto otto ore al giorno per bussare alle porte più disparate, vedrai che in otto giorni al massimo troverai chi ti assume”, convinto che mentre è facile cestinare una domanda o metterla sul mucchio, è molto più difficile, anzi quasi impossibile, cestinare una persona!

Ora non ho neppure più coraggio di fare queste proposte, perché sono certo che è praticamente impossibile che un datore di lavoro s’accolli uno stipendio, per quanto modesto, se non ha necessità di questo lavoratore. Confesso però che finché questi discorsi sono teorici, essi fanno male, ma riesci a voltar pagina, ma una volta che ti trovi di fronte a delle persone in carne ed ossa che affermano: “Mi hanno detto che lei può far qualcosa per me”, allora ti senti proprio sgomento e perduto.

Qualche giorno fa dei signori mi chiesero di potermi incontrare. Scoprii che erano due sposi relativamente giovani con una bimbetta di tre, quattro anni. Mi raccontarono la loro triste storia: l’una perse il posto mentre era in maternità, l’altro per la riduzione del personale della piccola azienda presso cui lavorava. Lui era di Roma, lei di Gorizia. Scorsi la disperazione nei loro occhi. La disperazione dal vivo è cosa veramente terribile!

Mentre parlavamo la bimbetta, fortunatamente inconsapevole, giocherellava nei grandi spazi della hall.

Promisi che avrei parlato con due aziende che lavorano per il Centro. L’ho fatto, ma senza risultati. Non sapendo più cosa dire, offrii l’assistenza alimentare, pur sapendo benissimo quanto sia parziale e quasi insufficiente per il bilancio famigliare. Loro però erano già ricorsi al nostro Banco alimentare.

S’allontanarono con dignità e rispetto, ma quel dramma mi fa soffrire più dell’influenza che quest’anno mi ha colpito duramente e dalla quale non riesco ad uscire. Nelle mie preghiere aggiungerò un’Ave Maria per loro, perché sono più che mai convinto che solo Dio li può aiutare.

La Sagra di Carpenedo

All’inizio di giugno, da vent’anni a questa parte, nella mia vecchia parrocchia si dà vita ad una sagra paesana. Ai miei tempi, per tale occasione, stampavamo un opuscolo che serviva da supporto alla pubblicità e che ripagava gli sponsor per il loro contributo, e nel contempo ci permetteva di dare una pennellata di cultura a questa festa popolare.

In occasione del ventennale, gli attuali organizzatori hanno pensato bene di utilizzare il suaccennato opuscolo per fare un po’ la storia di quest’evento che s’è andato consolidando nel tempo. Mi chiesero quindi un contributo. Ben volentieri ho aderito all’iniziativa per mettere in luce un lato nascosto della sagra che certamente nessuno conosce.

La sagra non è nata per caso, sono stato io, parroco di allora, a volerla fortemente per creare intesa e comunità. Papa Roncalli affermava che per intenderci e fraternizzare il mezzo migliore è farlo “mettendo le gambe sotto la tavola”, ossia mangiando assieme ci si intende tanto più facilmente.

Il secondo motivo fu quello di risolvere un cruccio che mi addolorava fin dal mio arrivo a Carpenedo. Il paese di allora era come Brescello, il paese di Peppone e don Camillo. In via Ligabue c’era la sede dei comunisti, al cui davanzale sventolava la bandiera rossa con la falce e il martello. La sezione di Carpenedo era senza dubbio la più agguerrita e la più numerosa di tutta la città ed era guidata dal signor Bellina, segretario intelligente ed operoso. In parrocchia invece c’erano quelli del Biancofiore, pur senza bandiera al davanzale.

In verità, sia da una parte che dall’altra, c’erano cristiani uguali, che battezzavano, mandavano i figli a catechismo, sposavano e portavano i loro morti in chiesa.

Forse quelli di via Ligabue alla domenica preferivano il Bar Centrale, mentre quelli della “Balena Bianca” venivano più spesso a messa. Misi a punto il progetto: incontriamoci tutti a mezza strada, su un terreno neutrale qual’è una tavola imbandita con salcicce e costicine.

Così fu e fu subito un successo, sia per i gestori che per i fruitori. Era uno spettacolo vedere la gente dei vari “colmelli” della vecchia parrocchia, quella prima delle divisioni, incontrarsi, chiacchierare, ballare, cenare sotto gli enormi capannoni. Non ho mai visto tanti “parrocchiani” sotto l’ombra del campanile!

L’avevo intuito anche prima, ma allora ebbi la conferma che per far comunità non ci si deve rifare ad astruserie di ordine psicologico, sociale o religioso. Di comunità fittizie che si reggono sui trampoli di ideologie ve ne sono anche troppe, ma non servono a nulla, e meno che meno alle persone che vi aderiscono.

La diversità che arricchisce le comunità

I legami con la mia vecchia parrocchia, dopo sei anni da che l’ho lasciata, si sono rallentati, però ci sono ancora. Io ho fatto di tutto per starmene lontano, avendo avuto la sensazione che la visione pastorale tra me e il mio successore, fosse decisamente diversa. Venivamo da due culture tanto lontane. Io, come matrice di fondo, provengo dalla dottrina dei “cristiani per il socialismo”, cioè un cristianesimo fortemente incarnato nella società, mentre lui usciva in maniera diretta dal movimento neocatecumenale, quindi da una visione religiosa intimista, poco o per nulla comunicante con le problematiche sociali.

Comunque credo di dover affermare, convinto, che la diversità arricchisce. Sono stato felice che la parrocchia abbia fatto per sei anni un’esperienza religiosa diversa da quella che io ho tentato di passare con tanta convinzione.

Mi sento più sereno perché talvolta mi pesava sulla coscienza d’aver offerto, alla gente che ho amato tanto, soprattutto un cristianesimo di stile orizzontale, ossia una fede che diventa soprattutto ed anzitutto solidarietà, presentando il Cristo dei poveri, degli ammalati, degli umili, un Cristo che si oppone ai prepotenti, che vive profondamente le vicende della sua gente. Don Danilo invece m’è parso che puntasse, in maniera privilegiata, alla lode a Dio, ad una comunità cristiana raccolta in se stessa, preoccupata anzitutto di tener viva la fiamma della fede tra i suoi membri, alimentandola con la preghiera e la lode e tenendola lontana dalle problematiche sociali che ai neocatecumenali interessano tanto poco.

Spero che queste culture diverse dello stile pastorale abbiano offerto un cristianesimo più completo e più ricco nelle sue sfaccettature.

Ora don Gianni offrirà pure lui un contributo specifico, una proposta cristiana che, pur rifacendosi alla grande tradizione della Chiesa, arricchisca ulteriormente la comunità, mettendo in luce sfaccettature pur diverse, ma che tendono a dare un’immagine sempre più profonda e vera del Cristo che prende volto nella parrocchia.

Ai giovani bisogna dire onestamente come stanno le cose

Di solito prendono la parola e si fanno ascoltare soprattutto quelli che sanno parlare. Il guaio è che, quasi sempre, quelli che sanno parlare e non sanno fare che quello e nient’altro. E tutti sanno che con le chiacchiere non si produce ricchezza e, meno che meno, benessere alcuno.

Recentemente ho assistito alla televisione ad una di quelle tante manifestazioni di giovani che hanno quasi sempre, come spina dorsale, quella dei centri sociali, che gridavano a gran voce, contro la società: “Ci avete rubato il futuro!”.

Lo slogan, come tutti gli slogan, era una battuta ad effetto, non dico di no, ma, almeno per me, appariva assurdo. Pareva che per quei giovani scalmanati la “società” fosse quasi una ricca signora ingioiellata e piena di soldi che non so con quali artifici fosse stata così avida ed astuta da rubare ai giovani un bene così prezioso qual è il domani.

A mio modesto parere, fino a prova contraria, la società siamo noi: vecchi, giovani e adulti. Quindi il problema del futuro delle nuove generazioni dobbiamo risolverlo noi, ma anche, e soprattutto, i diretti interessati: i giovani.

Mi vien rabbia che non ci sia mai qualcuno di chi comanda, Napolitano in testa, che dica: “Cari ragazzi, datevi da fare, studiate, imparate, preparatevi e poi cercate! E’ finito il tempo della `pappa fatta’ e del posto sicuro fuori dalla porta di casa!”

Sbagliano di certo i giovani perdendo tempo con le chiassate inutili, sporcando i muri e rompendo le vetrine di chi il lavoro se l’è creato. Sbagliano ancor di più gli adulti e i governanti che perdono tempo ad ascoltare queste pretese assurde ed impossibili. E’ tempo che siano onesti con i giovani, dicendo loro: “E’ vero che la vita presenta delle difficoltà, ma voi avete dentro le risorse per superarle”.

Qualche anno fa è venuto al “don Vecchi” a salutare sua madre, che è pure mia sorella, uno dei miei tanti nipoti, un ragazzo quarantenne nato in campagna da un padre muratore, nipote che si è impegnato ed è arrivato ad essere un giovane comandante dell’Alitalia, uno di quei ragazzi non raccomandati, sacrificato dagli errori della politica. Ebbe una disoccupazione d’oro, ma a tempo determinato. I posti da pilota, oggi, non si trovano fuori dalla porta di casa. Una volta ancora si è rimboccato le maniche ed oggi è di nuovo comandante nella compagnia del Qatar degli emirati arabi.

Preoccuparsi dei giovani e donar loro un futuro non si risolve ascoltando i facinorosi, ma dicendo loro con onestà che il domani bisogna costruirselo da soli e non aspettarselo dallo Stato.