La predica mi mette in croce ogni settimana. Più volte ho confessato agli amici che man mano si avvicina la domenica, proporzionalmente aumenta il mio tormentone.
Da un lato perché ho lucida consapevolezza che chi riferisce il messaggio di Gesù, ma specialmente lo traduce e l’inserisce nel contesto esistenziale del nostro tempo, dovrebbe avere la capacità di non impoverirlo, ma passarlo in tutta la sua freschezza ed attualità; dall’altro lato perché sono pure oltremodo consapevole che i membri della comunità, che tanto amo e con i quali ogni domenica celebro l’Eucaristia, meritano davvero di poter incontrare ed ascoltare, attraverso la mia parola e il mio pensiero, Gesù vero e autentico.
Nonostante la preparazione, sempre accurata, sul testo sacro da proporre, e la volontà di offrirlo ai fedeli, il messaggio evangelico diventa per me il dramma della settimana.
Nella quinta domenica di quaresima di quest’anno, nella pagina del Vangelo di Giovanni che la Chiesa offre all’attenzione dei fedeli, è scritto: “Tra quelli che erano saliti a Gerusalemme per il culto durante la festa, c’erano alcuni greci. Questi si avvicinarono a Filippo e gli domandarono: vogliamo vedere Gesù”.
A quel tempo i greci da un punto di vista culturale erano certamente all’avanguardia sugli altri popoli ed erano notoriamente razionalisti; infatti quelli ai quali all’areopago S. Paolo parlò loro della Resurrezione, snobbandolo e ritenendolo un ingenuo e credulone, dissero: «Su questo argomento ti ascolteremo un’altra volta».
Il passaggio del testo evangelico succitato rende evidente che anche oggi la gente che pensa e che ragiona con la propria testa vuole incontrare nella comunità dei cristiani il volto, le parole e i comportamenti che furono propri di Gesù. Questo vale per i non credenti, i dubbiosi, gli incerti di casa nostra ma soprattutto, per rimanere in Italia, per i milioni di extracomunitari che provengono dai Paesi dell’Islam o da quelli devastati nella religione da settant’anni di ateismo imposto dai regimi marxisti.
Mi domando allora: “Come posso far capire ai miei fedeli che per essere discepoli di Gesù, per riuscire ad illustrare che cos’è il cristianesimo, la fede non la possiamo ridurre a qualche rito o a qualche pratica religiosa. Chi desidera “vedere Gesù” non può accontentarsi e mai avrà una risposta adeguata da qualche assemblea liturgica, specie se l’ha partecipata in maniera passiva e sopportata come “la tassa religiosa” da pagare.
Gandhi disse chiaramente che non avrebbe avuto nessuna difficoltà ad accettare il cristianesimo di Gesù, ma gli era invece impossibile accettare il cristianesimo dei cristiani che conosceva.
Tolstoi, uomo dalla profonda fede, in un suo racconto, immagina che Gesù in incognito vada a visitare le comunità cristiane della Russia e, dopo averle conosciute, affermi con decisione che “quei fedeli” non li riconosceva come suoi discepoli.
Quante volte non mi tormento e mi dico: “Come posso far capire ai miei fedeli che il cristianesimo non può essere ridotto ad una serie di riti e di pratiche più o meno convincenti, ma è invece lo sforzo serio di offrire il volto, la parola, l’immagine e i comportamenti di Cristo in maniera che “i greci” del nostro tempo lo possano vedere, ascoltare, seguire ed accettare come maestro di vita!?” Questo è il mio dramma di prete che in più di mezzo secolo di apostolato non è ancora riuscito a scoprire il modo perché questo avvenga.