Che fine hanno fatto gli educatori?

Un paio di settimane fa una mamma, veramente angosciata, mi ha riferito della situazione aberrante in cui suo figlio è venuto a trovarsi essendosi iscritto ad un istituto superiore del nostro Comune.

Il ragazzo, che io ho conosciuto in parrocchia da bambino, è un bravo ragazzo abbastanza timido, mite e buono. Ha scelto l’indirizzo scolastico che maggiormente gli si confaceva in rapporto alle sue risorse, però s’è venuto a trovare in un’autentica bolgia di scalmanati, giovani senza valori, violenti, razzisti, attaccabrighe, sguaiati ed indisciplinati all’ennesima potenza, che lo minacciavano avvertendo che era diverso da loro perché compìto ed educato.

La madre, che è una signora intelligente, una professionista affermata, s’è resa conto dell’estremo disagio in cui il ragazzo viveva, ha tentato di interpellare gli insegnanti e il preside relativo, trovandosi però davanti passività, impotenza ed ignavia, persone prive del senso di responsabilità. Quando poi a questa madre venne in mente di consultare internet, ove alcuni componenti gestivano un sito inerente alla classe, si trovò di fronte a una vera desolazione civile ed umana: volgarità di ogni genere, bestemmie, sesso, invettive contro gli insegnanti, deliri razzisti e rivoluzionari.

Credo che fenomeni del genere siano assai diffusi nelle scuole statali. Sono anni che i mass-media informano su fenomeni di bullismo violenti e volgari. Stiamo raccogliendo i frutti della contestazione che ha prodotto una generazione di insegnanti senza principi.

I cattivi maestri della politica e le campagne radicali per promuovere la tolleranza della droga, il permissivismo sessuale che introduce perfino nella scuola i preservativi e le rubriche squallide della televisione, hanno fatto il resto.

Questa sarebbe la scuola che dovrebbe non solamente fornire nozioni scientifiche necessarie per la vita, ma anche educare i giovani ad avere comportamenti almeno rispettosi della costituzione, la scuola che molti partiti difendono e propongono per la formazione delle nuove generazioni di cittadini?

Nella immoralità e nel disordine non s’è mai costruito nulla di positivo. Quello però che mi turba più di tutto è il fatto che siano scomparsi gli educatori, i responsabili, ossia coloro che un tempo si chiamavano i capi, che han la funzione di guidare ed educare ad una sana disciplina, ad un senso civico e ad una condotta morale che sono i supporti di ogni professionalità seria e costruttrice. Oggi pare che quasi più nessuno abbia il coraggio e si assuma la responsabilità di fare il capo, di far osservare ad ogni costo le regole che sono l’elemento fondamentale per una vita degna e civile. Oggi passi davanti a una scuola e già le mura, imbrattate da disegni stupidi e deturpanti, ti danno la misura di ciò che c’è dentro a quella scuola.

Per mezzo secolo ho gestito patronati, case per le vacanze di ragazzi e giovani, ma mai qualcuno s’è permesso di imbrattare i muri o essere volgare, semplicemente perché mai e poi mai glielo avrei permesso!

Quando ero in parrocchia mi accusavano di pretendere fin troppo il buon gusto, l’ordine e la disciplina. Fin quando genitori, insegnanti – mettiamoci dentro anche parroci e vescovi – prefetti, sindacati e magistrati, capi della polizia non prenderanno coscienza del loro ruolo di capi e non faranno rispettare le regole, non avremo mai una nazione seria, laboriosa ed una convivenza civile serena.

“Chi semina nel pianto raccoglie nella gioia”

Qualche settimana fa me ne stavo solo soletto nella piccola sagrestia della mia “cattedrale” prefabbricata, da duecentocinquantamila euro, quando una signora, dall’apparenza ancor giovane, è entrata, dato che la porta era aperta. Pensavo che volesse ordinare una messa per i suoi defunti, invece mi disse che era passata solamente per salutarmi.

Mi capitano di frequente queste visite impreviste ed inaspettate di persone che l’atmosfera del cimitero spinge ad entrare in chiesa e sentire il bisogno di parlare con un sacerdote.

Fin dall’inizio del dialogo ebbi l’impressione che mi conoscesse bene perché parlava con un tono confidenziale. Pian piano compresi che ella mi aveva incontrato più di mezzo secolo fa. Disse di avermi conosciuto nella chiesetta di via Torre Belfredo e, sorridendo, soggiunse che aveva settant’otto anni.
Volli conoscere questa donna.

Il lontano ricordo del giovane prete di allora s’era coniugato con la lettura del mio diario, perciò mi sentiva come un prete amico a cui poter confidare le proprie vicissitudini.

Ella da giovane apparteneva ad un gruppo di ragazze poco più che adolescenti che si incontravano nella casa di riposo e che avevano come assistente spirituale un vecchio prete, un certo don Giovanni. Era un prete di poche risorse intellettuali, ma di grande fede. Lei se lo ricordava con tanto affetto e stima.

Ricordammo assieme una massima che ripeteva come il fondatore dell’ordine religioso che prese il nome dagli inviti che rivolgeva ad ogni occasione: “Fate bene, fratelli!”. Così il prete della Salute di mezzo secolo fa era invece noto, perché ogni discorso era inframmezzato da queste parole: “Bisogna diventare santi, grandi santi, presto santi!”.

Non so se la mia interlocutrice, provata dalla vita, specie per la salute quanto mai precaria di una sua figlia, sia diventata santa, comunque quel monito ho avuto l’impressione che sia rimasto un punto fermo al quale s’aggrappava nelle sue difficoltà.

Mi disse che le erano di conforto “Le confessioni di un ottuagenario”, che lei ravvisava nei miei scritti. «Mi danno serenità – diceva – mi aiutano, mi pare di sentirla vicina e mi incoraggiano quando sono disperata».

Chiacchierammo per una buona mezz’ora, prima del passato in via Spalti, quando c’erano le suore e le orfanelle, poi del suo presente, ancora più difficile. Mi salutò con tanto affetto, commossa, rinnovata da questo incontro più che amichevole, fraterno. Una volta ancora compresi che bisogna sempre seminare, con fiducia, ricordando il salmo che afferma che “chi semina nel pianto raccoglie nella gioia”.

Penso che anche don Giovanni, il vecchio prete della Salute, sarà stato contento dell’incontro di questa sua “ragazza” col vecchio prete di oggi, ancora convinto che non bisogna mai lesinare nella semina.

La “Biennale di arte sacra” al don Vecchi di Marghera

E’ riuscita la prima edizione della “Biennale di arte sacra” presso la galleria del Centro don Vecchi di Marghera, come sempre, però m’ha fatto penare; non è una novità, io temo sempre per la riuscita delle mie “imprese”.

Inizialmente la risposta degli artisti tardava, s’avvicinava il termine per la presentazione e il numero delle opere pervenute era ancora assai scarso. Sennonché per la data fissata, arrivarono più di sessanta dipinti, molti dei quali di un certo pregio artistico, tanto che siamo convinti che l’iniziativa sia totalmente riuscita.

Il prof. Giulio Gasparotti, che è il decano dei critici del Veneto, assistito dalla dottoressa Cinzia Antonello, laureata in arte, hanno valutato attentamente i dipinti pervenuti, scegliendone 30 per la mostra, premiandone cinque e segnalandone altri cinque come meritevoli di particolare attenzione.

La Biennale l’ho fortemente voluta e l’ho voluta per motivi pastorali e più ancora per motivi religiosi. Ormai il discorso sulla teologia della bellezza si sta rapidamente diffondendo. Iddio si manifesta ed è anche facilmente riconoscibile ed adorabile attraverso l’armonia e la bellezza. Il bello diventa non solamente l’ostensorio di Dio, ma anche la sua diretta manifestazione.

Mi sono impegnato per questa biennale d’arte sacra perché solo gli artisti d’oggi possono dare al sacro, un volto comprensibile e rispondente alle attese dell’uomo del nostro tempo.

Il tema della mostra è stato “Maria di Nazaret”. Ho sempre ritenuto che la Madonna, che vive in cielo e accanto a noi, non la dobbiamo vestire con gli abiti di tre, quattro secoli fa, e non possiamo immaginarla con un tipo di bellezza legato al cinquecento o al settecento.

Terzo, e non ultimo, motivo è stato quello che come ci dovrebbe essere una pastorale del mondo del lavoro, del turismo o dell’agricoltura, così, a maggior ragione, dovrebbe essere posta in atto anche una pastorale specifica per il mondo dell’arte.

Chi ci pensa oggi a questo mondo così interessante, intelligente e sensibile, un mondo che ci può offrire la sovrana bellezza dei colori e delle forme?

Tornando in macchina per accompagnare il dottor Gasparotti a casa, abbiamo rievocato tante bellissime esperienze fatte assieme in questo settore, le amicizie nate con i migliori artisti della nostra città in questo scorcio di secolo.

Mi addolora e mi riempie di malinconia non essere stato capace di trasmettere a nessuno dei giovani preti la consapevolezza che anche l’arte gioca un suo ruolo nel salvare l’uomo dalla volgarità, dalla meschinità e dal pericolo del brutto. Spero che qualcuno raccolga questa esperienza della Biennale che può offrire la possibilità di cucire lo strappo avvenuto fra arte e fede.

I miei vecchi amici

I miei amici sono ormai sparsi ovunque, alcuni non li incontro da molti anni, altri mi capita di vederli nelle occasioni più disparate, una cerchia più ristretta invece mi è più vicina perché condivido con loro le vicende della mia vita. Tutti però li porto ugualmente nel cuore, per tutti chiedo ogni giorno al Signore che sia loro accanto e li protegga, anche se ho ormai dimenticato molti dei loro nomi e dei loro volti, poiché la mia memoria si confonde sempre più e il passato assume quel grigiore proprio delle nebbie autunnali della nostra laguna.

Quando ero giovane prete, a san Lorenzo, m’ero creato uno schedario col nome, l’indirizzo dei miei ragazzi ed ogni tanto lo sfogliavo, preoccupato che non avessero a perdersi, tanto che quando mi accorgevo che qualcuno si allontanava verso centri di interesse o compagnie diverse dalla comunità, intervenivo con una telefonata o una lettera.

Penso di aver sempre tenuto conto dell’ansia di Gesù che tutti fossero al sicuro nel gregge. Poi ho smesso perché la scuola e la parrocchia mi facevano incontrare un numero così consistente di “anime” che mi ci sarebbe voluta la Treccani per segnare tanti nomi e tante vite. Allora non era ancora nato il computer! Oggi però ho ancora un piccolo gruppo di amici che incontro più volte al giorno.

Raissa Maritaine ha scritto quel suo splendido volume sui suoi “grandi amici”: il marito, Leon Blois, Peghyi, Berxon ed altri ancora, quella schiera di intellettuali cristiani d’oltralpe vissuti a metà del secolo scorso, che tanto hanno influito sulla mia formazione spirituale.

Nella mia attuale grande “parrocchia”, in cui riposano decine di migliaia di concittadini in attesa della “resurrezione dei corpi”, ho la fortuna e l’opportunità di incontrare assai di frequente, accanto alla stradicciola che porta alla vecchia cappella, mons. Vecchi, prima mio insegnante di filosofia e di arte e poi mio parroco. Quanti sogni, quante discussioni appassionate fatte in tanti anni di vita vissuti intensamente assieme. Mi pare di rivederlo ritratto davanti all’isola di San Giorgio mentre guarda al futuro come Cristoforo Colombo verso il mondo nuovo, mentre sulla sua lapide ora gli angeli di bronzo di Gianni Aricò non cessano di suonare le loro trombe di bronzo verso il cielo.

Un po’ più in là don Giuseppe Fedalto, il mio compagno di banco. Con lui abbiamo trescato assieme per la traduzioni di latino o greco.

Sulla stradina che porta a nord è sepolto monsignor Visentin, il vicedirettore, vicario generale e poi aiutante di campo di monsignor Vecchi. Monsignor Visentin l’ho sempre pensato come “il cancelliere di ferro”, l’esecutore fedele dei superiori che eseguiva a testa bassa e senza discussioni la volontà dei capi.

Una decina di metri dopo c’è don Giorgio Busso, il prete ottimista e sempre sorridente che nei peggiori anni della contestazione ha cercato col lumicino, in tutta la diocesi “i chiamati del Signore” e poi fu il parroco che rubò letteralmente il cuore ai parrocchiani del mio paese natio.

Più discosto don Giancarlo Bonaldo. Quanto abbiamo duellato, a san Lorenzo, lui per far prevalere l’azione cattolica ed io gli scout!

Abbastanza vicino alla vecchia chiesa mons. Mutto, il vecchio parroco di Carpenedo. Un po’ più in là don Cristiano Colledan, il giovane prete che affrontò il cancro con coraggio e passò serenamente all’altra sponda.

Questi “vecchi amici” mi fanno tanta compagnia, mi aiutano, mi consolano e so che mi attendono presto. Son tanto grato di poter contare sul loro quotidiano incontro perché ognuno di loro ha sempre qualcosa di specifico da darmi.

“Libero e fedele”

Il responsabile di un’altra chiesa ha detto molto chiaramente ad una zelante nuova collaboratrice che non permetteva che portasse “L’incontro” nella “sua” chiesa.

Non sono riuscito a capire il perché, in quanto il suo predecessore, ad una mia richiesta, aveva acconsentito con entusiasmo, anche perché poi questo reverendo s’è lasciato scappare un apprezzamento positivo nei riguardi del nostro periodico.

La cosa mi è spiaciuta alquanto, pur sapendo che le mie prese di posizione – che, ripeto ancora una volta, nascono sempre dal vero amore che nutro per la fede cristiana e per la nostra comunità – possono essere talvolta graffianti. Ognuno però ha il suo modo di parlare e un periodico può offrire un messaggio solamente se riesce a farsi leggere. Fortunatamente “L’incontro” si fa leggere. Se non fosse così non aumenteremmo la tiratura di cento copie la settimana.

Nell’amarezza c’è stato anche un rovescio della medaglia assai positivo. La zelante collaboratrice non s’è persa d’animo ma, lo stesso giorno, ha “conquistato” altre due o tre postazioni collocando subito 100 copie in sostituzione delle 20 rifiutate e le ha collocate in negozi e pasticcerie.

Debbo dire che da sempre preferisco luoghi di distribuzione “laici”, ossia luoghi frequentati non solamente dai “devoti”, ma soprattutto dalla gente comune, molta della quale frequenta poco la chiesa. Ho sempre sognato di riuscire a parlare ai “gentili”, perché per i “figli di Israele” ci sono fin troppi preti a tener sermoni!

“L’incidente” che, ripeto, mi ha fatto male, ha rafforzato la mia scelta di mandare “L’Incontro” fin da subito al nuovo Patriarca, non certo nella speranza che egli abbia tempo da perdere con questo periodico senza pretese, o che mi faccia monsignore, ma, semmai, perché qualche suo collaboratore possa segnalargli argomenti o pensieri che egli crede non opportuni.

Da sempre ho rivendicato l’autonomia su tutto ciò che è opinabile, ma non vorrei per nessun motivo al mondo fare qualcosa che fosse nocivo alla comunità cristiana e che non fosse ritenuto opportuno dal mio vescovo, così come ho sempre fatto in passato. Difatti ogni settimana la prima copia de “L’incontro” l’ho inviata al Cardinal Scola, e così farò oggi e domani col nuovo Patriarca, volendomi rifare, come sempre, alla scelta di don Primo Mazzolari, mio maestro di vita: “Liberi e fedeli!”.

Riflessioni sulla cerimonia d’ingresso del nuovo Patriarca

Mi è molto spiaciuto non poter seguire alla televisione l’ingresso del Patriarca. Premetto che io sono rimasto, nonostante il passare dei decenni, quello che un tempo ha scritto, facendo arricciare il naso alla curia, che sognavo che il Patriarca di allora facesse l’ingresso in “Cinquecento” e non accettasse il presentatarm dei soldati, quello che ha pure suggerito al vescovo ausiliare, monsignor Olivotti, di non andare in “Mercedes”, perché dava scandalo.

Comunque mi sarebbe piaciuto assistere a tutta la trasmissione dell’ingresso, che Venezia trasforma sempre in sogno, poesia e favola e riempirmi, una volta tanto, l’animo di bellezza. L’avrei tanto gradito, ma purtroppo, come dicevo, non ho potuto seguire tutta la trasmissione.

Non imputo niente al nostro nuovo Vescovo perché lui, per certi aspetti, ha dovuto recitare la parte che gli è stata assegnata (d’ora in poi però sarà lui responsabile dello stile e delle sue scelte personali). Anzi sento il dovere di confessare che l’ho compianto ed ammirato per essersi sottoposto a due giornate massacranti, nel senso pieno della parola.

Ridico una volta ancora, che io rimango ipersensibile ad ogni evento religioso che arrischi di collocare la fede nel limbo del rito, peggio ancora, del folklore. Comunque, una volta tanto, credo che possiamo fare delle eccezioni recuperando tutto il positivo che c’è stato in questo evento.

Debbo aggiungere un particolare che di certo sarà di conforto al nuovo vescovo. Nelle carrellate di Telechiara sulla cerimonia, alle quali ho potuto assistere, ho visto una fila veramente lunga di sacerdoti che han voluto e potuto testimoniare accoglienza e disponibilità a diventare collaboratori generosi e fedeli del successore dell’apostolo San Marco. Non so dire se sia stato l’angelo buono al quale il Signore mi ha affidato fin dalla nascita, o quello cattivo che mi tormenta da mane a sera come un moscone insistente ed importuno, so che mi ha suggerito: “Se un’azienda potesse contare su duecento operatori, preparati e motivati e discretamente pagati, quanto sarebbe efficiente e quanto produrrebbe?” La domanda però non è del tutto ingenua, perché quell’angelo sa che io purtroppo mi aspetterei molto di più dal clero di cui io sono parte.

Talvolta mi viene da pentirmi d’aver suggerito un tempo il salario garantito a tutti, non avendo previsto una clausola sulla meritocrazia.

Ora non sarò io, per fortuna, ma il nuovo Patriarca a pensare a queste cose!

La lamentazione amara e sconsolata di mio fratello don Roberto

Credo che tutti i miei concittadini sappiano che il mio fratello più piccolo è prete, pure lui, e parroco a Chirignago. Don Roberto è un “ragazzo” ormai sessantenne, bravo a scrivere e più ancora a parlare, e attualmente guida la parrocchia di Chirignago che credo sia una delle più belle comunità cristiane della nostra diocesi.

Io gli voglio bene perché è mio fratello e soprattutto è il più piccolo, mentre io sono il più vecchio dei sette fratelli. Per indole sono riservato, poco espansivo e con quasi nessuna capacità e volontà di mantenere relazioni continue. Questo è uno dei miei moltissimi limiti. Ho fatto tanti tentativi per aprirmi ai rapporti più caldi e più frequenti ma non ci sono mai riuscito.

Ora ho ottantatre anni e perciò ho rinunciato a mantenere vivo e frequente il dialogo. Non per questo non seguo con attenzione e trepidazione le vicende esistenziali e pastorali di mio fratello. Tutte le settimane leggo il suo “bollettino parrocchiale”. Il foglio di don Roberto è un bollettino sui generis, ove egli intrattiene un dialogo vivo, intenso ed appassionato con i suoi parrocchiani.

Avevo immaginato, avendo don Roberto un vivaio di bambini e di giovani veramente meraviglioso, che perciò passasse di trionfo in trionfo, ma qualche settimana fa ho letto nel suo periodico parrocchiale un trafiletto che trascrivo. Penso che sia giusto che i fedeli conoscano i drammi del prete e gli stiano accanto.

Vorrei anche dire a don Roberto che anch’io ho fatto le sue amare esperienze e ho vissuto e vivo i suoi drammi, però voglio anche dirgli che “tutto è grazia”, che nessuna fatica va perduta e che al Paradiso, come scriveva Cronin nel suo romanzo “Le chiavi del Regno” si giunge non solo per “l’autostrada” offerta dalla Chiesa, ma anche attraverso strade sterrate e tortuose e perfino per viottoli solitari ed inpervi.

Ed ecco la lamentazione amara e sconsolata di mio fratello che credo meriti di essere conosciuta.

LE PROMESSE BATTESIMALI

La scorsa settimana, e precisamente venerdì 16 Marzo, abbiamo celebrato la seconda tappa prevista per i ragazzi di 2A media in vista della Cresima: il rinnovo delle PROMESSE BATTESIMALI.

Il rito prevede che tutti i ragazzi firmino di loro pugno l’impegno di vivere secondo lo spirito delle Promesse: I fogli di pergamena su cui le firme vengono fatte non si buttano via, ma si conservano gelosamente in archivio. E così ho potuto guardare le firme degli anni passati, cominciando dal lontano 1988, quando iniziammo.

Mio Dio: un’ecatombe. Quanti nomi, quanti volti, quanti ricordi … Ho dovuto constatare che di ogni anno, su quaranta o cinquanta (talvolta anche più) ragazzi che hanno firmato, è tanto se ne sono rimasti in parrocchia due o tre. Di qualche anno non ne è rimasto nessuno. M’è venuta una tristezza…, una malinconia… uno sconforto che mi ha inumidito gli occhi. Mi son detto (era poco prima che la celebrazione cominciasse): “ma val la pena di continuare? Ha un senso?” Subito dopo è scattato l’esame di coscienza: “dove ho sbagliato?”

E dico “ho” perché tutti questi ragazzi li ho preparati io alla prima comunione. Non posso far finta di non entrarci. Cosa si poteva fare di più e di meglio per non arrivare a questi risultati?

L’esame di coscienza è continuato anche dopo, e mi ha fatto prendere sonno tardissimo.

Ma, in coscienza, ce l’ho messa tutta. E non io solo, ma in tanti ci abbiamo messo l’anima per trasmettere la fede, per indirizzare a Gesù questi ragazzi che ci venivano affidati, per fargli capire che la Chiesa è una famiglia e che ciascuno di loro vi aveva un posto ed era importante. Quante attività, quante uscite, quanti campi, quante liturgie curate, quante prediche sofferte… Tutto inutile. Il nemico è più forte e più furbo di noi. L’unica speranza è la presenza dello Spirito Santo.

Una “Messa” celebrata assieme a tutto il Creato!

Mi capita abbastanza di frequente di ritornare col pensiero alle riflessioni di Adriana Zarri, la teologa massimalista che per molti anni avevo rifiutato e dalla quale m’ero tenuto lontano perché la ritenevo esageratamente sinistrorsa e donna della fronda cattolica. Ora mi sono ravvicinato alquanto al suo pensiero, dopo la sua morte, attraverso la lettura dei suoi ultimi scritti. Sto recuperando tutto il positivo di questa donna che, se non altro, ha cercato appassionatamente in tutta la sua vita il volto bello di Dio nel Creato.

Laura Novello, la cara signora che si cura di riordinare grammatica e sintassi dei miei periodi infiniti, aggiungendo punti, virgole e quant’altro è necessario per rendere leggibile il diario, mi ha giustamente osservato che da qualche tempo ritorno con troppa frequenza su questa teologa eremita della diaspora spirituale.

La signora Laura ha sempre ragione ed io mi sforzo sinceramente di seguire i suoi saggi consigli di lettrice attenta e fedele. Però debbo confessare che spessissimo rimango influenzato dalle letture che vado facendo e che sento il desiderio di rendere partecipi i miei amici delle cose belle che scopro. Non tutti hanno il tempo e l’opportunità che io, vecchio prete in pensione, ho di spigolare il buono tra la produzione letteraria che oggi è pressoché infinita.

Ad esempio sento il desiderio di confidarvi il piacere e la delicatezza religiosa che ho scoperto leggendo l’ultimo volume “Tutto è grazia” della Zarri. Come scrissi “troppe” volte, questa teologa visse l’ultima parte della sua vita da eremita in un cascinale isolato delle colline piemontesi. Adriana non poteva partecipare all’Eucaristia quotidiana perché anziana e lontana dalla parrocchia, e perciò “celebrava” la messa nel suo eremo da sola, ossia si immergeva spiritualmente nella sublime liturgia, memoriale della Redenzione, creandosi perfino una “assemblea” di “fedeli”, coinvolgendo gli animali nella sua cascina: galline, conigli ecc., e piante in fiore. Ossia lodava il Signore assieme a tutto il Creato.

Ricordo che anche il famoso scienziato Talleirand de Chardin, mentre nelle steppe dell’Asia conduceva le sue ricerche di paleontologia, “celebrava” l’Eucaristia in totale sintonia con il Creato nella sua grandiosa complessità.

Ebbene, della “messa” di Adriana Zarri m’ha colpito un gesto quanto mai significativo, al momento del “datevi un segno di pace”: sporgeva la mano alla sua amatissima gatta, sempre partecipe al sacro rito, la quale porgeva a sua volta la sua zampetta. Infantilismo? No! La Zarri sentiva il Creato come segno dell’amore di Dio, vibrava cogliendo l’amore sconfinato del Creatore verso l’uomo.

Io non sono un “convertito” al “credo” della Zarri, però confesso ora che guardo con occhi diversi le piante, gli animali, come componenti della creazione e li sento più “amici” e molto più cari.

Le tre strade

Le tre strade

Mi sono sempre ritenuto un uomo di modeste risorse intellettuali, di scarsa cultura sia religiosa che umanistica e con pochissima capacità di offrire alle persone che mi ascoltano le verità che faticosamente vado scoprendo.

Come scrissi già, un amico, che mi rimane sconosciuto, mi ha regalato, in occasione del mio ottantatreesimo compleanno, un volume, edito da LaTerza, di don Pierluigi Piazza, dal titolo “Fuori dal tempio”. Io, confesso, sono quanto mai appassionato di scoprire l’anima dei preti, il loro impegno e il loro stile di vita sacerdotale. Nel suo volume questo sacerdote friulano intelligente, colto, attivo, libero e coraggioso, parla della sua concezione del prete, del suo apostolato e della Chiesa del nostro tempo.

Man mano che procedo nella lettura, mi pare di veder descritte lucidamente certe intuizioni che da tanti anni coltivo nella mia coscienza, e mi pare che mi si offrano orizzonti aperti, veri ed affascinanti, anche se estremamente impegnativi che io, con le mie modeste risorse, non riuscirò mai a conquistare. Queste prospettive però mi fanno bene e mi fa felice scorgere, seppur in lontananza, queste mete per me irraggiungibili.

Mi sono ritagliato la pagina che un prete, amico dell’autore, gli scrisse il giorno della sua ordinazione sacerdotale. Me la trascrivo integralmente perché voglio farne ogni giorno la traccia per il mio esame di coscienza, da sacerdote, seppure quasi fuori corso.

Scrive don Piazza:
“….non posso non ricordare un momento significativo. Il 18 ottobre 1975, fra le tante persone presenti quando sono stato ordinato prete, c’era anche don Antonio Bellina, allora parroco di una zona della montagna; dotato di intelligenza viva, di rara capacità di espressione orale e scritta, uomo e prete libero e critico. Venni a sapere della sua presenza perché ricevetti da lui una lettera, datata 19 ottobre, poi diventata pubblica, nella quale rifletteva sull’essere prete, concludendo provocatoriamente: «Hai tre strade da scegliere.

La prima è quella della verità. Presentandoti come sei, devi dare una mano al popolo a liberarsi da tutte le catene che lo tengono prigioniero. Devi farlo crescere nella libertà, camminando davanti a lui verso la terra promessa. Se scegli questa strada, ti troverai contro immancabilmente il vescovo, i preti, i politici, i padroni, i bigotti, forse anche i tuoi amici. Avrai solo il conforto di Cristo e quello della tua coscienza.

Puoi scegliere la seconda, che è quella della gran parte dei preti: non mettersi contro nessuno, fare funzioni religiose, dottrina, avvicinare coloro che sono ritenuti “poveracci’, dare ragione a tutti e non coinvolgersi con nessuno. Lasciare che la povera gente vada per la sua strada, soffra e muoia. Poi ti chiameranno per il funerale. Se scegli di non essere né pepe né sale, non avrai contro nessuno, farai solo pena.

La terza strada l’hanno scelta in molti. Fregarsene della gente e mettersi dalla parte dei potenti. Avrai soldi, amici, ti faranno monsignore, potrai mettere da parte anche qualche soldo. Avrai il potere di trovarti molto bene in questo mondo. Avrai solo qualche imbarazzo a rispondere a Colui che ti aveva inviato a fare tutto tranne queste porcherie. Come vedi, hai di che scegliere”.

Mi sto lambiccando il cervello e sto tormentando la mia coscienza nel domandarmi: “Io, quale soluzione ho scelto?”. Comunque mi butto in ginocchio, come David, per gridare al Cielo: “Miserere mei, Deus”.

Il vestito non fa il monaco, ma…

Ho ricevuto e letto a modo mio il numero del settimanale diocesano pubblicato in occasione dell’ingresso del nuovo Patriarca. Io che sono un povero “schincapenne qualunque”, mi rendo conto dell’impegno e della bravura che occorrono per realizzare un numero del periodico come quello che il piccolo staff di giornalisti di cui dispone Gente Veneta è riuscito a fare in occasione dell’ingresso di mons. Moraglia a Venezia.

Ho deciso di mandare due righe a don Sandro, direttore del settimanale, per complimentarmi con lui e con i suoi collaboratori: sono stati e sono sempre bravi!

Io non sono troppo orgoglioso di molti aspetti e strumenti e strutture della Chiesa veneziana, ma di Gente Veneta si. Il giornale, pur con non molte risorse e con una concorrenza agguerrita da parte dei quotidiani locali, sempre molto attenti alle vicende del patriarcato, ed un bacino di utenze abbastanza striminzito, riesce non solamente a stare a galla, ma ad imporsi presso i fedeli, la città e le diocesi del Veneto.

Nel numero in questione, però, ho trovato un neo, un piccolo neo che voglio far notare, perché credo che il mio amore e la mia stima verso il giornale non sarebbe autentico se non fossi franco con la redazione di Gente Veneta.

Suor Teresa, mia collaboratrice, fiorentina doc a tutti i livelli, mi ripete talvolta che “ad ogni poeta manca un verso”. Mi permetto quindi bonariamente di far osservare il verso mancante. Si dice nel giornale che la curia veneziana ha sostituito le quattro “memores Domini” a servizio del patriarca Scola con tre religiose peruviane. Io non sono troppo d’accordo che si occupino delle suore come donne di servizio: oggi c’è sovrabbondanza di donne veramente brave dell’Europa dell’Est, di cui ci si può avvalere, mentre le suore le vedrei meglio impiegate per il Regno dei Cieli. Quello però che mi ha sorpreso sfavorevolmente è stata la foto di queste tre suore. La divisa sembra uscita dal ripostiglio di un vecchio teatro: delle vesti che dovrebbero essere destinate a ben altri scopi che ad imbruttire tre care donne che Dio ha creato di certo armoniose e belle. E’ vero che “il vestito non fa il monaco”, ma è pur vero che esso può indurre ad una reazione d’istinto certamente negativa. Io mi permetterei molto umilmente di suggerire al Patriarca di dispensare le tre suore dal portare quell’orrenda divisa, almeno finché rimarranno a Venezia, patria della bellezza. Se poi proprio non possono stare senza divisa, vadano a vedere le donne carabiniere o quelle della guardia di finanza o anche le donne reclutate tra gli alpini; potrebbero trovare qualche suggerimento che mortifichi un po’ meno la loro femminilità.

Svecchiare la Chiesa potrebbe cominciare da questo aspetto tanto marginale. Comunque Gente Veneta avrebbe fatto meglio a non pubblicare le foto per permetterci di sognare le aiutanti del Patriarca ordinate, carine e di una certa eleganza, cosa che non fa mai male!

Un dibattito TV che ho seguito con interesse

Venerdì 23 marzo ho seguito alla televisione un dibattito che si è svolto nella cripta della Basilica di San Marco. Conduceva la conversazione una giornalista di Telechiara un po’ impacciata e poco padrona dell’argomento trattato, e vi partecipavano esponenti della curia veneziana, del mondo giovanile, di quello operaio ed industriale. C’erano pure il vescovo di Rovigo, il dottor Castagnaro, che recentemente ha condotto una seria inchiesta sull’orientamento della religiosità nel Nordest e l’immancabile filosofo prof. Cacciari.

La discussione ruotava attorno a questi temi: l’incontro di Aquileia, da cui pare che i cattolici del Veneto si attendano quasi una nuova redenzione, le attese nei riguardi del nuovo Patriarca e la lettura dei risultati della recente inchiesta.

La scelta della sede dell’incontro è stata quanto mai felice, per la bellezza sovrana dell’ambiente, ma soprattutto perché dava la sensazione di andare all’origine della fede degli abitanti delle terre venete.

Gli interventi sono stati quasi tutti di buona levatura, ricchi di tensioni ideali, un po’ eccessivi nell’aspettativa che il nuovo Vescovo possa risolvere problemi della Chiesa veneziana ormai atavici. Il comune denominatore che mi è parso di cogliere è stato il desiderio e la volontà, da parte della Chiesa, di accostarsi alla cultura e alla sensibilità dell’uomo contemporaneo, pochissimo partecipe del messaggio cristiano. I fedeli infatti trovano notevole difficoltà a trasmettere, a causa dell’ormai avvenuto divorzio tra gli schemi mentali e il linguaggio del nostro tempo, i valori perseguiti e gli obiettivi propri del mondo religioso e quello laico.

A me questa ammissione e questa ansia è parsa già buona cosa, ma contemporaneamente mi è venuta la preoccupazione che gli auspici rimangano quei buoni propositi che la tradizione popolare dice che lastricano il pavimento dell’inferno.

L’intervento di Cacciari è arrivato bel bello a rafforzare il mio timore. L’ex sindaco filosofo, pur dichiarandosi, una volta ancora, non credente, ha ribadito con forza che vanno bene i propositi, le scelte e gli auspici, ma questa è ormai l’ora di rimboccarsi le maniche e di sporcarsi le mani per soccorrere “l’uomo mezzo morto” incontrato sulla strada di Gerico.

A mio modesto parere, io che non sono né filosofo, né teologo, né sociologo, l’ora di agire è già suonata da un pezzo; noi cristiani stiamo perdendo l’ultimo treno, se dopo tanti discorsi e tanti auspici non mettiamo i piedi per terra e non cominciamo ad aiutare concretamente e in modo serio l’uomo che giace per strada mezzo morto.

Vicini di casa

I vicini di casa delle strutture che si rifanno alla Chiesa non sono “croce e delizia” ma, spesso, soltanto una croce.

E’ ben vero che tutti siamo più propensi a difendere i nostri diritti che a praticare i nostri doveri, ma appunto i vicinanti delle strutture legate più o meno al mondo ecclesiastico sono ipersensibili ai loro diritti, mentre trascurano bellamente i diritti altrui, perché convinti più o meno coscientemente, che i preti devono praticare la carità e perciò subire, per amor di Dio e del prossimo, ogni affronto e quasi mai si lasciano coinvolgere nelle imprese solidali che solamente essi sentono il dovere di portare avanti.

Da un punto di vista teorico e formale questi cristiani vicini sono anche disposti a lodare certe opere umanitarie, ma guai al cielo se niente niente queste opere ledono quelle che loro ritengono essere i loro legittimi diritti. La solidarietà, per tanta gente, è competenza solamente del prete e della Chiesa, della quale pare che loro siano parte, ma in questo caso i vicinanti battezzati, cresimati e sposati in chiesa, non sono essi più Chiesa ma altro, quando hanno qualcosa da rivendicare o che pensano di subire.

Una volta tanto mi permetto di fare alcuni esempi, nella speranza che possano destare la coscienza di certi cristiani da registro dei battesimi e non altro.

Quando ero in parrocchia:

  • Guai se i ragazzi giocavano al pallone, gridavano o mettevano le biciclette davanti alle case dei vicini. Sembrava che i ragazzi fossero figli del prete e non i loro figli.
  • Guai se il coro alla sera usciva dalle prove conversando ad alta voce.
  • Le campane sembravano togliere il meritato riposo ai residenti.

Giunto alla pensione:

  • Guerra contro il “don Vecchi uno e due”. Pareva che i vecchi turbassero il viale don Sturzo.
  • Rifiuto dei magazzini, perché portano la poveraglia in quartiere.
  • Parrocchia e comitato contro il “don Vecchi”, che avrebbe profanato il verde attualmente destinato ai bisogni fisici dei cani.
  • Opposizione quando si era pensato di restaurare la vecchia cascina, con invito alla stampa e dimostrazione popolare.
  • Proteste quando si taglia l’erba perché il rumore disturba la quiete pubblica.
  • Il “don Vecchi” è causa dell’invasione dei topi (pensare che è l’unico ad avere un contratto di deratizzazione!).
  • Ora gli alberi intasano i tombini ed i cassonetti ammorbano l’aria dei palazzi vicini.
  • A Campalto denuncia perfino perché si deprezzano gli edifici del vicinato, quando il “don Vecchi” è l’unico edificio di pregio della zona.

Potrei continuare la litania. Dopo secoli di prediche sulla carità, par che certi fedeli siano convinti che questo comandamento valga solamente per la Chiesa fatta da altri, mentre essi, in pratica, si comportano come se non fossero parte della Chiesa e non avessero l’obbligo di essere solidali col prossimo più fragile.

Questo comportamento talvolta mi provoca rabbia e senso di rivalsa e, talaltra, amarezza. Mi auguro che il Signore mi aiuti a porgere l’altra guancia, ma rimane il fatto che le percosse rimangono: cattiveria ed egoismo!

Sto scoprendo don Pierluigi Piazza

In occasione del mio recente compleanno gli amici, che sono fin troppo cari con me, che pur coltivo poco le amicizie e che spesso sono scorbutico, tra l’altro mi hanno regalato parecchi volumi che han pensato potessero interessarmi.

Io sono veramente grato perché ogni segno di attenzione mi fa bene e perché talvolta soffro di solitudine ideale. Sono più grato ancora a chi mi regala dei libri perché per me le riflessioni altrui sono un nutrimento dello spirito e spesso, in positivo o in negativo, un pungolo per una ricerca sempre più approfondita. Purtroppo sono terribilmente in ritardo con la lettura. Gli impegni ordinari mi rubano tanto tempo, per cui me ne resta poco per leggere.

La gente, giustamente, pensa, quando sceglie un libro per un mio regalo, a qualcosa che riguarda la Chiesa, il sacerdozio, la fede, ed ha ragione perché questi argomenti sono legati al mio servizio all’interno della Chiesa. La gamma, però, di questa letteratura, è vastissima, perché va dalla teologia classica alle più avanzate testimonianze.

Tra i libri che mi sono stati regalati quest’anno, a fiuto ne ho scoperto uno che ha stuzzicato la mia attenzione e la mia curiosità. Si tratta di una specie di autobiografia sui generis, di un prete friulano, un prete certamente anticonformista, libero e radicale, ma profondamente amante di Dio, di Gesù, della Chiesa. Quest’amore appassionato lo rende intransigente, perentorio nel volere, e forse nel pretendere, una conversione profonda della Chiesa al messaggio di Gesù.

Don Pierluigi Piazza – questo il suo nome – è certamente un prete scomodo, uno di quei preti che rompono le uova nel paniere ai colleghi benpensanti, amanti del quieto vivere, ossequiosi della tradizione e, sotto sotto, desiderosi di qualche titolo ecclesiastico, osservanti dei canoni e perciò sono degli autentici rompicapo per i loro vescovi che devono tenere assieme un gregge tanto variegato e sono costretti spesso a dare un colpo alla botte ed uno al cerchio.

Spesso questo tipo di preti rompono, sbattono la porta ed appendono al chiodo la tonaca, quando la hanno, ma quando veramente hanno buon senso ed amore a Dio e ai fedeli, fanno la fine di don Milani e, come profeti scomodi, vengono mandati al confino; poi però, dopo morti, sono riesumati come la ricchezza più autentica della comunità cristiana (vedi ancora don Milani e don Mazzolari).

Non ho ancora letto tutto il volume ma mi pare che, pur inviandolo in un piccolo paese tra le montagne del Friuli, il vescovo di Udine sia stato saggio e tollerante permettendo a questa voce certamente scomoda ai più, di continuare la sua testimonianza – almeno per me – profetica.

C’è bisogno di ideali, non di compromessi!

Io ho avuto un rapporto normale con monsignor Pizziol, prima vicario generale, poi vescovo ausiliare ed infine amministratore apostolico, mansione che egli ha ricoperto durante i lunghi sette mesi della sede vacante dopo il trasferimento del cardinale Scola a Milano. Ho sempre ritenuto questo monsignore una persona intelligente, di buon cuore, un prete che ha fatto il suo dovere secondo i canoni di Santa Romana Chiesa, ossequiente alle norme e alla tradizione.

Con un po’ di sorpresa l’ho visto eletto alla sede della grande diocesi di Vicenza, un tempo serbatoio di voti per la Democrazia Cristiana e di vocazioni alla vita religiosa.

Penso che sarà un buon vescovo, che procederà sulla via della tradizione, che però non sarà né profeta né un vescovo della Chiesa nuova che potrà guardare al domani con coraggio e spirito autenticamente innovativo, se non rinuncerà ad alcuni suoi atteggiamenti verso i suoi preti.

Io, nei suoi riguardi, ripeto, nutro stima, affetto e pure riconoscenza per avermi elargito, pur dopo mille insistenze, un contributo di centomila euro per il “don Vecchi” di Marghera, ma per il bene che gli voglio, spero che nella sua attività pastorale cresca e cambi almeno su due fronti.

E vengo al pratico. Quando mi mancavano poche settimane alla pensione, non avendo mai messo da parte nulla per me, avendo impegnato ogni provento per la parrocchia, da uomo di poca fede gli chiesi in che cosa sarebbe consistita la mia pensione e se essa mi avrebbe permesso di vivere la vecchiaia, pur poveramente. Con mia sorpresa e delusione, si meravigliò alquanto che non avessi messo da parte il denaro per la mia vecchiaia come fan tutti.

Non m’è parso incoraggiamento alla generosità e alla fiducia nella Provvidenza, anche perché il cardinale Cè mi aveva detto: «Non preoccuparti, continua ad operare per la tua comunità perché la diocesi si farà carico di ogni eventuale difficoltà».

Il secondo punto grigio è stata una lettera con la quale ha cercato di sanare il contenzioso fra due preti: uno che voleva promuovere una struttura per anziani in perdita di autonomia ed un altro che, una volta ancora, vi si è opposto per motivi per me solamente banali. Ebbene, in questa lettera, il vescovo ha tentato di pacificare il primo e il secondo, dando loro lo stesso peso, sebbene il primo con l’intera vita ha pensato ed operato per la povera gente, mentre il secondo si è adoperato per costruirsi la villetta per il tempo della pensione.

Va bene adoperarsi per la pace, però credo che non si possa per questo motivo dire che il bianco è grigio e dello stesso colore grigio è anche il nero. A mio modesto parere il vescovo deve indicare con onestà ciò che merita consenso e ciò che non lo merita. La gente e i preti han bisogno di ideali netti ed avanzati, non di compromessi per un benismo di comodo.

Attenzione a non negare il significato ed il perché dell’esistenza dell’uomo sulla terra!

Qualche settimana fa ho celebrato un funerale. Purtroppo, per via del comportamento furbastro e poco corretto del titolare di una delle agenzie di pompe funebri della città, io ero totalmente inconsapevole di ciò che era successo prima. Questo funerale infatti, all’ultimo momento, era stato disdetto da un mio collega perché era venuto a sapere dell’intenzione dei parenti della defunta di spargere le ceneri della congiunta in laguna.

Io sono venuto a sapere per caso di questo rifiuto soltanto a poche ore dal momento del funerale per cui avevo concordato l’orario. Non mi è parso quindi giusto mettere in difficoltà quel povero marito che, per la seconda volta, avrebbe dovuto rimandare le esequie, dopo che per mesi aveva assistito alla via crucis di sua moglie prima della morte.

Confesso che anche se avessi conosciuto l’intenzione di questa, per me insolita sepoltura, molto probabilmente avrei comunque celebrato il rito religioso del commiato. Primo, perché purtroppo non conoscevo la legislazione ecclesiastica in merito alla dispersione delle ceneri. Secondo – e questo è un po’ più grave – perché non mi pare che certi uffici della curia vaticana debbano fare da padreterni anche su argomenti marginali e tanto opinabili.

Le cose sono andate così, ma proprio l’indomani sono usciti sulla stampa gli orientamenti della Chiesa al riguardo: proposte e consigli che mi sono parsi rispettosi della libertà dei fedeli, saggi e, quindi, opportuni. La conservazione delle ceneri in un luogo adatto può facilitare la memoria, il suffragio, ed aiutare a recuperare la testimonianza dei nostri cari defunti. Quindi plaudo a questi consigli che non sono affatto precettivi e non mettono a disagio anche chi la pensa diversamente.

Proprio questa mattina un altro impresario di pompe funebri mi ha indicato il luogo, interno al nostro cimitero, che la Veritas ha approntato per la dispersione delle ceneri di chi non vuol metterle in un loculo. Questo “cimitero nel cimitero” è costituito da alcuni metri quadrati di ghiaia di fiume all’interno del piccolo e brutto giardino vicino al piazzale d’ingresso. Nulla di più banale, anonimo ed insignificante, senza un fiore, una scritta, né un segno qualunque. Sembra che dica con Sartre, il pensatore ateo del nostro tempo: “La vita è un nervo nudo che si contorce per il piacere o per il dolore, e nulla più”. Questa la negazione assoluta del significato e del perché dell’esistenza dell’uomo sulla terra.

Io seguirò ed appoggerò in ogni modo i consigli dei nostri vescovi perché, togliendo alla vita speranza e futuro, essa rappresenterebbe una beffa assurda.