La Sagra di Carpenedo

All’inizio di giugno, da vent’anni a questa parte, nella mia vecchia parrocchia si dà vita ad una sagra paesana. Ai miei tempi, per tale occasione, stampavamo un opuscolo che serviva da supporto alla pubblicità e che ripagava gli sponsor per il loro contributo, e nel contempo ci permetteva di dare una pennellata di cultura a questa festa popolare.

In occasione del ventennale, gli attuali organizzatori hanno pensato bene di utilizzare il suaccennato opuscolo per fare un po’ la storia di quest’evento che s’è andato consolidando nel tempo. Mi chiesero quindi un contributo. Ben volentieri ho aderito all’iniziativa per mettere in luce un lato nascosto della sagra che certamente nessuno conosce.

La sagra non è nata per caso, sono stato io, parroco di allora, a volerla fortemente per creare intesa e comunità. Papa Roncalli affermava che per intenderci e fraternizzare il mezzo migliore è farlo “mettendo le gambe sotto la tavola”, ossia mangiando assieme ci si intende tanto più facilmente.

Il secondo motivo fu quello di risolvere un cruccio che mi addolorava fin dal mio arrivo a Carpenedo. Il paese di allora era come Brescello, il paese di Peppone e don Camillo. In via Ligabue c’era la sede dei comunisti, al cui davanzale sventolava la bandiera rossa con la falce e il martello. La sezione di Carpenedo era senza dubbio la più agguerrita e la più numerosa di tutta la città ed era guidata dal signor Bellina, segretario intelligente ed operoso. In parrocchia invece c’erano quelli del Biancofiore, pur senza bandiera al davanzale.

In verità, sia da una parte che dall’altra, c’erano cristiani uguali, che battezzavano, mandavano i figli a catechismo, sposavano e portavano i loro morti in chiesa.

Forse quelli di via Ligabue alla domenica preferivano il Bar Centrale, mentre quelli della “Balena Bianca” venivano più spesso a messa. Misi a punto il progetto: incontriamoci tutti a mezza strada, su un terreno neutrale qual’è una tavola imbandita con salcicce e costicine.

Così fu e fu subito un successo, sia per i gestori che per i fruitori. Era uno spettacolo vedere la gente dei vari “colmelli” della vecchia parrocchia, quella prima delle divisioni, incontrarsi, chiacchierare, ballare, cenare sotto gli enormi capannoni. Non ho mai visto tanti “parrocchiani” sotto l’ombra del campanile!

L’avevo intuito anche prima, ma allora ebbi la conferma che per far comunità non ci si deve rifare ad astruserie di ordine psicologico, sociale o religioso. Di comunità fittizie che si reggono sui trampoli di ideologie ve ne sono anche troppe, ma non servono a nulla, e meno che meno alle persone che vi aderiscono.

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