Mi costa sotto ogni aspetto commentare il Vangelo ogni domenica alla folla di fedeli che gremisce la mia “chiesa di cartone”, pur volendo un mondo di bene ai miei fedeli e pur essendo certo che pure loro mi vogliono veramente bene. Mi costa perché non sono sciolto nel parlare, perché la mia gente meriterebbe di più di un vecchio prete, ma soprattutto perché ho l’angoscia di non riuscire a presentare, come sarebbe giusto, quelle splendide “perle” che sono le verità del Vangelo di Gesù.
Mi preparo, mi arrovello la coscienza, tento di dare il meglio di me, ma pur tuttavia sento che il Vangelo meriterebbe molto di meglio. Spesso offro al Signore la mia delusione e la mia sofferenza, sperando che Egli la trasformi in aiuto alla gente alla quale vorrei tanto offrire proposte di vita positive e serene.
Spesso, mentre rifletto per conto mio, faccio delle “scoperte” esaltanti, che mi paiono di una bellezza sovrana, e che ho la sensazione che potrebbero offrire prospettive rasserenanti e profondamente vere, così da illuminare il volto, spesso confuso, del nostro vivere. Poi, al tentativo di tradurre in parole o in messaggi le intuizioni, le “scoperte” o il messaggio, ho la sensazione di non riuscire a trasmettere alle coscienze la bellezza e l’importanza di queste verità.
Qualche domenica fa toccava il commento della guarigione del paralitico calato giù dal tetto da quattro volonterosi. Il disabile, finalmente, si trovava di fronte un’occasione veramente provvidenziale, unica; sennonché si sente dire da Cristo: «Ti sono rimessi i tuoi peccati!». Posso immaginare la sua delusione, quella dei “barellieri” e quella dei presenti. A quel pover’omo interessava muoversi, camminare, essere autonomo e null’altro!
Il discorso dei peccati è per tutti estremamente marginale, un discorso da chiesa, uno di quei discorsi da iniziati che han poco a che fare con i veri bisogni esistenziali. Credo che anche per la gente del nostro tempo il “peccato” sia quasi un’astrazione mentale, un qualcosa che siamo abituati a sentir ripetere fin dall’infanzia, ma niente di più.
Se poi vado alla definizione del catechismo o alle tante espressioni delle anime pie, “offesa al Signore”, la cosa diventa ancora più inconsistente e vaporosa, quasi una quisquiglia da preti.
Eppure oggi, quando pare si sia recuperato il valore della legge, delle regole, si dovrebbe comprendere che l’infrazione, il disordine, rompono un’armonia, quel fragile e pur indispensabile equilibrio di rapporti, sia personali che sociali, per cui lo sgarrare porta sofferenza, disordine e crea quel malessere che determina disagio e mancanza di serenità.
Ho tentato di recuperare l’incidenza malefica del “peccato” come vera causa dei malanni personali e sociali, estrapolandolo da un limbo evanescente per indicarlo come “nemico” della vita e della felicità umana. Non so proprio se ci sia riuscito, per questo ritento di farlo con la penna.