Vi sono delle verità, delle sentenze, dei proverbi o delle immagini che – non so perché – mi rimangono impresse e non le dimentico come avviene per tantissime altre cose. A me piace Guareschi, sornione, ricco di humour e di poesia, scorrevole ed immediato.
Di questo autore, in questi giorni di primavera in cui la natura si veste di colori tenui e dolci, di incanto e di delicata poesia, mi sovviene un episodio di cui credo di aver parlato altre volte. Don Camillo, in una recita all’asilo parrocchiale, fa dire al figlio di Peppone una poesia. Il sindaco rosso si indigna perché il prete reazionario ha tentato di rovinargli politicamente il figlio. Tuttavia, finita la recita, si prende sottobraccio il bambino, se lo porta in aperta campagna tra i filari di viti e gli fa recitare per dieci volte la poesia. E poi conclude commosso: “Anche quando trionferà il proletariato dovranno rimanere le poesie!”
Talvolta, soprattutto nel passato, qualcuno mi ha fatto osservare che ero un po’ romantico, che premevo di frequente i tasti del sentimento. E’ vero, non me ne vergogno, io ritengo che la meraviglia, l’incanto, lo stupore e il sentimento, siano delle componenti importanti della persona e guai a non possederle, perché ci si ridurrebbe ad essere pressoché dei robot.
L’uomo di oggi corre questo pericolo, perché si colloca esattamente al lato opposto del romanticismo, diventa indifferente, arido, senza emozioni e senza sogni.
Mi domando di frequente: “Ma la mia gente si è accorta che è primavera? Si è accorta di quant’è bella questa stagione così leggiadra e vezzosa? Si è accorta di quant’è bello il cielo, il prato con la dolce sinfonia dei suoi colori, gli alberi che stanno gemmando, i cespugli in fiore? Si è accorta degli occhi grandi dei bimbi e dell’armonia delle nostre donne?! Povera gente, in costante ricerca di emozioni forti e volgari!
Non auguro a nessuno alcune esperienze che ho fatto essendomi dovuto sottoporre a degli impegnativi e pericolosi interventi chirurgici, comunque credo di dover confessare che ogni volta che sono tornato dalle corsie dell’ospedale mi sono stupito di non essermi accorto prima di quanto bella sia la gente, quanto cara la mia città che tutti definiscono anonima e città dormitorio. Tanto che ringrazio il Signore di quelle prove perché lo stupore e la meraviglia provati al ritorno, m’hanno ripagato a iosa di quelle esperienze dolorose.
In un bellissimo volume che ha toccato le corde più profonde e più sacre del mio animo, “Le ultime lettere dei condannati a morte della resistenza europea”, ricordo le parole accorate di una ragazza ventenne che, prima di salire sul patibolo, scrive ai suoi cari: “Ziette care, anime mie, ricordatemi con amore, ma amate la vita, amate l’amore, godete anche delle cose più semplici e quotidiane. Mentre mi congedo da voi mi par di sentire gli odori e i rumori della nostra casa, l’odore delle patate bollite, il tintinnio delle posate. Quant’è bella la vita! Amatela e godetela appieno!”.
Mi auguro che i miei concittadini possano scoprire le tante cose semplici e belle della vita, senza dover salire sul patibolo.