Mi pare che pretendere efficienza dagli enti pubblici sia più che un diritto!

Mi sono fatto una cattiva fama presso gli uffici del Comune e forse presso qualche assessore. Pare che mi ritengano una persona che pretende, che forse voglia essere privilegiato e che non abbia pazienza di aspettare che le pratiche facciano il loro corso.

Più di una volta l’architetto Zanetti, che da alcuni anni è il professionista a cui ci siamo affidati per progettare il “don Vecchi” di Marghera e di Campalto, di fronte alla mia insofferenza per le lungaggini del Comune, mi confidò che in città godo della stima e della protezione di molte persone, ma ve ne sono altre che non mi sopportano e che non approvano il mio modo di rapportarmi con l’amministrazione comunale.

Qualche giorno fa (relativamente a quando è stato scritto questo intervento, NdR) ho spedito al Comune e all’Anas una lettera, con tanto di protocollo, sulla questione della messa in sicurezza dell’uscita ed entrata da via Orlanda al Centro don Vecchi di Campalto. Per la settantina di anziani ottantenni il salire e lo scendere dall’autobus che da Campalto li porta al “don Vecchi” e viceversa, rappresenta una vera roulette russa, tale è il pericolo di via Orlanda dove c’è un traffico estremamente intenso e veloce proprio lungo il rettilineo antistante il Centro.

Ho chiesto personalmente all’assessore Ugo Bergamo, responsabile della viabilità e all’ingegner Entimino Mucilli, capo del compartimento dell’Anas una pista ciclopedonabile che congiunga il Centro a Campalto. Ambedue si sono dichiarati attenti e disponibili ma impossibilitati a finanziare la pista perché privi di fondi.

S’è concordata allora una soluzione tampone per una parziale messa in sicurezza dell’ingresso ed uscita, in attesa che questi enti possano disporre delle somme necessarie. Il costo della soluzione tampone se la sobbarca per la maggior parte la Fondazione dei Centri don Vecchi, pur non spettando ad essa questo compito.

Sono passati ben cinque mesi dall’inaugurazione del Centro, senza che si sia arrivati ad alcunché per la mancanza dei permessi. Io mi sono recato in queste due amministrazioni: locali lussuosi e confortevoli, fattorini eleganti e numerose segretarie, un apparato veramente consistente, ma per quel che mi riguarda: nessun risultato.

So che il Comune ha quattromilaseicento dipendenti ed è la più numerosa azienda della zona e l’Anas non so quanti, comunque ha un’organizzazione efficiente per raccogliere denaro. Un dipendente Anas, non appena è apparsa sulla facciata del nostro edificio di Campalto la scritta “Centro don Vecchi”, ci ha minacciato una multa; abbiamo pagato la tassa, ma è arrivato cinque mesi dopo il permesso di scoprire la scritta.

Mi renderò forse ulteriormente antipatico, ma qualche giorno fa ho ribadito, con lettera raccomandata, che se succedesse il sia pur minimo incidente, partirebbe immediata una mia denuncia alla magistratura. A me pare che pretendere efficienza dagli enti pubblici, che i cittadini pagano, non sia un diritto, ma un dovere!

Riflessioni di compleanno

Il quindici di marzo, giorno tragico per Cesare, è un giorno preoccupante anche per me, perché quel giorno ho compiuto 83 anni. Non mi par vero, ma è così!

Ho ricevuto un sacco di auguri, di fiori, di abbracci, di regali e di complimenti: perché porto bene i miei anni, perché non sembra che li abbia e perché, a detta dei più, sono ancora necessario. Tutte care bugie! Ho gradito quanto mai ogni segno di affetto, anche il più piccolo. Mi ha fatto bene sentire tanta simpatia, tutto questo mi ha incoraggiato a far del mio meglio, comunque ho preso ulteriore coscienza della mia età avanzata, del fatto che ho un sacco di acciacchi e soprattutto che rimango in piedi solamente perché i medici mi sorreggono con tanti “tutori” che oggi chiamano medicine.

La mia vita è ora un po’ fittizia, artificiale e, in parte, bionica. In questi giorni che hanno ruotato attorno al mio compleanno, più volte mi è venuta in mente la trama di un bel film che ho visto qualche anno fa. La vicenda della pellicola riguarda la vita e le imprese guerresche del Cid, il famoso condottiero della Spagna al tempo dell’invasione dei “mori” nei riguardi della cristianità.

A quei tempi l’Islam tentava di espandersi negli stati cristiani per mezzo delle armi, mentre ora sta invadendo l’Europa imponendo la cultura e la religione della mezza luna in maniera pacifica, ma con più efficacia e maggiori risultati.

Il leggendario guerriero che guidava in maniera irruente le cariche della cavalleria delle schiere cristiane, fu colpito a morte da una freccia nemica. La sua morte, però, fu tenuta nascosta ai combattenti della croce per non scoraggiarli, essendo il Cid il comandante leggendario che era solito guidarli alla vittoria.

Di fronte ad una battaglia che doveva essere risolutiva, i luogotenenti delle schiere cristiane issarono sul cavallo il cadavere dell’intrepido condottiero e con un marchingegno lo caricarono in groppa al destriero tenendolo ben dritto sulla sella e poi frustarono il cavallo per condurre i cavalieri alla carica definitiva al grido: “Per la croce, con il Cid!”

Ho l’impressione che ora, in certe scaramucce nostrane per realizzare il “don Vecchi 5”, io sia ridotto a un poco più del Cid di Spagna, ossia sia rimasto un simbolo, ma solamente un simbolo che ricorda tante battaglie per la solidarietà e fortunatamente anche con qualche piccola vittoria.

Se, nonostante tutto, mi portano avanti come una bandiera, anche se in maniera artificiosa, per ottenere qualche risultato positivo, sono contento anche di questo, se posso essere utile alla causa.

Chi vuole cambiare veramente questo paese?

Spero che la descrizione che i giornali fanno della nostra società non corrisponda al vero, ma che per motivi di interesse economico forniscano di essa le notizie peggiori così da darne una visione distorta e pessimistica.

Di certo, quando al mattino do una sfogliata al quotidiano della nostra città, rimango sgomento, inebetito, frastornato e non riesco a trovare appigli per accettare i comportamenti e le scelte non solo delle classi dirigenti, ma anche dei comuni mortali.

Stamattina ho letto titoli veramente desolanti e sconvolgenti. Mi soffermo però su uno dei più “confortanti” che ci riguarda più da vicino e che apparentemente è presentato come qualcosa di positivo che vuole bonificare la politica locale.

Il Gazzettino informava che in Regione s’è stabilito che assessori, consiglieri e funzionari, quando vanno in missione per i motivi più diversi, avranno solamente 50 euro come rimborso per il pranzo o la cena che, per motivi di servizio, devono fare al ristorante.

Non so quanto potessero addebitare all’amministrazione prima di questa “radicale riforma”, comunque mi fermo su questo argomento per una riflessione. Al “don Vecchi” chi lo desidera, può pranzare al “senior restaurant” al costo di 5 euro (cinque). Il pranzo comporta un primo più che abbondante, un secondo con contorno (purè per chi lo vuole, insalata, carote e pomodoro), il pane naturalmente, un frutto oppure lo yogurt o il dolce. Questo pranzo non solamente risponde alle esigenze di una nutrizione necessaria, ma moltissimi anziani si portano dietro dei contenitori per avere di che cenare alla sera.

Devo aggiungere che però non sono moltissimi i residenti che possono permettersi questo lusso del ristorante, perché quella settantina di inquilini che hanno una pensione di cinquecento euro al mese, di certo non possono permettersi di spenderne 150 solamente per il pranzo.

Qualche giorno fa poi ho letto che l’ex amministratore dell’ex partito della Margherita, metteva in conto 180 euro solamente per una pastasciutta! Questa è la nostra società!

Quando mi chiedono se sono di destra o di sinistra, non rispondo, o meglio rispondo: «Sono per chi vuol cambiare realmente, ma finora non ho assolutamente trovato chi lo voglia!». Finché un partito dà per scontato che un dipendente da un ente pubblico debba mangiare una quantità di cibo dieci volte più di un cittadino normale, non appoggerò di certo quel partito.

Un uomo che ha raggiunto Dio per sentieri più faticosi

Qualche giorno fa, accompagnato da uno zio che mi conosce bene e che molto probabilmente le ha consigliato che fossi io a celebrare il commiato di suo padre, venne al “don Vecchi” una signora per darmi informazioni sulla vita e sulla personalità del suo caro genitore morto il giorno prima.

La cosa mi fece molto piacere perché abbastanza di frequente sono io a telefonare perché mi si dia almeno un abbozzo della persona che lascia questa terra. Da questa persona mi si chiese di dare l’ultimo saluto e di presentarla al buon Dio, accompagnandola con la misericordia che Gesù le offre col sacrificio della croce. Oggi spesso si corre il rischio che il commiato si riduca ad una cerimonia o ad un rito religioso che però non diventa un evento che coinvolge, che apre il cuore alla speranza e che prospetti la nuova vita.

Chiesi dunque qualche notizia generica per inquadrare il fratello che ci ha preceduto in Cielo, poi, fatte alcune domande di carattere generale, finii per fare la domanda più importante: «Era credente suo padre?» Vidi subito che la mia interlocutrice cominciò a sentirsi in imbarazzo, quasi temendo di farmi un dispiacere o di dire un qualcosa di non rispettoso per suo padre. Con fatica rispose: «Forse no». Al che tentai di precisare la distinzione fra praticante e credente, cosa poco chiara per molte persone, ma poi capii che il suo “no” riguardava proprio la fede.

Lei sentì subito il bisogno di soggiungere che era buono, che aveva sani principi morali, che amava l’arte, la vita, la terra, che s’interessava un po’ di tutto e leggeva avidamente quanto lo potesse arricchire ulteriormente.

Mentre continuava su questo tasto, quasi a tentare di convincermi che era bene celebrare il commiato in chiesa alla luce della fede, mi si affacciava sempre più nitidamente la tesi del Cronin nel romanzo “Le chiavi del Regno”, ove si dice che c’è una strada diretta, facile e tranquilla, che porta al Regno, ma può avere le chiavi per aprire la sua porta anche chi imbocca una complanare, una strada sterrata o perfino un sentiero faticoso.

E pensai che molto probabilmente quel mio fratello aveva conosciuto ed amato Dio per quello che è possibile ad un pover’uomo e l’aveva amato attraverso l’arte, la bellezza; aveva insomma battuto questo sentiero faticoso per arrivare alla strada del Padre.

Il bel romanzo dell’autore inglese non offre di certo la certezza della Bibbia, ma a me offriva una chiave di lettura che mi metteva il cuore in pace e mi aiutava ad affidare quest’uomo alla misericordia di Dio, sicuro che il Signore aveva continuato ad amarlo così com’era, anche se alla domenica non era andato a messa e alla sera non aveva recitato il “credo”.

Il cardinale Marco Cè

Anche quest’anno mi sono giunti per tempo gli auguri del cardinale Cè, in occasione del mio ottantatreesimo anno di età. Pubblico il testo, da lui scritto a mano, per testimoniare la finezza e la nobiltà d’animo del nostro vecchio Patriarca:

06.03.2012:
Caro don Armando, si avvicina il tuo compleanno; auguri! Alla nostra età gli anni corrono.
Vedo con piacere che sei sempre sulla breccia, ringraziamo il Signore.
Con affetto,

Marco Cè

Sono certo che il Cardinale non manda solo a me gli auguri, ma li invia a tutti i sacerdoti del patriarcato, e non lo fa solo ora che praticamente la sede è vacante, con la partenza del cardinale Scola e il fatto che il nuovo Vescovo, Francesco Muraglia, non ha ancora preso possesso della diocesi, ma ha sempre mandato gli auguri a tutti i suoi preti fin da quando è sbarcato a Venezia tanti anni fa.

Il fatto poi che io non sia mai stato un prete solito a frequentare né la curia né le riunioni, che non abbia mai avuto un atteggiamento remissivo ed ossequioso, ma che anzi abbia sempre manifestato il mio pensiero e talvolta anche in maniera critica e tagliente, dà la misura della finezza d’animo, della signorilità e dell’umanità di questo vecchio prete che la diocesi di Crema ci ha donato e che s’è talmente legato a noi da rimanere a Venezia anche quando ha finito la sua missione pastorale e quindi poteva tornare alla sua terra. Io ho capito forse troppo tardi la levatura morale e la ricchezza di spirito di questo vescovo umile, remissivo, discreto e quanto mai generoso.

Ogni volta che mi giungono questi attestati di affetto, avverto quasi rimorso per non aver capito per tempo che dono il Signore ha fatto alla Chiesa di Venezia e quindi anche a me in particolare. L’ultima volta che l’ho sentito per telefono fu in occasione dell’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto, quando mi disse: «Don Armando, verrei molto volentieri ma le gambe non mi reggono più».

So però che, nonostante questa sua infermità, continua a predicare in occasione dei ritiri e degli esercizi spirituali al Cavallino, dando una sublime testimonianza di zelo apostolico.

In genere io non sono troppo delicato con gli alti prelati, ma devo convenire che ci sono anche oggi dei santi vescovi e che certamente il cardinale Cè è uno di questi, e ciò è una gran grazia del Signore per la nostra gente ma soprattutto per noi preti.

Il nuovo volume del “Diario di un vecchio prete”

I miei collaboratori mi hanno informato che sono pronte le bozze che raccolgono il “Diario di un vecchio prete” dello scorso anno, 2011 e mi hanno chiesto quindi una prefazione. Come il solito non ho voluto scomodare alcuno per una cosa di così poco conto ed ho buttato giù la nota che accludo per dire l’animo con cui consegno per una volta ulteriore le mie riflessioni alla città.

Nota dell’autore
In questo vespero inoltrato della mia lunga vita spesso il mio pensiero e la mia coscienza vanno alle scelte di due grandi personaggi del nostro tempo: il presidente Reagan e il papa Wojtyla.

Il primo, avvertendo l’annebbiarsi della mente e il venir meno delle sue forze, prese coraggiosamente commiato dal suo popolo manifestando pubblicamente la scelta lucida di entrare nel silenzio del profondo mistero che ormai incombeva sulla sua vita.

Il secondo, pur “morto” fisicamente, scelse di rimanere al suo posto per dare testimonianza di fedeltà alla sua Chiesa fino alla fine estrema del suo mandato.

Ho ammirato profondamente entrambe queste due belle figure e le scelte relative, forse per questo vivo in maniera un po’ drammatica il mio tramonto.

Finora ho scelto di fare come il presidente americano. Quando ho avvertito il venir meno delle mie risorse fisiche e spirituali ed ho temuto di non riuscire a guidare con lucidità la mia comunità verso il domani, ho scelto, pur con tanta sofferenza, di lasciare la parrocchia. Lo stesso ho fatto più recentemente con la Fondazione dei Centri don Vecchi, passando la mano ad un giovane prete.

Ora però che il periodico, “L’incontro”, ha sfondato, sta imponendosi all’attenzione della città e sta raccogliendo felici e vasti consensi, mi trovo nel dramma, se continuare a seguire la scelta di Reagan o continuare fino all’esaurimento di ogni risorsa come papa Vojtyla.

Per adesso, con fatica, ho scelto d’attendere ancora un po’, pur “provandomi la pressione” più frequentemente.

Da questa scelta provvisoria nasce questo volume, che perfino nel titolo, “In attesa del giorno nuovo”, vuol dire la consapevolezza della mia fragilità fisica e spirituale e la coscienza della precarietà con cui affronto questi giorni del tramonto, anche se ricco di fiducia e di speranza.

Mi auguro che queste scelta, un po’ difficile, possa rappresentare almeno un punto di confronto per i miei coetanei ed un monito per i giovani a vivere con onestà e nello stesso tempo con generosità e spirito di sacrificio.

Questo volume non rappresenta ancora il mio commiato definitivo dalla città e dalla Chiesa che ho amato appassionatamente, ma di certo vuol dire ai miei concittadini che, pur desiderando che “la morte mi incontri vivo”, sono consapevole d’essere ormai entrato nei “tempi supplementari”.

Quanta gioia dà quest’Incontro!

“L’incontro”, il nostro amato periodico, continua a tirare. In quest’ultimo tempo abbiamo aumentato 150 copie la settimana, pur arrivando alla domenica con “il tutto esaurito”. Il periodico, almeno a livello di piccola rivista di ispirazione religiosa, è senza dubbio il più letto in tutta la città. Penso, senza vanagloria e presunzione, che se anche si facesse la somma di tutti i bollettini parrocchiali della città, “L’incontro” li supererebbe in numero di copie, per non parlare poi dei contenuti.

Tante volte, soprattutto quando mi pesa l’impegno di dirigere il periodico, di seguire la stampa e la sua distribuzione, appoggiandosi tutto l’apparato redazionale, di stampa e di diffusione su supporti di carattere artigianale, e portato avanti solamente da volontari, sarei tentato, tenendo conto dell’età e degli acciacchi, di chiudere. Poi, di fronte a questa crescente richiesta e alle tantissime manifestazioni di gradimento, mi parrebbe quasi di tradire queste attese dei miei concittadini, spegnendo una voce che ormai raggiunge, ogni settimana, migliaia e migliaia di persone che pare leggano tanto volentieri e con profitto questo messaggio semplice ed onesto.

Quando, quasi sette anni fa, lasciata la parrocchia, mi sono ritrovato solo soletto nel mio quartierino del Centro, ho avvertito quanto mai acuta la mancanza del dialogo con la gente, dialogo che per quasi mezzo secolo ho avuto intenso e leale con i mestrini. Allora pensai di sostituire il rapporto diretto e personale “inventandomi” il giornale e soprattutto “il diario”, che partendo dai valori del Vangelo, poteva darmi la possibilità di offrire una catechesi spicciola, un messaggio, almeno una preevangelizzazione.

M’è andata dritta! E la cosa funziona ormai da sette anni, settimana dopo settimana. Ho continuato, nonostante le innumerevoli critiche, le invidiuzze ecclesiastiche, i dissensi che spesso mi hanno amareggiato e ferito.

Comunque, avere a più di ottant’anni, un’assemblea più numerosa della gente che alla domenica affolla un grande campo di calcio, che mi ascolta volentieri e partecipa alla mia ricerca appassionata di verità e di solidarietà, mediante il settimanale, mi ripaga più che abbondantemente e mi spinge a dire ai miei colleghi: «Coraggio, anche oggi è possibile portare avanti la inebriante avventura del Vangelo».

Il buon Dio scrive dritto anche sulle righe storte dall’uomo!

I proverbi contengono tutti almeno una parte di verità; essi infatti rappresentano il buon senso della gente.

Ho letto molti anni fa un proverbio del popolo spagnolo: “Il Signore scrive dritto anche quando le righe sono storte”. Sono ritornato, per associazione di idee, a questa sentenza popolare in occasione dell’opposizione del parroco di viale don Sturzo e di un gruppo di cittadini dello stesso quartiere, gruppo non so proprio quanto numeroso, ma certamente determinato, che si è opposto alla disponibilità dell’amministrazione comunale di concederci un pezzetto del parco antistante al Centro don Vecchi, per costruire una struttura pilota a favore degli anziani in perdita di autonomia.

Non sono riuscito a comprendere la validità dei motivi di questa opposizione, se non rifacendomi a certe mode attuali d’ordine sociale che perseguono certi miti e finiscono per crearsi degli idoli poveri e meschinelli. La zona del viale don Sturzo, anche per il fatto che si sviluppa ai confini della città, quindi in margine alla campagna, di verde ne ha in abbondanza.

Comunque, per non creare beghe e liti che turbano la pace pubblica e danno scandalo alle menti semplici e ingenue, don Gianni, il nuovo giovane presidente della Fondazione dei Centri don Vecchi, non ha insistito presso l’amministrazione comunale e dopo aver fatto proposte intelligenti e generose al parroco e al cosiddetto “comitato”, ha rinunciato, senza minacciare rivalse, anzi dicendosi disponibile a favorire anche gli anziani della zona, come la Fondazione Carpinetum ha già fatto finora.

All’atteggiamento morbido e comprensivo della Fondazione, l’assessore Micelli ha fatto una proposta alternativa, che io giudico quanto mai intelligente e vantaggiosa.

L'”assessore tecnico”, non condizionato da prospettive elettorali, ci ha offerto un vasto terreno, già attrezzato con parcheggio e con tutti i servizi di urbanizzazione primaria e secondaria, alla periferia di Mestre denominata “Arzeroni”.

In quell’area, ora marginale alla città, ma che molto probabilmente in un prossimo futuro sarà migliorata dal fatto che la città non può estendersi se non in quella direzione, potremo impostare un progetto di più largo respiro che può prevedere anche altre strutture di servizio e socialmente non solo utili ma necessarie.

Il Manzoni, saggio e cristiano, se dovesse scrivere la storia di questa vicenda, farebbe dire al suo protagonista, Renzo Tramaglino: «La c’è la Provvidenza!» Io non posso che dargli ragione constatando che il buon Dio “ha scritto dritto anche sulle righe storte”, però a chi ha storto le righe rimane la responsabilità di averlo fatto.

Una diversa lettura della preghiera umana a Dio

Io sono fortunato anche da questo lato, perché gli amici, leggendo le riflessioni vagabonde ed irrequiete del mio diario, mi regalano, abbastanza frequentemente, dei volumi che alimentano la mia appassionata ed insaziabile sete di “verità”.

Gli amici sanno di certo dei miei rapporti altalenanti tra stima e rifiuto della teologia del nostro tempo: lo espressi chiaramente quando parlai di Adriana Zarri, l’eremita appassionata di Dio e della libertà, morta lo scorso anno.

Ho dedicato più di un intervento de “L’incontro” al pensiero e alle scelte di questa donna intelligente, innamorata di Dio, ma nel contempo, “cane sciolto”, libera e critica nei riguardi di tutto l’apparato ecclesiastico, spesso artificioso e soffocante.

Lo scorso anno ho letto con interesse l’ultimo suo volume, che porta un titolo stuzzicante ed non emblematico: “L’eremo non è un guscio di lumaca”. Recentemente, invece, ho pure letto un lungo articolo su “Vita pastorale”, dedicato a questa donna ricca di spiritualità, ma guardata con sospetto, e talora con rifiuto, dai “cristiani benpensanti”.

Pensavo di aver chiuso con questa intellettuale dello spirito, ma un amico di data recente m’ha regalato un volumetto veramente interessante, uscito recentemente, dal titolo: “Tutto è grazia”. Il volume riporta l’ultima intervista di questa feconda scrittrice a Domenico Budali. Questo testo ha certamente il merito di essere discorsivo e quindi più scorrevole dell’ultimo volume, estremamente concettuale e puntiglioso nella ricerca del divino nella vita.

Appena ho intrapreso la lettura, ho cominciato subito a sottolineare dei passaggi che aprivano alla mia anima spiragli di luce, che mi offrivano visioni spirituali quanto mai interessanti.

Desidero far dono ai miei amici di un passaggio, ma credo che sentirò il desiderio di tornarvi ancora.

A proposito della preghiera la Zarri afferma: “Essa non serve a Dio, ma a noi. Così la festa non è fatta per Iddio, è fatta per noi; i comandamenti non sono fatti per Iddio, sono fatti per noi. Pregare quindi non è qualcosa per `far felice il Signore’, ma è un tentativo di conversione personale, il tentativo di cambiar mente e modo di pensare, d’essere più lucidi e sereni”. Ed ancora insiste su questo argomento: “Quando chiediamo qualcosa al Signore, ci è sempre dato, anche se non c’è dato quello che a noi sembra cosa giusta”.

La preghiera, vista da questa angolazione, è quindi tutt’altra cosa che presentare in modo superficiale una lista di richieste di dubbia utilità.

Questa lettura del pregare non è cosa proprio di poco conto.

Resurrezione della natura!

Negli Stati Uniti, Paese all’avanguardia come democrazia, progresso civile e vita sociale, vige ancora, purtroppo, la pena di morte. I radicali, con una notevole campagna di sensibilizzazione, sono riusciti a far firmare a più di un centinaio di Stati sovrani, una convenzione per l’abolizione della pena di morte. Gli americani, purtroppo, sono uno tra i pochi grandi Paesi che non vi hanno aderito. Questa è una grossa macchia nera nella vita civica di questo popolo.

Ricordo, una decina di anni fa, che un certo Cesman, che aveva commesso un grave delitto, fu condannato a morte e i mass-media descrissero in maniera minuziosa le ultime ore di questo condannato. Ricordo di aver partecipato, col fiato sospeso, agli ultimi tentativi, risultati inutili, per salvarlo. Il boia di Stato lo ammazzò con una iniezione letale.

La descrizione fu tanto puntuale da coinvolgermi fino in fondo in questo dramma; mi sembrava di partecipare all’attesa spasmodica con cui il condannato aveva vissuto ogni minuto, ogni sensazione ed ogni possibilità di percepire il respiro della vita.

Ebbene, lo scorso anno, percependo fino in fondo il passare degli anni, la vecchiaia e il tempo del prossimo “passaggio”, ho vissuto con tanta avidità la primavera, pensando che forse sarebbe stata una delle ultime volte che avrei potuto godere della bellezza soave ed inebriante di questa stagione dolcissime ed incantata.

Ho guardato con passione il prato che ha cominciato pian piano a rinverdire, le prime gemme sugli alberi, le miti e care margherite del prato, i fiorellini di un celeste delicato e gentile, mi sono incantato di fronte al volteggiare agile e flessuoso della danza degli uccelli nel cielo azzurro, ho assaporato il tepore del sole luminoso, ho scrutato la vita che cominciava a germogliare nei prati del “don Vecchi”, la mimosa gialla in fiore, le pensé che han cominciato ad offrire le corolle dai colori intensi e ricchi come la tavolozza di un pittore, i duemila tulipani che sono usciti coraggiosi dalla terra e di giorno in giorno s’affrettano a dipingere le aiuole dei loro fiori che sbocciano su uno stelo sottile.
Com’è bella primavera!

Dal primo mattino fino al tramonto dei giorni che si allungano sempre più, non faccio che inebriarmi di questa resurrezione della natura. E’ da tanto che ho voglia di primavera! E’ da tanto che sogno ad occhi aperti nella speranza che sia primavera per tutti gli uomini e le donne, per i vecchi e per i bambini, per la società, per la Chiesa e il mondo intero. La mia bramosia di bellezza, di vita nuova, di tepore e di colore si fa certamente intensa perché cosciente di vivere, nel migliore dei casi, le ultime primavere della mia esistenza.

Mi viene da ripetere con sant’Agostino: “Tardi, Signore, ho scoperto il Tuo sorriso e la Tua benevolenza nella dolcezza della natura”.

Cristo è il punto fermo della nostra vita che può salvare da paura e disperazione

La Chiesa ripresenta, giustamente, ogni anno certi episodi della vita di Cristo. Quando si avvicina questo appuntamento mi preoccupo un po’ più del solito pensando d’aver detto tutto su “quel certo argomento” e temo tanto di ripetermi e soprattutto di annoiare i fedeli con discorsi scontati. In realtà poi mi si presenta ogni anno qualche aspetto, qualcosa che mi pare del tutto nuovo, vero e ricco di fascino.

Così è avvenuto anche quest’anno in occasione della seconda domenica di Quaresima, nella quale la liturgia offre ai fedeli il “mistero”, ossia l’episodio della trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor. L’evento, tratto quest’anno dal Vangelo di Marco, è conosciutissimo. Gesù accompagna i suoi discepoli in un luogo di montagna ricco di silenzio, di maestà, di suggestione e di intimità e appare ai loro occhi in tutta la ricchezza e lo splendore della sua persona. Io confesso che non sento il bisogno di scomodare il miracolo o il portento, credo che invece questi uomini, abituati ad ascoltare Gesù e a vederlo nella monotonia pur sempre diversa del quotidiano, in quell’ambiente particolare scoprano tutta la ricchezza umana e spirituale del loro Maestro, ne rimangano affascinati ed incantati.

Gesù sapeva che essi avrebbero avuto assoluto bisogno di aver presente nella memoria questa immagine stupenda e trionfale, quando l’avrebbero visto umiliato, condotto come uno schiavo al patibolo e morire tra tremendi dolori in solitudine, abbandonato da tutti.

Ho detto alla mia gente che tutti abbiano questo assoluto bisogno di avere, dentro di noi, un punto fermo illuminante e sfolgorante, che regga di fronte alla malattia, all’insuccesso e alla prospettiva della morte.

Proprio in quello stesso giorno una giovane professionista, sola con una figlia ed un marito inaffidabile, mi raccontò la sua angoscia di fronte all’asportazione di un tumore. Quella donna, come me e come tutti, aveva bisogno di aggrapparsi ad un appiglio che reggesse, mentre attorno a sé vedeva soltanto fragilità, disinteresse ed indifferenza.

Durante l’omelia ricordai un episodio del celebre alpinista Cesare Maestri, che raccontò come, sorpreso da una bufera, sul far della sera, in parete, non ebbe altra scelta che piantare un chiodo sulla roccia a cui appese la sua amaca in attesa del mattino. La sua vita era legata a quel chiodo, sotto di lui uno strapiombo di quattrocento metri. Guai se quel chiodo non avesse retto!

La “bufera” della malattia, della morte, dell’insuccesso, prima o poi colpisce ognuno, solamente una fiducia ed un abbandono assoluto in Cristo, Figlio di Dio, conosciuto, amato con intensità in momenti particolarmente forti della nostra vita, può salvarci dal “baratro” della paura e della disperazione.

Non finirò mai di ringraziare il Signore che mi permette di parlare a tanti fedeli tramite L’Incontro!

In questi giorni il vecchio ed unico rilegatore della città mi ha telefonato per dirmi che i volumi de “L’incontro” erano pronti. Sono corso in via Monte san Michele, ove ha sede la “Rilegatoria Vittoria” a prendere l’annata 2011 de “L’incontro” e di altri periodici.

Ho trovato il mio vecchio amico dei primi anni del seminario in mezzo ad un mare di volumi in attesa di essere rilegati; mi sembrò Mastro Geppetto: sereno, sorridente, cordiale. Gli artigiani sono gente meravigliosa, peccato che stiano scomparendo.

Abbiamo fatto quattro chiacchiere; era già al corrente delle poche righe con le quali avevo narrato la “scoperta” della sua rilegatoria, unica a Mestre, e del suo simpatico ed attivo gestore.

Ho capito che “L’incontro” per dritto o per rovescio entra un po’ dappertutto.

Mi venne da pensare a san Filippo Neri che diede come penitenza ad una sua parrochiana eccessivamente chiacchierona, di percorrere le vie di Roma spennando una gallina, e poi di tornare a riprendere le piume portate ovunque dal vento.

Ho provato un po’ di paura al pensiero di tante mie riflessioni che si spargono fatalmente per ogni dove, anche dove meno mi possa immaginare. M’è venuto spontaneo rivolgermi al mio angelo custode perché mi aiuti a seminare buon seme e non zizzania.

Tornato a casa, ho cominciato a sfogliare con curiosità e nostalgia le 624 facciate piene di pensieri e di notizie, poi ho riposto il volume accanto agli altri. Con un pizzico di orgoglio e di vanità ho osservato la mia “Treccani”, ringraziando Dio che mi permette ogni settimana di parlare a decine di migliaia di concittadini.

Quando alla domenica rivolgo la parola alla bellissima assemblea di fedeli che ogni settimana gremisce la mia chiesa, intima e calda come una baita di montagna, tremo per la responsabilità di offrire il bene prezioso del messaggio di Gesù, e prego il buon Dio che la cornice con cui la offro sia la più bella possibile, però ogni lunedì, quando vedo la pila di oltre un metro e mezzo di fogli de “L’incontro” appena stampati, temo che dovrò pregare ancora di più perché essi possano offrire un messaggio e rendere viva ed attuale la proposta cristiana.

Non finirò mai di ringraziare il Signore che mi permette, a 83 anni di età, di parlare settimanalmente a tanti fedeli quanti ne può contenere almeno un grande stadio olimpico.

Un messaggio che ha fatto centro!

Ogni settimana impiego qualche tempo a scegliere la foto per la copertina de “L’incontro”. M’è stato detto che l’appetibilità di un periodico dipende molto anche dalla copertina. Io che non posso permettermi il colore e che sempre debbo “rubare” le immagini dalla stampa che mi arriva, credo di avere qualche difficoltà in più degli altri in questa scelta. Normalmente punto sui primi piani e tento di scegliere immagini accattivanti, poi, con la didascalia, rendo più efficace ed incisivo il messaggio che tento di passare ai lettori.

Sono convinto che la copertina non solamente renda appetibile il periodico, ma spero anche che essa riesca a passare il messaggio sempre positivo che le affido.

Da qualche settimana la tiratura de “L’incontro” è aumentata di 150 copie per ogni numero. Può darsi che il tempo più mite induca la gente ad uscire di casa e quasi ad imbattersi nel nostro periodico. Qualcuno lo prenderà per vedere che cosa pensano questo vecchio prete, sempre libero e tagliente, e la sua squadretta fedele della redazione. Credo però che qualche copertina indovinata abbia fatto lievitare la richiesta e quindi la tiratura.

Qualche settimana fa ho pubblicato una bella foto di don Gianni, il giovane parroco di Carpenedo e nuovo presidente della Fondazione. La foto sprizzava coraggio, intraprendenza, decisione e passione. Ho tanto sperato che questa foto giovanile facesse passare l’idea che La Chiesa ha ancora tante risorse, può disporre ancora di giovani preti coraggiosi, che guardano al domani con fiducia e accettano la sfida delle forze del nichilismo, della rassegnazione e della sfiducia, sicuri della validità del messaggio di cui sono latori.

Se considero la rapidità con cui il periodico si è diffuso, debbo concludere che ho fatto centro. Infatti alla mattina della domenica non c’era più una copia che si potesse recuperare, neanche a pagarla a peso d’oro!

Sono felice che la gente accolga favorevolmente i messaggi di speranza e di fiducia, ne ha bisogno veramente. E la comunità cristiana ne ha una riserva ricca, basta che non li vesta di vecchiume e di scontato, ma li presenti in tutta la loro freschezza, cosa che io mi riprometto di fare.

L’influenza è arrivata anche qui

Lo scorso anno c’è stata un’enorme campagna pubblicitaria a riguardo dell’influenza. I magazzini delle farmacie si sono intasati di milioni di dosi di vaccino antinfluenzale, dosi costate quanto mai, ma che rimasero inutilizzate perché, praticamente, passò la stagione pericolosa senza che succedesse alcunché.

Come capita sempre, quando gli allarmi reiterati si dimostrano superflui ed inutili, la gente finisce per non crederci più e per prendersela comoda. La vecchia storia de “il lupo, il lupo!” si dimostra ancora una volta vera. Così, o per l’eccessivo allarmismo dello scorso anno, o per la sfiducia in questi farmaci, al “don Vecchi” quest’anno molti anziani, me compreso, hanno rinunciato a farsi il vaccino, sperando di passarla liscia come lo scorso anno.

Invece no! A metà febbraio arrivò l’influenza ed arrivò quella veramente tosta, con febbre prolungata, stanchezza, tosse e mal di gola. Al “don Vecchi” l’influenza cominciò come il temporale del film “Bambi” di Walt Disney, una goccia qui, una goccia là, finché essa si trasformò in un diluvio che mise a letto la metà della popolazione del borgo degli anziani.

Suor Teresa mi portava ogni mattina il bollettino: la Norma del 77 ha la febbre a 38, la Pina del 102 s’è messa a letto con un febbrone da cavallo, e via di questo passo, finché un brutto mattino fui io a dirle: «Ho mal di gola e la febbre».

Venne la dottoressa e mi confermò l’epidemia: tantissima gente era a letto con tosse, febbre insistente e mal di gola. Per associazione di idee mi venne in mente la peste di Milano descritta dal Manzoni, poi quella di Camus, col relativo cordone sanitario attorno alla città, e il dialogo serrato tra il sacerdote portatore di speranza e il medico lucido e razionale che affermava che a Orano la peste avrebbe potuto essere anche debellata, provvisoriamente, ma nei meandri della città, ove si rifugiano i germi del male, prima o poi essi si sarebbero fatti vivi, cosicché l’uomo era condannato fatalmente alla morte. Il discorso pacato di questo pensatore del nord Africa, ma di cultura occidentale, m’ha fatto sempre pensare e mi ha anche portato un certo pessimismo.

Poi mi è venuto in mente il gruppo marmoreo sovrastante l’altare della basilica della Madonna della Salute, chiesa in cui si è consolidata la mia fede e la mia vocazione, dove si vede la bella Venezia supplice, inginocchiata ai piedi della Vergine e Lei che manda gli angeli a cacciare la brutta megera della peste.

Anch’io ho affidato la mia cara comunità alla protezione della Madonna della Salute, trovando ancora una volta speranza e serenità per il domani.

Prima di tutto viene l’uomo, e soprattutto l’uomo debole e bisognoso di aiuto!

Ormai s’è voltato pagina. Per evitare diatribe con il parroco e con uno dei tanti comitati a lui collegati, che di legale non han proprio nulla se non il gusto e l’arroganza di opporsi a qualche iniziativa concreta e di rappresentare, senza mandato alcuno, “la cittadinanza”, il consiglio della Fondazione ha accettato la proposta del Comune per un terreno ai margini della città, chiamato – non so perché – degli “Arzeroni”.

Credo che la decisione sia stata saggia, non solo per evitare ulteriori polemiche, ma anche perché l’area del parco che sarebbe stata concessa era veramente angusta. Si tenterà, agli Arzeroni, di dar vita ad una struttura più capiente, per poter ospitare più anziani e dar respiro ad progetto più articolato e spazioso.

Ho letto le proposte, veramente generose, che il presidente della Fondazione, don Gianni, ha fatto al comitato “rappresentato” da un “triumvirato”, ma non c’è stato nulla da fare, il “popolo” ha detto di no, basta, non si discute, ma si deve accettare la volontà (in questo caso non si può proprio dire “popolare”) ma della borghesia, come sempre poco interessata alla sorte degli ultimi, di quelli che non hanno voce, né diritto di chiedere di essere aiutati.

Ho letto sul “Gazzettino”, le conclusioni, più che concilianti, del presidente della Fondazione, don Gianni Antoniazzi, il giovane parroco di Carpenedo che, nonostante tutto, assicura che il “don Vecchi” sarà a disposizione anche degli anziani di San Pietro Orseolo, qualora ne avessero bisogno.

Questa è la decisione del consiglio di amministrazione e del suo presidente, sulla quale non ho nulla da eccepire, della quale sono veramente ammirato e che favorirò con tutta la mia volontà. A livello personale però, e per coerenza alle scelte di tutta la mia vita, sento il dovere di affermare con forza che per me questi comportamenti non solamente non sono solidali, ma certamente incomprensibili per la parrocchia e per chi si ritiene cristiano. Prima di tutto viene l’uomo, e soprattutto l’uomo debole e bisognoso di aiuto.

Credo che la gente di Viale don Sturzo, a motivo dell’intervento di qualcuno, abbia perso una buona occasione per dimostrarsi civile ancor prima che cristiana.

Nell’articolo del Gazzettino si dice che quelli del comitato hanno affermato che stanno “sopportando” i due Centri, mentre in realtà il Centro don Vecchi è l’unica realtà positiva che c’è in Viale don Sturzo. Mezza Italia s’è interessata a questa esperienza di eccellenza che dà lustro e che tutti ci invidiano.

Tutto questo sento il dovere di affermare per dire “pane al pane” e perché ognuno si prenda le sue responsabilità.