La diversità di opinioni è un valore e anche la Chiesa lo ha capito

Credo che nei secoli di piombo della Chiesa si pensasse alla fede come al percorso, con tanta difficoltà e pericolo, sopra una stretta asse di equilibrio; bastava infatti un passo falso, una mossa incauta, per cadere ed essere penalizzati. Fuori dalla metafora, una posizione un po’ diversa da quella proposta dalla gerarchia del tempo era sufficiente per incorrere nella condanna.

Questa mentalità si manifestò, in tutta la sua crudezza, quando l’Europa dovette subire la Sacra Inquisizione: pagina tenebrosa, una pagina che oscurò il volto bello e luminoso della Chiesa di Gesù, per la quale i grandi pontefici del nostro tempo hanno chiesto scusa all’umanità. Una pagina che provocò drammi di una tristezza inenarrabile tra persone di grande fede quali, ad esempio, Galileo e il Savonarola, che portò a repressioni sanguinose e che mortificò intelligenze di alto livello o ricercatori appassionati della verità.

Questo triste fenomeno poi non rimase circoscritto in quei secoli di piombo ma, seppur in forme meno rigide, è arrivato fino agli albori del secolo scorso e, fortunatamente, ha ricevuto una severa sanzione col Concilio Ecumenico Vaticano Secondo. La tentazione dell’intolleranza è però un pericolo sempre incombente e soprattutto è il pericolo di chi è più strettamente legato alla tradizione o di chi detiene il potere.

Le ultime propaggini di questa mentalità hanno investito anche quelli che sono diventati i testimoni più credibili della Chiesa del nostro tempo, quali don Mazzolari e don Milani, per parlare solamente dei più illustri.

Ora, fortunatamente, le cose non stanno più così. Da non molto ho capito che la diversità è un valore piuttosto che un pericolo; una sana dialettica sull’opinabile, anche all’interno della Chiesa, arricchisce e rafforza la comunità cristiana piuttosto che impoverirla. Per questo motivo ora ritengo che si debba avere attenzione e rispetto per le voci più diverse, fatto salvo però che chi ha il mandato di guidare la comunità deve segnare la rotta, ed ogni voce deve essere tesa a costruire e non a demolire.

Come rivitalizzare le nostre Comunità?

Nel nostro piccolo mondo ecclesiale, che ormai da tempo non abbraccia più tutte le persone che un tempo si riferivano alla “Cristianità”, ossia all’intera collettività, e neppure abbraccia più coloro che sono stati battezzati o che attualmente nel nostro territorio si dichiarano cristiani, da anni si fa un gran parlare della rievangelizzazione.

Quando io, “povero cristiano” sento parlare di questa sognata operazione che dovrebbe recuperare “le pecorelle uscite dall’ovile” o rivitalizzare quelle stanche, frastornate, demotivate o molto perplesse, mi vien da immaginare un’aratura di fondo ed una nuova semina, con semente fresca e vitale, nella speranza che il campo finalmente biondeggi di grano promettente.

Talvolta invece penso ad un’operazione più individuale, ossia l’innesto di un messaggio evangelico, vivo ed autentico, su piante di una piantagione perlopiù inselvatichite, poco produttive e soprattutto capaci solamente di frutti acidi, stantii e quanto mai deludenti.

Quando ho acquistato villa Flangini, la splendida villa veneta sui colli asolani, scoprii che tutta la collina su cui sorge la bella struttura fatta costruire dal Patriarca di Venezia del 1700, tutto il terreno che la circonda nel passato era coperto da piantagioni di viti e di alberi da frutto però, per una trentina d’anni, era stato abbandonato a se stesso e non più curato. Quando arrivammo noi delle viti era rimasto solamente qualche moncone infruttifero, mentre gli alberi da frutto rimasti producevano frutti striminziti ed acerbi. Cominciammo subito ad innestare i ciliegi, ad irrorare con anticrittogamici e a piantare virgulti di piante nuove. Penso che nel Convegno di Aquileia, di cui si fa un gran parlare e dal quale si arrischia di aspettarsi che, quasi per magia o per miracolo, si rinnovi e rifiorisca la Chiesa del Triveneto, ci si debba invece aspettare un invito a lavorare di più nella vigna del Signore, a curare ogni singola pianta, a dissodare il terreno, a renderci disponibili, col sudore della fronte, ad un rinnovato impegno per far crescere nuovi e più sani cristiani.

Il sabato, ascoltando il messaggio del nostro nuovo Patriarca, m’è parso di avvertire questo discorso: “Ad Aquileia non serve fare la conta o auspicare un miracolo del Cielo o affrontare progetti particolari, ma deve nascere in tutti i cristiani, dai vescovi ai preti e ai singoli fedeli un impegno alla conversione personale per lavorare con maggior spirito di sacrificio e maggior fede, non illudendosi che si possa vivere di rendita sulla fatica dei nostri padri, o di trovare formule magiche che possano rivitalizzare le nostre comunità.

Dal “vecchio apostolato” alla “nuova evangelizzazione”

Nel passato più volte ho confessato di avere la sensazione di essere un sopravvissuto di un mondo che ormai non c’è più. Una volta ho usato un’espressione un po’ pittoresca che ha causato una certa diatriba con un mio collega, inferiore d’età e superiore di carica, affermando che forse sono come quei soldati giapponesi che non erano venuti a conoscenza che il conflitto era finito e perciò continuavano nella giungla la loro “guerra personale”.

Un tempo la diffusione della “buona stampa” era una componente importante della pastorale. Ricordo che le suore di San Paolo avevano in via Verdi un negozio molto frequentato ove offrivano agli operatori pastorali dei libri, dei catechismi, dei film se credo, se non ricordo male, anche le suppellettili liturgiche.

Le stesse suore di don Alberione, l’apostolo dei mass-media cattolici, organizzavano la Settimana della Bibbia, diffondevano nelle parrocchie centinaia di copie di “Famiglia Cristiana”. Spesso poi allestivano delle bancarelle della buona stampa alla domenica di fronte alla chiesa e spesso in coppia, come i carabinieri, andavano nelle case per propagandare volumi di contenuto religioso. La stessa cosa facevano pure le “Figlie della Chiesa” con stampa un po’ diversa, ma dagli stessi contenuti.

Tutto questo è scomparso progressivamente. Le Suore di San Paolo se ne sono andate da Mestre e le Figlie della Chiesa superstiti si sono ridotte a presidiare la chiesa di San Girolamo. Per fortuna e grazia di Dio monsignor Bonini ha aperto la libreria San Michele in via Poerio, l’unica libreria cattolica in città, ma che funziona solamente come libreria.

Quando due volte la settimana mi reco con suor Teresa a rifornire l’espositore e i banconi dell’Ospedale dell’Angelo portando sei-settecento copie de “L’incontro”, centocinquanta copie del “Sole sul nuovo giorno” e svariate centinaia di opuscoli de “Il libro delle preghiere e delle verità fondamentali della fede e della morale cristiana”, mi pare di essere rimasto un superstite di un mondo che ormai non c’è più.

Avverto più che mai che questo tipo di apostolato ormai è scomparso, forse perché ritenuto superato e sostituito da qualcosa di nuovo che io non sono ancora riuscito a scoprire. Comunque tante volte mi domando se vale la pena che continui a spendere fatica e denaro in perfetta solitudine ed ancora più spesso avverto il desiderio di comprendere come si stia transitando dal “vecchio apostolato” alla “nuova evangelizzazione” per adeguarmi ad essa. Spero che “Aquileia 2” mi fornisca le desiderate indicazioni.

Don Valentino, il nuovo “parroco” del Don Vecchi di Campalto

Il venerdì santo, in mattinata, mi sono recato al “don Vecchi” di Campalto per dare il benvenuto al sacerdote che la diocesi ha donato a quella piccola comunità cristiana ormai formata da sessantaquattro mini-famiglie.

Sono stato particolarmente felice perché il Centro era “vestito a festa” in occasione della Pasqua: il prato appena rasato appariva come un soffice tappeto verde, vasi di fiori rossi ingentilivano il vialetto che porta all’entrata, e dentro aria di festa, un viavai di residenti sereni e orgogliosi del loro piccolo borgo signorile ed ordinato.

M’è parso che l’atmosfera fosse veramente lieta e ci fosse una grande disponibilità per far crescere una vera comunità.

Ho incontrato il “collega” col quale ho condiviso molti anni di vita in seminario, ma che poi, diventati preti, ho perso di vista perché siamo vissuti ai lati opposti della diocesi. La mia vita ha ruotato per cinquant’anni attorno a Mestre, mentre lui ha esercitato il suo ministero in piccole comunità dell’interland di Caorle.

L’incontro è stato quanto mai cordiale, perché abbiamo scoperto di avere tante esperienze diverse da raccontarci: in verità lui ha un paio di anni meno di me, mentre per quanto riguarda acciacchi e pastiglie da prendere, forse mi supera di misura. Don Valentino – così si chiama il nuovo “parroco” del “don Vecchi”, ha fatto il suo “ingresso ufficiale” al mattino di giovedì santo e lo stesso pomeriggio, ha celebrato il primo “pontificale” particolarmente affollato, durante il quale ha tenuto l’omelia sull'”ultima cena”. Con don Valentino, pastore sereno e pacato, abbiamo concordato un mini piano pastorale: celebrerà l’Eucaristia ogni giorno, visiterà “le famiglie” e tenterà di diventare punto di riferimento per la vita spirituale.

Avrei voluto avere la capacità di dargli il benvenuto, come fece il cardinal Cè nei riguardi del nuovo Patriarca, benvenuto tanto paterno e ricco di calore che ha commosso l’intera Chiesa veneziana, però tutto ciò è rimasto solamente un pio desiderio.

Il nuovo vecchio sacerdote è stato veramente un dono del Cielo, che mai avrei immaginato potesse giungerci. Don Valentino potrà disporre fin da subito dell’accolito Lino, del teologo Enrico e di volontari che collaborino con lui per far si che i momenti di preghiera diventino il cuore della vita di questa nuova piccola “parrocchia” di anziani. Spero che con la benedizione del Signore la nuova comunità “cresca in età lentamente, mentre in grazia velocemente, davanti a Dio e agli uomini”.

Rimpianto

Già scrissi che non sono riuscito, per motivi indipendenti dalla mia volontà, a seguire la trasmissione che Telechiara, l’emittente televisiva cattolica del Triveneto, ha fatto in occasione dell’ingresso del nuovo Patriarca a Venezia.

L’interesse nasceva da motivazioni diverse: l’ingresso del mio muovo vescovo in un momento storico così travagliato per la vita religiosa dei nostri giorni, è per me quanto mai importante perché sarà il nuovo vescovo a tenere in mano il timone della “barca di san Marco” che oggi ormai non naviga nelle acque quiete della laguna ma che, con la globalizzazione, deve muoversi in mare aperto, spesso in tempesta e pieno di insidie.

I nostri vecchi dicevano che il clima del nuovo giorno lo si intravede fin dall’alba e perciò ero desideroso di capire lo stile e sentire le prime parole del nuovo pastore.

Confesso poi – ma questo per me era certamente meno importante – che mi sarebbe piaciuto seguire l’ingresso anche da un punto di vista estetico. Venezia è sempre capace di trasformare in poesia, sogno e favola anche gli eventi più normali, ed a maggior ragione quello straordinario dell’arrivo del suo Patriarca.

Nel breve spazio, pure intervallato, che ho potuto dedicare alla trasmissione, ho visto e sentito il benvenuto del vecchio Patriarca Marco Cè, saluto che mi ha veramente commosso per il suo calore, il suo senso di paternità umana e spirituale. Una volta ancora sono stato edificato da questo vecchio vescovo che a Venezia “ha regnato” con tanta umiltà e in punta di piedi.

La seconda parte che ho potuto seguire è stata l’omelia del nuovo Patriarca. L’ho seguita con estrema attenzione perché, pur avendo letto parecchio sul nuovo presule, dalla presentazione che ne aveva fatto la stampa locale, specie “Gente Veneta”, che ha superato se stessa in questa occasione, era la prima volta che sentivo dal vivo il nuovo Patriarca, cosa che spero di poter fare anche in seguito, invece di dover leggere riassunti riportati dai mass-media. Questi riassunti infatti, spesso non ne riportano fedelmente lo spirito, ma talvolta lo tradiscono accentuandone solamente passaggi marginali.

Come rimpiango la mia vecchia “Radiocarpini” che, pur tra tanti difetti, aveva il pregio di essere una emittente squisitamente religiosa, impegnata solamente al servizio della pastorale. Tutti i discorsi del nostro Patriarca erano trasmessi in diretta o, al massimo, in differita. Ricordo che eravamo arrivati perfino a predisporre nel suo studio una trasmittente, in maniera che potesse parlare ai fedeli della diocesi in qualsiasi momento. Della mia vecchia radio però esistono solamente le ceneri sepolte nei miei ricordi e in quelli dei miei duecento collaboratori.

Interviste

Non c’è quasi un avvenimento di ordine ecclesiale per il quale qualche giornalista delle testate presenti a Mestre non mi faccia una telefonata per chiedermi un parere in proposito. Non mi sottraggo quasi mai dal rispondere per una serie di motivi che ritengo utile manifestare agli amici.

Di solito ad intervistarmi sono “aspiranti giornalisti”, pagati ad articolo, i quali, prima di essere assunti a tempo indeterminato, devono aspettare decenni, e pochi fortunati ci riescono. Allora penso: “perché non dovrei aiutare questi poveri grami a portarsi a casa forse una cinquantina di euro per ‘il pezzo’ che permetto loro di fare?”.

Secondo motivo: spesso anch’io ho bisogno del giornale per portare avanti progetti che io ritengo importanti e quando ricorro a questi professionisti della penna, sempre trovo disponibilità e collaborazione, ed allora perché non dovrei fare altrettanto?

Da ultimo, non però per importanza, io sono convinto che ogni cittadino ed ogni fedele, quando si tratta di cose di Chiesa, deve dare il suo contributo di pensiero perché la città e la Chiesa siamo noi e la facciamo noi ed io ho scelto di non sottrarmi mai a questo dovere.

Questa scelta comporta però qualche rischio, ma questo fa parte del gioco. Spesso il giornalista cerca lo scoop, spesso adopera frasi ad effetto e talvolta interpreta male il pensiero, non essendo addentro alla materia. Qualche volta nasce qualche malinteso.

Recentemente il nuovo Patriarca ha fatto un discorso serio e quanto mai condivisibile circa l’impegno del clero nei riguardi delle “opere”, dicendo che questo impegno non deve andare a scapito dell’apostolato specifico e diretto del sacerdote, soprattutto non deve distogliere il prete dalla sua missione di pastore di anime. Io condivido pienamente questo discorso, anzi penso di essere in linea con esso da sempre, difatti le mie intenzioni in ogni mia scelta si sono sempre ispirate a questo obiettivo.

Qualche settimana fa, rispondendo ad una delle interviste su questo discorso, ho detto che terrò certamente conto dei suggerimenti del mio Patriarca. Sennonché la premessa del giornalista, Alvise Sperandio, uno dei miei ragazzi di un tempo, era partita male: «Che ne pensa lei, che i suoi colleghi ritengono il prete palazzinaro?» L’affermazione mi bruciò alquanto e allora soggiunsi, da buon discepolo di san Giacomo, l’apostolo concreto per definizione, che le prediche sulla carità devono diventare fatto concreto e non rimanere sopra le nubi. Lo dissi in maniera un po’ più colorita, ma il senso era certamente questo.

Ritorno su questa infelice intervista, sfalsata anche dal titolo “I preti si distinguono” perché non vorrei per nessun motivo che qualcuno possa pensare che io abbia riserve sul pensiero del mio Vescovo e non voglia offrirgli una collaborazione franca e disponibile.

Le vicende del Vangelo si svolgono ancora oggi davanti ai nostri occhi!

Tante volte, nelle riflessioni che prendono forma attraverso la mia biro. ho confidato agli amici che sono un appassionato raccoglitore dei “fioretti” che anche san Francesco scoprirebbe nella nostra società. Sono anche raccoglitore dei “fatti di Vangelo” di Luigi Accattoli, il giornalista che cerca in maniera appassionata nella cronaca di ogni giorno episodi e comportamenti che si rifanno al messaggio cristiano; ed ancora, cerco quelle pagine che ogni giorno arricchiscono il “Quinto Evangelio”, lo splendido volume, in cui Pomilio afferma che il messaggio del Vangelo non s’è concluso con i quattro evangelisti, ma continua ogni volta che dalla vita emergono verità, amore, bene, giustizia e libertà.

Ma la mia ricerca è ancora più appassionata per quanto riguarda l’uomo. Ai tempi della mia vita di seminario, i miei educatori mi hanno fatto incontrare le “vite dei santi” ed hanno fatto bene perché l’uomo santo è l’immagine più viva ed interessante del bene e della meravigliosa ricchezza di Dio. Sono grato per avere nel cuore un consistente bagaglio di conoscenze di queste vite generose che hanno interpretato il Vangelo e l’hanno fatto crescere nel cuore degli uomini.

Ora però sento maggior desiderio di incontrare e conoscere non solo “fatti di Vangelo”, ma uomini e donne che si muovono oggi con disinvoltura e nobiltà nella cornice, nell’atmosfera dei nostri tempi, così da interpretare i personaggi che abbiamo già conosciuto nel testo sacro, quali Pietro, Giovanni, la Samaritana, Maddalena, i discepoli di Emmaus, il Centurione, Levi Matteo, Filippo, Giacomo, la Veronica, Giuseppe, ecc.

Ogni tanto incontro nel mio quotidiano qualcuno di questi personaggi che mi aprono il cuore e mi rendono certo che il soffio di Dio è ancora tra di noi.

Già scrissi di qualche incontro di gente che ha bussato alla mia porta senza che io riuscissi a darle una mano. Trovandomi in difficoltà di collocare una donna che mi diceva tra le lacrime che da quindici giorni dormiva in macchina, non sapevo da che parte voltarmi; allora, quasi disperato, telefonai ad una giovane donna che sta dividendo tutto il suo tempo libero, ma soprattutto tutto il suo cuore, per accogliere ed offrire un letto ai famigliari dei degenti dell’Ospedale dell’Angelo che vengono da lontano. «Me la mandi», mi rispose lei con dolce prontezza. Poi seppi che la sistemò il giorno dopo.

Neanche a farlo apposta, dopo due giorni mi si presentò verso cena una giovane mamma con un bambino di due anni. «Me li mandi, don Armando».

Per la terza volta, a sera inoltrata, un parroco mi manda una giovane rumena che dormiva per strada. Ancora una volta, senza spazientirsi, e con immediatezza, mi rispose: «Cercherò di sistemarla».

Seppi poi che per ognuna l’indomani trovò una soluzione. Quando penso alla signorina Teresa del Foyer San Benedetto, non volete che questa bella creatura non mi possa rappresentare bene Maria o Marta, le sorelle di Lazzaro che accolsero Gesù a casa loro?

Sono convinto che il mistero della Redenzione si attui anche nel nostro povero mondo e che anche oggi possiamo incontrare sulle nostre strade e sulle nostre piazze i personaggi offertici dal Vangelo, attraverso i quali il buon Dio ci ha donato la salvezza.

Se ripuliamo un po’ i nostri occhi ci è certamente possibile leggere ancora una volta il Vangelo e scoprire tutti i coprotagonisti del mistero della nostra Redenzione in versione attuale.

La Fede cristiana non si può ridurre ai soli riti!

La predica mi mette in croce ogni settimana. Più volte ho confessato agli amici che man mano si avvicina la domenica, proporzionalmente aumenta il mio tormentone.

Da un lato perché ho lucida consapevolezza che chi riferisce il messaggio di Gesù, ma specialmente lo traduce e l’inserisce nel contesto esistenziale del nostro tempo, dovrebbe avere la capacità di non impoverirlo, ma passarlo in tutta la sua freschezza ed attualità; dall’altro lato perché sono pure oltremodo consapevole che i membri della comunità, che tanto amo e con i quali ogni domenica celebro l’Eucaristia, meritano davvero di poter incontrare ed ascoltare, attraverso la mia parola e il mio pensiero, Gesù vero e autentico.

Nonostante la preparazione, sempre accurata, sul testo sacro da proporre, e la volontà di offrirlo ai fedeli, il messaggio evangelico diventa per me il dramma della settimana.

Nella quinta domenica di quaresima di quest’anno, nella pagina del Vangelo di Giovanni che la Chiesa offre all’attenzione dei fedeli, è scritto: “Tra quelli che erano saliti a Gerusalemme per il culto durante la festa, c’erano alcuni greci. Questi si avvicinarono a Filippo e gli domandarono: vogliamo vedere Gesù”.

A quel tempo i greci da un punto di vista culturale erano certamente all’avanguardia sugli altri popoli ed erano notoriamente razionalisti; infatti quelli ai quali all’areopago S. Paolo parlò loro della Resurrezione, snobbandolo e ritenendolo un ingenuo e credulone, dissero: «Su questo argomento ti ascolteremo un’altra volta».

Il passaggio del testo evangelico succitato rende evidente che anche oggi la gente che pensa e che ragiona con la propria testa vuole incontrare nella comunità dei cristiani il volto, le parole e i comportamenti che furono propri di Gesù. Questo vale per i non credenti, i dubbiosi, gli incerti di casa nostra ma soprattutto, per rimanere in Italia, per i milioni di extracomunitari che provengono dai Paesi dell’Islam o da quelli devastati nella religione da settant’anni di ateismo imposto dai regimi marxisti.

Mi domando allora: “Come posso far capire ai miei fedeli che per essere discepoli di Gesù, per riuscire ad illustrare che cos’è il cristianesimo, la fede non la possiamo ridurre a qualche rito o a qualche pratica religiosa. Chi desidera “vedere Gesù” non può accontentarsi e mai avrà una risposta adeguata da qualche assemblea liturgica, specie se l’ha partecipata in maniera passiva e sopportata come “la tassa religiosa” da pagare.

Gandhi disse chiaramente che non avrebbe avuto nessuna difficoltà ad accettare il cristianesimo di Gesù, ma gli era invece impossibile accettare il cristianesimo dei cristiani che conosceva.

Tolstoi, uomo dalla profonda fede, in un suo racconto, immagina che Gesù in incognito vada a visitare le comunità cristiane della Russia e, dopo averle conosciute, affermi con decisione che “quei fedeli” non li riconosceva come suoi discepoli.

Quante volte non mi tormento e mi dico: “Come posso far capire ai miei fedeli che il cristianesimo non può essere ridotto ad una serie di riti e di pratiche più o meno convincenti, ma è invece lo sforzo serio di offrire il volto, la parola, l’immagine e i comportamenti di Cristo in maniera che “i greci” del nostro tempo lo possano vedere, ascoltare, seguire ed accettare come maestro di vita!?” Questo è il mio dramma di prete che in più di mezzo secolo di apostolato non è ancora riuscito a scoprire il modo perché questo avvenga.

Le persone umili sono quelle che sorreggono il nostro mondo!

So che tanti miei amici e tanti concittadini, che seguono le vicende dell’ultima stagione della mia vita, leggendo “L’incontro” non amano troppo che io parli del cimitero e della morte. Dovrebbero però pensare che essendo “questo mondo” la mia occupazione principale, non posso non esserne toccato e sollecitato. D’altronde dobbiamo pure convenire con il cardinale Roncalli che ripeteva di frequente: «Memento novissima tua et in aeternum non peribis» (ricordati delle ultime cose: morte, giudizio, inferno e paradiso e non perirai in eterno).

Allora, un po’ per il primo motivo ed un po’ per il secondo, spero che mi si conceda di ritornare su queste grandi verità. Comunque oggi vorrei trattare solamente marginalmente questo argomento.

Qualche giorno fa ho celebrato il commiato cristiano (traduco: il funerale) di una delle poche donne superstiti che non si sposano o per fare le perpetue – ma questa specie è ormai estinta – o perché sono state a servizio fin dall’infanzia da padroni ai quali si sono affezionate talmente da non riuscire a staccarsi, o perché hanno finito per accudire i nipoti o, infine, perché sono rimaste fedeli ad un amore che non ha avuto sbocchi.

Ricordo una di queste creature da un lato perché aveva un nome strano e raro, Zolema, e un po’ perché al funerale sono intervenuti una ventina di nipoti per i quali lei aveva speso la vita. Purtroppo, nonostante questa dedizione, finì i suoi giorni in una casa di riposo lontano dal luogo in cui visse!

La nipote mi tratteggiò la vita della vecchia zia, me ne parlò tanto bene e con tanta tenerezza che celebrai più volentieri il funerale e invitai con più convinzione del solito i congiunti a raccogliere “la ricca eredità” di valori e di esempi ch’ella lasciava loro.

Mentre, nella breve omelia, dicevo ai presenti di accogliere, custodire e arricchire la notevole eredità che questa creatura buona e generosa lasciava loro, mi sovvenne il pensiero di queste belle creature che, nel silenzio e in una vita modesta e di sacrifici, sono gli elementi più pregiati del nostro mondo. Diceva infatti mons. Vecchi che quando un visitatore entra in una chiesa, cerca con l’occhio i capitelli lavorati e non si accorge che quell’edificio rimane in piedi solamente perché ci sono umili pietre, coperte dall’intonaco, che lo sorreggono.

Mi è stato di grande consolazione e conforto il pensiero delle pietre sotto la malta a confronto di tanta gente vanesia ed effimera che troppo spesso tien banco sull’opinione pubblica offrendo solamente “aria fritta”!

Ricordando un vecchio film

Tanti anni fa ho visto un film abbastanza mediocre, uno di quei film popolari da cassetta, che aveva come protagonista il nostro indimenticabile Mastroianni, attore insuperabile nell’interpretare lo spirito bonaccione dell’italica gente.

Credo di ricordare questa pellicola soprattutto perché il mattatore romano interpretava la figura di un prete in carriera. Tento di ricostruire alla buona la trama del film, una trama abbastanza superficiale e banale, ma che ha toccato uno dei nervi scoperti del mio animo di vecchio prete che cerca di chiudere la sua esistenza in maniera coerente alle sue scelte di vita.

I protagonisti sono due preti che avevano studiato assieme. Una volta diventati sacerdoti uno s’è piazzato in una ricca e nota parrocchia del nord, mentre l’altro è andato a finire in una piccola e povera parrocchia dell’Appennino, in cui stenta a vivere e, coerente alle sue scelte, doveva affrontare con difficoltà le problematiche della sua gente bisognosa di tutto.

Il compagno, disinvolto e senza scrupoli, in carriera viene convocato a Roma per occupare un posto ambito nella curia romana; vuole far visita al suo amico del seminario che vive tra tante difficoltà tra la sua povera gente, difficoltà che diventano ancora più pesanti dato il suo carattere austero e rigoroso e l’impegno con cui tenta di aiutare la sua gente. Mastroianni arriva un bel giorno nel paesino e suona alla porta della povera casa dell’amico, il quale esce accogliente per abbracciare il confratello disinibito che aveva fatto strada. La sorpresa del buon curato di campagna è notevole, vedendo il vecchio amico rubicondo, ilare e disinvolto con la sua fascia rossa da monsignore, arrivare in auto di grossa cilindrata accompagnato da una vistosa ed avvenente segretaria. Il monsignore, con aria che sapeva di paternalismo, racconta all’amico curato le sue imprese e i progetti ambiziosi che culla. Ognuno può facilmente immaginare Mastroianni, istrione per natura, nella veste del prete viveur. La breve visita si conclude con qualche consiglio dell’aspirante vescovo nei riguardi del curato tutto dedito al suo apostolato.

Rientrato in canonica il povero prete non riesce a non confrontare la sua situazione piuttosto grama con la vita brillante e disinvolta dell’amico.

A me capita qualcosa del genere quando, andando a portare la buona stampa due volte la settimana in ospedale, passo davanti ad una villetta in margine al bosco che un mio collega s’è preparato per la sua vecchiaia.

E’ vero, sono stato io a scegliere il mio quartierino al “don Vecchi”, sono stato io a volermi impegnare per gli anziani, a condividere la sorte dei poveri, e rifarei ogni giorno la mia scelta, ma ogni volta che passo davanti alla villetta del mio collega la mia scelta mi costa un po’ di più! Credo che dovrò aggiungere ancora una preghiera per ritrovare la pace che avevo prima.

La carezza di Dio

Una decina di anni fa ho accompagnato gli anziani della parrocchia al monastero benedettino di Praglia, perché potessero rendersi conto della spiritualità e del regime di vita che è proprio della regola che San Benedetto di Norcia ha redatto per l’ordine religioso che ha fondato, ordine che è stato un pilastro di civiltà per i secoli bui della Chiesa ed anche per la società civile.

La regola di san Benedetto rappresenta un ordinamento religioso di prim’ordine nel quale si propone ai monaci il lavoro manuale e nel contempo la lode a Dio che si compendia nella massima benedettina: “ora et labora”.

In quell’occasione abbiamo avuto modo di visitare una mostra di icone russe che aveva per tema la Vergine.

Fui colpito non solamente dalla bellezza composta e sublime delle tavole provenienti dalla Santa Russia, ma soprattutto dai titoli su ogni immagine della Madonna: Vergine della tenerezza, Vergine della letizia, Vergine della soavità, ecc. Veramente sono stato felicemente sorpreso che la produzione iconografica di quel mondo lontano mettesse in luce questi aspetti delicati, gentili e profumati di poesia e di sentimento che normalmente sono quanto mai trascurati dalla nostra tradizione religiosa che risente ancor troppo dell’illuminismo, del razionalismo e del positivismo che hanno inaridito l’aspetto più delicato e gentile del nostro sentire umano.

In questi giorni, in cui sta scoppiando primavera, nonostante il cielo non ci abbia ancora donato, come nel passato, “la pioggerella di marzo”, sono andato, per associazione di idee, a questo ricordo e a questa esperienza ormai lontana.

I colori delicati dei fiori e delle piante, il tepore dell’aria e la dolcezza del cielo, mi hanno fatto sentire la tenerezza di Dio che assume in sé la ricchezza del padre e della madre, aspetti di Dio, dei quali ci ha parlato Papa Luciani in quei pochi giorni che ha potuto parlare al mondo, affermando che Dio è contemporaneamente Padre e Madre.

In questi giorni così dolci e soavi, nei quali non cesso un istante di inebriarmi del respiro caro e gentile della primavera, m’è parso di avvertire la “carezza di Dio”, ossia un’attenzione delicata e dolcissima del Signore verso di noi, sue povere creature. Il Signore, nonostante tutte le nostre miserie, non cessa di manifestarci, con segni belli e gentili, il suo amore, che è ricco della virilità del padre e della delicatezza della madre.

Quei “buoni cristiani” che a volte non ci sentono proprio

Pare che parecchia gente si rifaccia ad una massima del compianto cardinal Urbani, Patriarca di Venezia in anni difficili. Infatti ho sentito dire, più di una volta, il mio vecchio patriarca Urbani, il Vescovo di Venezia ai tempi in cui infuriava la contestazione: «Quando hai bisogno dell’aiuto di qualcuno, non andare a chiederlo a chi non ha niente da fare e non è impegnato, perché ti dirà di no; chiedi invece il favore a chi è molto impegnato, vedrai che in qualche modo troverà la possibilità di darti una mano».

Questo detto sapienziale mi attutisce il colpo quando qualche “anima candida” mi manda qualcuno in difficoltà, nelle ore più impensate, perché l’aiuti a risolvere i suoi problemi impossibili.

Da sempre ho deciso di scegliermi un tassello delle infinite nuove e vecchie povertà per occuparmi solamente di quello, perché convinto che chi cerca di far tutto finisce per non far niente di fatto bene.

Io ho scelto di occuparmi della residenza degli anziani poveri e questa scelta mi impegna tutto il tempo e tutte le risorse di cui dispongo. Però c’è spessissimo qualche “anima pia”, e purtroppo qualche altra furbastra che quando le si presenta qualche persona in difficoltà, “risolve il caso” dicendole: «va da don Armando, lui ha la possibilità di aiutarti».

Quando si tratta di “anime candide” porto pazienza, anche se “i buoni cristiani” dovrebbero sempre sporcarsi le mani col prossimo in difficoltà e non scaricarle sul prete. Ma quando invece si tratta di persone furbastre, allora la ritengo una vera mascalzonata ignobile e ingenerosa!

Un paio di settimane fa, nel lasso di pochi giorni, per ben tre volte sono state mandate da me tre creature in situazioni impossibili, per le quali io non sono attrezzato a dare una risposta esaustiva.

La prima, una signorina in pensione che viveva col padre vedovo il quale, avendo trovato una nuova compagna, ha buttato fuori la figlia. Quando mi ha telefonato, su suggerimento di “un buon cristiano”, da una settimana dormiva in macchina.

La seconda: mi si è presentata una giovane donna con un bambino di tre anni. Mi raccontò che, scaduto il termine di affitto, il compagno aveva riconsegnato le chiavi di casa al relativo padrone e lui se ne era ritornato in Serbia. Mi disse che il parroco vicino l’aveva mandata da me perché le dessi da dormire per la notte e che l’indomani avrebbe attivato i servizi sociali del Comune.

La terza: una romena che aveva perso il lavoro per la morte dell’anziano che assisteva. Da una settimana viveva per strada. Ancora una “buona cristiana” su suggerimento del suo parroco, ha suonato al mio campanello, perché a lei faceva pena.

Quando ho proposto “La Cittadella della Solidarietà” non c’è stato uno, dico uno, che mi abbia appoggiato.

Per fortuna ho potuto ricorrere a quell’angelo di ragazza che si occupa del Foyer San Benedetto che, con una generosità infinita, tutte tre le volte mi ha aiutato per l’immediato. Però a Mestre ci vuole ben altro; purtroppo però preti e buoni cristiani non ci sentono da questo orecchio!

Cari concittadini, amate la vita!

Vi sono delle verità, delle sentenze, dei proverbi o delle immagini che – non so perché – mi rimangono impresse e non le dimentico come avviene per tantissime altre cose. A me piace Guareschi, sornione, ricco di humour e di poesia, scorrevole ed immediato.

Di questo autore, in questi giorni di primavera in cui la natura si veste di colori tenui e dolci, di incanto e di delicata poesia, mi sovviene un episodio di cui credo di aver parlato altre volte. Don Camillo, in una recita all’asilo parrocchiale, fa dire al figlio di Peppone una poesia. Il sindaco rosso si indigna perché il prete reazionario ha tentato di rovinargli politicamente il figlio. Tuttavia, finita la recita, si prende sottobraccio il bambino, se lo porta in aperta campagna tra i filari di viti e gli fa recitare per dieci volte la poesia. E poi conclude commosso: “Anche quando trionferà il proletariato dovranno rimanere le poesie!”

Talvolta, soprattutto nel passato, qualcuno mi ha fatto osservare che ero un po’ romantico, che premevo di frequente i tasti del sentimento. E’ vero, non me ne vergogno, io ritengo che la meraviglia, l’incanto, lo stupore e il sentimento, siano delle componenti importanti della persona e guai a non possederle, perché ci si ridurrebbe ad essere pressoché dei robot.

L’uomo di oggi corre questo pericolo, perché si colloca esattamente al lato opposto del romanticismo, diventa indifferente, arido, senza emozioni e senza sogni.

Mi domando di frequente: “Ma la mia gente si è accorta che è primavera? Si è accorta di quant’è bella questa stagione così leggiadra e vezzosa? Si è accorta di quant’è bello il cielo, il prato con la dolce sinfonia dei suoi colori, gli alberi che stanno gemmando, i cespugli in fiore? Si è accorta degli occhi grandi dei bimbi e dell’armonia delle nostre donne?! Povera gente, in costante ricerca di emozioni forti e volgari!

Non auguro a nessuno alcune esperienze che ho fatto essendomi dovuto sottoporre a degli impegnativi e pericolosi interventi chirurgici, comunque credo di dover confessare che ogni volta che sono tornato dalle corsie dell’ospedale mi sono stupito di non essermi accorto prima di quanto bella sia la gente, quanto cara la mia città che tutti definiscono anonima e città dormitorio. Tanto che ringrazio il Signore di quelle prove perché lo stupore e la meraviglia provati al ritorno, m’hanno ripagato a iosa di quelle esperienze dolorose.

In un bellissimo volume che ha toccato le corde più profonde e più sacre del mio animo, “Le ultime lettere dei condannati a morte della resistenza europea”, ricordo le parole accorate di una ragazza ventenne che, prima di salire sul patibolo, scrive ai suoi cari: “Ziette care, anime mie, ricordatemi con amore, ma amate la vita, amate l’amore, godete anche delle cose più semplici e quotidiane. Mentre mi congedo da voi mi par di sentire gli odori e i rumori della nostra casa, l’odore delle patate bollite, il tintinnio delle posate. Quant’è bella la vita! Amatela e godetela appieno!”.

Mi auguro che i miei concittadini possano scoprire le tante cose semplici e belle della vita, senza dover salire sul patibolo.

Un prete per il don Vecchi di Campalto

A Campalto la casa degli anziani del “don Vecchi” è bella e luminosa, circondata da una campagna verde ed ubertosa, l’arredo è quanto mai signorile e la galleria di quadri ben fornita di quadri di tutti gli stili e per tutti i gusti. Pur tuttavia rimane quasi “una prigione dorata”. Se un residente desidera recarsi a Campalto o in qualsiasi altra località, deve farlo sempre con l’autobus di linea o in automobile, ma sono appena una decina gli anziani che ne posseggono una, mentre chi poi gode della pensione di 580 euro non può permettersi neanche la più scassata delle auto.

Per ora prosegue “la guerra di logoramento” contro l’ANAS e il Comune per avere i permessi a costruire una pista ciclo-pedonabile, però senza grandi risultati.

Anche per quanto riguarda la frequenza alla messa domenicale via Orlanda rappresenta la invalicabile “linea Maginot”! Supponendo che le cose sarebbero andate così, il giorno dell’inaugurazione avevamo usato lo stratagemma di donare “le chiavi della cittadella degli anziani” al parroco, don Massimo, per invogliarlo a frequentare il suo “possedimento”. Fatica sprecata, perché il parroco di Campalto è un povero diavolo, solo soletto, che deve pensare ad una parrocchia numerosa.

Alla mancanza dell’Eucaristia settimanale finora abbiamo supplito con una “messa secca” celebrata dal signor Enrico Carmio. Al sabato, come nei Paesi di missione, il nostro laico conduce la liturgia della penitenza, della parola e della lode al Signore. Una trentina di anziani partecipa all’incontro religioso, ma penso non sarebbero molti di più anche se il nuovo Patriarca vi celebrasse il pontificale con tanto di mitria e di pastorale!

Ora la Provvidenza ci ha dato una mano con la richiesta di un vecchio prete in pensione e relegato in un quasi “esilio” in un paesetto di campagna del contado, di avere un alloggio al Centro. Don Valentino, il prete ottantenne, carico di acciacchi, è entrato per Pasqua, con grande gioia di Lino, Stefano – responsabili del Centro – e mia. Ora spero tanto che abbia il fascino del suo celebre omonimo e trascini attorno alla Mensa del Signore la maggioranza degli ospiti che, come sempre, sono donne, ma spero pure che ad esse si accodino anche gli uomini.

La curia ci aveva promesso un prete giovane, insegnante di teologia; s’è però rotto una gamba sciando e perciò non l’abbiamo visto. Speriamo ora che don Valentino, vecchio prete di campagna, pur con meno teologia, abbia parole più semplici ma anche più convincenti per portare a Dio le pecorelle del “don vecchi” di Campalto.

Il complicato puzzle dell’articolo 18

Sto sempre con le orecchie tese nel tentativo di capire se abbia ragione chi vuole abolire l’articolo 18 della legge proposta dal socialista Brodoloni, o se abbiano ragione “i tecnici” che ritengono che liberalizzando il mercato del lavoro si mette la necessaria premessa per una maggior produttività, per il richiamo di capitali stranieri e quindi per produrre un maggior benessere generale.

Nonostante l’ascolto attento di tanti dibattiti televisivi, non ho ancora capito se abbia ragione l’imbronciata ed aggressiva pasionaria della CIGL o la “colombella”, quel ministro fragile e cortese che l’università ha prestato al governo per ammodernare il mercato del lavoro e renderlo competitivo con i Paesi d’Europa e del mondo.

Tento di riordinarmi le idee e avere presente alcuni punti fermi che poi dovranno coniugarsi tra loro.

1. Le leggi del mercato non sono, nella loro sostanza, un’invenzione della destra, né della sinistra degli industriali: che due più due fanno quattro non l’ha inventato né la Fiat di Marchionne né i sindacati. Perciò di queste leggi non possiamo non tenerne conto.

2. Le leggi non sono però mai un idolo; esse sono nate e devono essere usate a favore di tutti gli uomini e perciò vanno sempre interpretate ed usate per il bene di tutti e non di qualche interessato.

3. E’ antisociale ed assurdo che per mantenere ancora dei privilegi possibili in un’altra condizione economica, s’arrischi di mandare a fondo il bene dell’intero Paese, come pare stia avvenendo. Purtroppo talvolta bisogna potare qualche ramo perché la pianta fiorisca e dia frutto. Di certo è giusto tagliare prima i rami inutili e quelli dannosi. Comunque ci vuole saggezza e grande esperienza e responsabilità nel potare.

4. Non dobbiamo, in ogni caso, permettere che gli avidi, gli egoisti, i privilegiati dalla sorte, solamente per arricchirsi ancora di più, si disfacciano dei più deboli e dei più indifesi. A questo mondo dobbiamo vivere tutti, però i disonesti e i perditempo bisogna avere il coraggio di metterli in condizione di non nuocere.

Capisco bene che è difficile mettere assieme queste componenti. Questo è un puzzle assai complicato ma con pazienza di certo si riesce a comporre il disegno.

Sindacati, industriali e governo dispongono di belle menti e pagate bene, che con un po’ di buona volontà dovrebbero trovare la soluzione.

Io posso solo sperare e pregare perché prima gli angeli custodi di questa gente si mettano d’accordo per poi far si che lo facciano anche i loro protetti. Così mi ha insegnato Papa Roncalli che di saggezza e di diplomazia ne possedeva molta.