Cosa ho saputo trasmettere?

In uno dei primi incontri con l’attuale sindaco, egli mi disse che ero stato suo catechista quando era bambino ed abitava a Mestre. D’istinto mi venne da chiedermi se fossi riuscito a passare il messaggio evangelico.

Mi capita assai spesso che nelle occasioni più disparate qualcuno mi dica di essere stato mio alunno alle magistrali, all’Istituto Volta o al Pacinotti, o qualche altro che era stato scout con me, tantissimi che li ho sposati o a cui ho battezzato i figli. Grazie a Dio la mia vita di prete è sempre stata tanto intensa ed ho incontrato, nelle realtà in cui ho operato, un numero quasi infinito di persone: in parrocchia, a scuola, tra i maestri cattolici, nell’Azione cattolica e nello scoutismo.

Ricordo ancora con nostalgia le folle che gremivano la chiesa di San Lorenzo durante la messa delle 12 che io celebravo, o le file infinite di penitenti che al sabato pomeriggio aspettavano pazienti il loro turno per la confessione settimanale.

Non riesco proprio a contare le persone che per i motivi più diversi ho incontrato, a cui ho parlato e a cui ho tentato di passare il messaggio di Gesù.

Ora, ogni volta che incontro qualcuno di questi vecchi discepoli, mi viene da domandargli: «Com’è andata?». La maggioranza però pensa che la mia domanda non sia specifica alla proposta cristiana. Spesso incontro gente che mi ricorda con simpatia e con riconoscenza, talvolta mi pare di scoprirle come delle brave persone, però raramente ho la sensazione di essere stato capace di creare cristiani ferventi, decisi, impegnati. Spesso mi viene da domandarmi, di fronte a questi incontri: “Che cosa mi è mancato nell’approccio religioso che ho avuto con tante persone di tutti i ceti e di tutte le età?”

La risposta più ovvia mi pare sia la mia carenza culturale, la mancanza del fascino specifico dell’educatore. Non posso, per fortuna, dire che non mi sia speso abbastanza, però emerge dal fondo della coscienza la risposta più “vera”, che mi mortifica e che spiega anche i miei fallimenti e i risultati poco brillanti del mio impegno pastorale: non sono stato, e non sono, un santo. Solamente i santi, che riflettono in maniera fedele il volto e il cuore di Dio, riescono a convertire in maniera radicale.

Quelle lacrime non versate

Nel messale si trovano preghiere per tante necessità dell’uomo. Ricordo che quando partecipavo ai campi degli scout, nella celebrazione della messa, spesso adoperavo la colletta “ad petenda serenitatem”. Non so se chi ha scritto questa preghiera intendesse proprio invocare giornate di sole o se invece pensasse alla serenità dello spirito; io di certo intendevo chiedere al Signore condizioni meteorologiche favorevoli perché la vita al campo, sotto la tenda, col maltempo, era per noi adulti un vero supplizio: i bambini non riuscivano a cucinare, in tenda poi non riuscivano a muoversi, per cui i litigi erano più frequenti.

Ebbene, ricordo che in quei tempi scoprii, con notevole meraviglia, che c’era anche una preghiera per chiedere il dono delle lacrime. Suppongo che fosse stata pensata per ottenere il ravvedimento, il pentimento per le proprie colpe.

A distanza di anni mi viene da pensare che dovrebbe essere usata perché gli uomini del nostro tempo non inaridiscano tutti i sentimenti, non rimangano indifferenti di fronte ai drammi umani, alla sofferenza altrui, perfino alla morte delle persone più vicine.

Ripeto ancora una volta che a me capita alquanto di frequente di celebrare il funerale di persone molto anziane. Quasi sempre vengo a sapere che han passato gli ultimi anni della loro vita in case di riposo più o meno lontane dalla nostra città o nella propria casa con una badante extracomunitaria.

Spesso mi capita di accorgermi che partecipa al commiato ed è più addolorata la badante che i figli che avevano visitato i loro vecchi genitori solo molto saltuariamente e pensavano di aver assolto il loro dovere pagando la donna dell’est europeo.

Un tempo sembrava perfino che ci fosse un’esasperazione nell’esprimere il proprio dolore per la perdita di una persona cara, ora però pare che la fonte delle lacrime si sia inaridita, che ognuno pensi solo a sopravvivere in qualche modo e non voglia o non si senta per nulla coinvolto nella vita e nella morte dei suoi cari.

Ultimamente è morto il dittatore della Corea del nord ed ho avuto modo di vedere il pianto “disperato” di un popolo intero. Credo che quel pianto plateale sia stato imposto dal regime, ma da noi ormai anche la morte della propria madre sembra che lasci indifferenti le persone del nostro vecchio mondo. Questa non riesco proprio a pensarla come una conquista di civiltà.

La causa dell’infelicità

Quest’oggi la mia catechesi alla quarantina di fedeli venuti nella mia “cattedrale tra i cipressi” a pregare per i loro cari defunti s’è rifatta al brano del Vangelo che narra di quei volontari che non riuscendo a portare davanti a Gesù un povero paralitico, non si fermano al primo ostacolo e calano dal tetto il lettuccio di quel malcapitato. Al mattino, quando avevo letto il brano per fare la mia meditazione durante la messa, sono stato per qualche tempo indeciso se parlare del volontariato, che non può ridursi a fare un po’ di bene senza impegnarsi troppo, ma deve tendere sempre a risolvere i problemi. Poi, dopo un attimo di esitazione, ho optato per un altro argomento che ho ritenuto più importante e perfino più attuale.

Tutti conoscono come andò a finire l’impresa di quei quattro volontari. Una volta calato dal tetto della stanza l’infermo, Gesù lo guardò negli occhi e disse: «Ti siano rimessi i tuoi peccati!». Noi ormai da venti secoli ci siamo abituati a questo racconto, però penso che quel malcapitato e i volontari che avevano faticato tanto per aiutarlo, non solamente siano stati sorpresi, ma abbiano ritenuto, in cuor loro, che a loro e alla gente dal comune sentire, interessasse poco, o forse nulla, quel discorso da Chiesa, forse accettabile solo all’interno di una confraternita da iniziati.

Credo che Gesù abbia voluto invece ribadire che il peccato, che nella sua sostanza è disordine personale e sociale, frattura del delicato ordine umano e sociale, è la vera causa dell’infelicità, del “male oscuro” che incupisce la vita personale e sociale anche del nostro tempo.

La gente di oggi ha perduto la cultura e la coscienza del peccato, inteso nella sua accezione esistenziale, ossia “rottura dell’ordine” e per questo motivo neppure si sforza di ricomporre il complesso equilibrio interiore e sociale che invece, osservato, porterebbe serenità, pace ed armonia in ogni rapporto.

Mi rendo perfettamente conto che oggi perfino ai preti sfuggono gli effetti nefasti che “il peccato” produce fatalmente.

Ricordo una riflessione di un prete il quale affermava che se tutti gli uomini si mettessero d’accordo, che a partire da una certa data, tutti avessero osservato bene i comandamenti, da quel giorno quella società e quelle persone sarebbero stati felici.

Tanti pensano che la ricchezza, il successo, la salute e l’amore siano motivo di felicità, però credo che più ancora la pace della coscienza è fonte più certa di benessere umano e sociale.

Lungaggini burocratiche

Quando uscirà questo appunto spero bene che sarà risolto il problema della nomina del Patriarca di Venezia, però quello che sento il dovere di dire credo che comunque abbia il suo valore.

Don Sandro Vigani, che è mio nipote, lo ritengo un validissimo giornalista ed un ottimo direttore del periodico della diocesi. Con lui “Gente veneta” ha acquisito non solo notorietà, ma anche autorevolezza. Di don Sandro ammiro la prosa brillante, la conoscenza dei problemi che tratta, l’equilibrio e la pacatezza delle posizioni espresse negli editoriali che pubblica con molta frequenza sul periodico.

Qualche tempo fa, a proposito della nomina del nuovo Patriarca, aveva auspicato che si evitassero i pettegolezzi, le supposizioni senza fondamento, le valutazioni facili. Io ho condiviso fino in fondo questa sua posizione.

Una settimana fa, in un altro articolo di fondo, ha ribadito che il nuovo vescovo non potrà mai essere il Patriarca che ognuno vorrebbe, perché il buon Dio, che certamente è più saggio di noi, manderà di certo quello di cui Lui sa che la Chiesa veneziana avrà bisogno.

Io, nel passato, avevo auspicato un Patriarca “a tempo pieno” per la sua comunità e i suoi preti, perché di personalità celebri e carismatiche e onnipresenti ne abbiamo già avuti, mentre la Chiesa veneziana ha bisogno, a parer mio, di un patriarca, anche se un po’ più modesto, ma tutto per noi.

Ma non ho motivi per non adeguarmi a quello che afferma don Sandro: “Dobbiamo accettare il nuovo vescovo con fede e seguirlo con amore anche se non è quello che ognuno di noi ha pur diritto di sognare”. Lode anche a questo intervento del direttore del giornale della diocesi.

Quello che invece rifiuto è il finale del fondo di domenica 15 febbraio: “Come direttore dell’ufficio stampa del Patriarcato, mi domando invece se non sia possibile evitare prese di posizione pubbliche che costituiscono un lauto banchetto per i giornali e finiscono per alimentare il fuoco, purtroppo inestinguibile, delle chiacchiere ecclesiastiche” Evidentemente si riferisce alle critiche per i sette mesi d’attesa. Questo non lo posso proprio accettare.

Il vecchio parroco di Altobello, don Molinari, affermava: “Terra santa più acqua santa non fa `fango santo’, ma solamente fango!”. Le lungaggini, l’esasperazione della burocrazia – sia essa politica o ecclesiastica – sono sempre un atteggiamento da rifiutarsi, sono sempre un fatto negativo. Il fatto che queste lungaggini burocratiche provengano dai dicasteri vaticani non le rende di certo efficienza, serietà, buon ordine. Io ritengo che una critica benevola e fatta per amore non sia mai da recriminarsi; essa è un dono del quale i nostri vescovi “hanno diritto”.

Ancora una volta mi rifaccio al “libero e fedele” di don Mazzolari.

Quella libertà di “scegliersi il prete” che non tutti i colleghi gradiscono

Quando cominciai a pensare come realizzare quelle strutture che sarebbero poi state chiamate “alloggi protetti per anziani”, arrivai presto alla conclusione che, per quanto riguardava la sanità, avrei offerto l’ambulatorio a qualche medico perché i residenti potessero poi sceglierlo come loro medico di famiglia. Avrei così facilitato il medico, facendogli trovare i suoi clienti tutti nel medesimo luogo, senza dover girare per la città e far tante scale e, nello stesso tempo, avrei fatto trovare il medico appena fuori dalla porta di casa ai residenti.

La cosa non andò perché i cittadini italiani hanno diritto di poter scegliere liberamente il loro medico di fiducia. Interpellai un magistrato di fama, ma questi mi ripeté che al massimo avrei potuto suggerire il medico, ma assolutamente non avrei potuto imporlo, nonostante una scelta collettiva avesse potuto dare tutti i vantaggi di questo mondo.

Ripiegai sulla linea dell’autonomia della scelta, anche perché certuni non si sarebbero mai fatti convincere ad abbandonare “il loro medico”, anche se farlo venire al “don Vecchi” sarebbe stato pressoché impossibile. L’Italia garantisce queste “piccole libertà”, anche se poi nega praticamente quelle più importanti.

In questi giorni ho deciso anch’io di diventare legalista. Siccome ad alcuni colleghi non garba che alcuni loro fedeli anagrafici scelgano il “loro prete” per il funerale, allora ho chiesto alle varie agenzie di pompe funebri che nel fax con il quale mi si forniscono i dati del defunto fosse inserita la scelta di fare il funerale nella mia chiesa del cimitero, avallata con la firma del titolare con queste precise parole: “La scelta della chiesa e del sacerdote è stata determinata dalle espresse volontà dei famigliari dell’estinto”. Spero che così nessuno possa sospettare che sia io a suggerire queste scelte, e così se la prendano con i famigliari del caro estinto o con chi organizza il “commiato cristiano”, ma assolutamente non più con me.

Se a questo mondo posso essere utile, se posso far del bene, se posso aiutare i miei confratelli togliendoli dall’imbarazzo di celebrare il funerale di qualcuno che aveva avuto motivi – giusti o presunti – di non gradire la presenza del suo parroco, sono ben felice; altrimenti ho altri mille modi di impiegare bene il mio tempo.

L’ultimo rilegatore di Mestre

Anch’io ho più di qualche vizio e qualche mania. Da sempre ho conservato ciò che sono andato scrivendo durante i miei 55 anni di sacerdozio. Mi è sempre stato più facile mettere per iscritto le mie riflessioni che affidarle alle parole.

Ultimamente ho raccolto in un elegante armadio la mia “opera omnia”, fatta di articoli sugli argomenti più disparati. Mentre ho buttato via la montagna di appunti disordinati che mi sono serviti per i miei sermoni, ho sempre conservato i periodici a cui ho affidato le mie idee e i miei messaggi. Ogni anno ho consegnato ad un vecchio tipografo in pensione la raccolta degli scritti perché me li rilegasse.

Anche quest’anno, a fine dicembre, ho telefonato perché ripetesse l’operazione. Ahimé! Lo stato della sua malferma salute s’è aggravato tanto che ho capito che non avrebbe più potuto farmi la rilegatura. Ho chiesto a destra e a sinistra, trovando, si, degli “stabilimenti” che rilegano libri, ma solamente a livello industriale.

In maniera un po’ avventurosa, dopo una lunga ricerca, mi è stato detto che c’era ancora, in via Piave, precisamente in via San Michele, un artigiano che si dedica a questo lavoro.

Questa mattina sono andato dal vecchio rilegatore, un vecchietto della mia età ma ancora arzillo. Quando gli chiesi al telefono a che ora apriva, mi rispose pronto “alle otto”, quasi meravigliandosi che io potessi pensare che lo facesse più tardi.

La bottega sembrava un deposito di rigattiere, tanti erano i libri in ogni angolo. Scoprii che era stato con me in seminario, sapeva delle mie vicende; si mise a conversare piacevolmente dei tempi andati. Sono stato veramente felice di aver ritrovato questo compagno del secolo scorso, e più felice ancora d’averlo trovato in una bottega, solo soletto, a portare avanti la sua piccola azienda. «Sono rimasto l’ultimo in tutta Mestre», mi disse con un tono che non ho capito bene se fosse di orgoglio o di desolazione.

L’artigianato ormai è morto, l’hanno ucciso i sindacati, i governanti stupidi e di corte vedute e le nuove generazioni illuse di poter campare senza fatica, senza responsabilità e senza professionalità. Gente che ha fatto scomparire un piccolo mondo imprenditoriale fatto da persone intelligenti, volonterose e che amavano veramente il lavoro.

Non so ancora quanto reggerà l’ultimo rilegatore di Mestre, a me non interessa più di tanto perché abbiamo quasi la stessa età, ma fra qualche anno chi vorrà lasciare qualche traccia del suo pensiero, dovrà mettere in un sacco di plastica della Veritas i fogli della sua ricerca.

Il coraggio delle margheritine

Io sono particolarmente amante dell’armonia e della bellezza in qualsiasi modo esse si esprimano. Vivendo ora ai margini della città e in un luogo ove la cementificazione non ha ancora soffocato la natura, mi diletto da un lato ad abbellire con piante e fiori il parco del “don Vecchi”, e dall’altro, mi piace quanto mai seguire l’avvicendarsi della fioritura delle piante, lasciandomi andare ad una contemplazione che fa godere non solo i miei occhi, ma anche lo spirito.

Fino a qualche settimana fa ho goduto di un’autentica esplosione di colori e delle forme diverse dei crisantemi che ci hanno allietato, a cominciare da agosto, arrivando al loro maggior fulgore a novembre, reggendo persino al gelo di dicembre.

Ora osservo con attenzione e curiosità come le pansé reggano bene al freddo e, pur tutte raggomitolate in se stesse, stiano preparandosi a vestire i loro colori sgargianti, nella ormai sognata ed attesa primavera.

Assieme alle pansé, che si difendono faticosamente dal freddo, godo ogni giorno di un “filare” dei miei amatissimi fiorellini bianchi che, invece, donano il meglio di sè stessi in questi mesi invernali. Al “don Vecchi” questi fiorellini, che stanno al bordo del prato verde, sembrano uno splendido collier al collo di qualche bella signora, qual’è la natura. Più i piccoli candidi fiori emergono dal fogliame verde intenso delle loro piante, più ho l’impressione che il buon Dio voglia rispondere alla mia sete di bellezza, anche quando la terra è brulla, quasi impaurita dal gelo invernale.

In questi giorni però ho scoperto che il prato che è riparato dai venti gelidi del nord e s’affaccia al sole, è ormai trapunto da una serie di piccole margherite bianche; mi sembrano tanto temerarie nel voler fiorire così presto, quasi avvertano impazienti da molto lontano il respiro tiepido della primavera. Il coraggio delle margheritine di sfidare l’inverno, mi aiuta ad avere fiducia nel bene, o tentare quello che l’esperienza riterrebbe pericoloso o inutile.

Scorgendo questo piccolo miracolo, mi pare che noi non siamo meno fortunati dei re magi guidati dalla stella a scoprire il Figlio di Dio. Se spendessimo qualche momento in più ad osservare la natura che ci circonda, avremmo anche noi dei segni portentosi che ci guiderebbero con autorevolezza all’incontro con la salvezza dalla paura e dal vuoto.

La prova del nove

Oggi, col computer e i telefonini multiuso non serve più, ma quando io ho frequentato le elementari la prova del nove era uno strumento assolutamente indispensabile per verificare se le operazioni erano giuste.

Il paragone può sembrare azzardato, ma In questi ultimi tempi ho pensato frequentemente a questa operazione matematica in occasione dei numerosi eccidi di cristiani in Pakistan, in Nigeria e altrove a motivo della fede.

Credo che la capacità di affrontare il martirio per non venir meno alla propria fede sia la prova del nove per verificare la consistenza e la validità del proprio credere. Il distintivo, la bandiera, l’annotazione nei registri dei battesimi e perfino la pratica religiosa e la frequenza ai riti, credo che non siano più strumenti validi per misurare la consistenza della fede.

Ripeto che in questi ultimi tempi, apprendendo le testimonianze sublimi di coerenza da parte di semplici cristiani, per nulla acculturati in teologia, che di fronte al fondamentalismo islamico non hanno esitato a pagare col sangue la fedeltà alla fede cristiana, mi sono chiesto se la fede dei cristiani della vecchia Europa, dell’Italia e pure del nostro Veneto, considerato da tanti come una riserva privilegiata di religiosità, alla prova del nove del martirio reggerebbe e darebbe esito positivo. Temo tanto che questa prova indicherebbe che l’operazione non regge, che c’è qualcosa che non quadra. Ci siamo abituati ad un cristianesimo pantofolaio, privo di spina dorsale, quasi fosse un vestito che si può smettere e buttare non appena fa un po’ più freddo o più caldo.

Recentemente ho seguito con un po’ di curiosità e di meraviglia le dispute che si sono tenute nella mia vecchia parrocchia per un problema che è sembrato tanto importante, cioè fare la messa dei bambini alle 9 piuttosto che alle 9.30. E’ sembrato che ai piccoli si chiedesse la scelta eroica di andare a messa alle 9 piuttosto che mezz’ora più tardi e che i genitori fossero costretti a qualcosa di inimmaginabile – l’accompagnarli in chiesa per le 9.

In Italia, ormai da secoli i cristiani godono di una situazione di comodo o di privilegio, tanto che si considera la fede come qualcosa di scontato e parrebbe che si pensasse che il buon Dio dovrebbe essere persino troppo contento e riconoscente che ci dichiariamo credenti, quando poi questa “fede” in realtà non significa quasi niente.

E’ purtroppo vero che quello che non si paga è ben poco apprezzato.

Riflessioni in attesa del nuovo Patriarca

Nota della redazione: ricoediamo che questi pensieri sono stati scritti prima della nomina del nuovo Patriarca.

Credo di essere il primo a rivolgere al Cielo una preghiera, perché ci doni presto un Patriarca adeguato ai bisogni e ai problemi della Chiesa veneziana. Fino al momento in cui butto giù queste note, il Signore non mi ha ascoltato per quanto riguarda il tempo e non sono ancora in grado di sapere se mi ascolterà o meno sul tipo di vescovo che crederà opportuno mandarci.

A prescindere dai miei gusti io firmo già in bianco l’accettazione e ripeto: “Sia fatta, o Signore, la tua volontà,” anche perché soltanto Tu sai qual è il vescovo più opportuno per Venezia”.

In questi ultimi tempi ho avvertito dagli articoli della stampa cittadina, un certo disagio ed una certa insofferenza. Pur con toni rispettosi, l’opinione pubblica pare poco favorevole a queste lungaggini burocratiche che sono poco comprensibili per il nostro mondo che corre tanto veloce.

Poi è arrivato don Gianni, che in maniera più provocatoria che diplomatica, ha lasciato una colonna in bianco in terza pagina di “Lettera aperta” per dare idealmente spazio ai fedeli ad esprimere il loro parere di certo non positivo. Mi pare che la trovata sia più di dissenso che di consenso.

Infine è arrivato l’editoriale dell’organo ufficiale del patriarcato “Gente veneta” in cui il direttore, don Sandro Vigani, mio nipote e giornalista di valore, ha invitato, con discorso pacato, ad accogliere benevolmente il Patriarca che Dio vorrà mandarci, le cui qualità non potranno soddisfare tutti, ma che comunque si dovranno accettare, soprattutto perché a noi poveri mortali non è concesso di conoscere il disegno di Dio, il quale sempre è il più saggio e il più rispondente alle nostre necessità.

Monsignor Pizziol, nostro concittadino, ora vescovo di Vicenza ed amministratore provvisorio della Chiesa di Venezia, più di una volta ci ha invitato alla preghiera, quindi alla pazienza ed infine ha azzardato la data di Pasqua per l’arrivo del nuovo Patriarca. Ma monsignor Pizziol sta ormai da quella parte che pare sappia dire solo “Va bene!”.

Con Monti “si fa l’Italia o si muore”

Ogni sera non dimentico mai di dire un’Ave Maria per Monti e il suo governo, che io guardo come un vero miracolo ed un dono del Cielo.

Prima che il presidente Napolitano escogitasse questa soluzione che gli va a tutto merito, avevo la sensazione che l’Italia si trovasse su un binario morto con le sue rotaie che non reggevano più. Da una parte Berlusconi, ormai totalmente squalificato, ridotto a gridare proclami vuoti e sparsi al vento, e dall’altra parte l’accanimento di Bersani, che però aveva alle spalle un partito zoppicante e diviso e non sapeva far altro che chiedere il ritiro del suo antagonista.

Ambedue le parti contrapposte non riuscivano a fare l’unica cosa opportuna e doverosa che era quella di dialogare e collaborare per il bene del Paese, pur avendo sotto gli occhi l’esempio della Germania, il Paese più ricco e più avanzato della nostra vecchia e tormentata Europa.

Napolitano, fortunatamente, con destrezza è riuscito a “tirar fuori il coniglio dal cilindro”, l’innocente e candido Mario Monti. Il tecnico Monti e la sua squadra, forse più per forza che per convinzione, riesce a camminare sui trampoli sempre pericolosi tra il centrodestra e il centrosinistra, è nella non felice impresa di costringere a fare quello che con un minimo di intelligenza avrebbero dovuto fare da tempo.

Mio fratello don Roberto, come me, ha ringraziato il Cielo e ha “acceso una candela” per Mario Monti. Credo che dobbiamo riesumare la famosa frase “Qui si fa l’Italia o si muore”. Alla preghiera per il nuovo capo del governo non dimentico mai di aggiungere un’altra Ave Maria perché i sindacati, che non sono di certo meno dissennati ed avidi dei politici e delle varie lobbies della corporazione privilegiata, non facciano “una frittata” del governo “rompendo le uova nel paniere”, impedendo che la nuova compagine governativa finalmente composta non da parolai ma da esperti nell’arte, faccia tutte le altre riforme necessarie che né destra né sinistra riuscirebbero mai, e poi mai, a fare.

Alcune parrocchie non vogliono “L’Incontro”

Da qualche tempo forse, spero più per incomprensione che per gelosia, il nostro periodico sta trovando qualche difficoltà nell’essere accolto in certe chiese parrocchiali della nostra città. Mi verrebbe la tentazione di fare i nomi delle parrocchie del “gran rifiuto”. Quanto è sempre più facile che botteghe, bar e locali di ogni genere accettino il periodico, tanto avverto una certa diffidenza da parte di alcuni parroci nell’accettare nella propria chiesa una voce che intende essere riflesso del messaggio di Cristo, che però si incarna nel concreto delle problematiche esistenziali e non vuole volare nella stratosfera di verità fumose e che non impegnano per nulla.

“L’Incontro” non è e non vuol essere il portavoce di una parrocchia e perciò non può essere considerato come “illecita concorrenza”; né è pure la voce della Chiesa veneziana, ma intende solo rappresentare la rimeditazione del messaggio evangelico, attenta alle problematiche vive della nostra società. Intende inoltre contribuire, anche se marginalmente, alla incarnazione della Parola di Cristo nel contesto della nostra società e del nostro tempo. Il desiderio della redazione è quello di offrire un contributo, seppur modesto, per la rievangelizzazione del nostro territorio.

Dato poi che il periodico è distribuito gratuitamente, perché è finanziato non da lobbies che hanno obiettivi più o meno interessanti, ma dalla generosità di volontari che si impegnano a stamparlo e diffonderlo, è più appetibile ai concittadini dei periodici, anche di taglio religioso, che hanno un prezzo di copertina.

Riesce perciò incomprensibile che dei discepoli privilegiati di Cristo rifiutino questo strumento pastorale che rilegge, ogni settimana, il pensiero di Cristo e tenta di tradurlo nel contesto del nostro tempo e della nostra società.

A Mestre fortunatamente vengono diffusi altri periodici di istituzione religiosa ben più ricchi di contenuti, di notizie e di riflessioni de “L’incontro”, quali “Gente veneta”, “Famiglia cristiana”, “Il messaggero di sant’Antonio”, “Avvenire”, ecc. Credo però che, anche si sommasse il numero di copie di tutti questi giornali, non si raggiungerebbe complessivamente il numero di copie settimanali de “L’incontro”.

E’ chiaro che noi della redazione vogliamo rispettare le opinioni di ognuno, ma ci riesce difficile comprendere i motivi di queste resistenze, soprattutto quando certe realtà parrocchiali non riescono a “parlare” alla loro gente che con fogli piuttosto miserelli.

Il Don Vecchi 5 è una lode a Dio che nasce dalla nostra fede e dalla carità cristiana

E’ arrivato il finanziamento della Regione per realizzare il nuovo Centro “don Vecchi” per gli anziani in perdita di autonomia fisica. Ora possiamo sperare di riuscire a far vivere in maniera autonoma anche gli anziani, che pur avendo ancora la testa a posto, hanno bisogno di più di un supporto per godere ancora della loro autonomia decisionale e “da persone” fino all’ultimo respiro.

La stampa locale sta dando molta evidenza a questo fatto e credo che abbia ragione perché si tratta di “un fatto epocale” che finalmente difende la libertà e l’autonomia dell’anziano, lo rende libero da dipendenze burocratiche, da un lato, e dall’altro gli permette di non pesare sui figli, che in questo momento di crisi hanno essi stessi molto da faticare per arrivare alla fine del mese.

Nello stesso tempo permette all’ente pubblico di non dissanguarsi per dover affrontare rette pesantissime ed impossibili con l’aumento esponenziale della popolazione anziana e la diminuzione della forza lavoro che si sobbarchi questo peso economico.

A questo riguardo sento il bisogno di precisare qualche aspetto che potrebbe essere frainteso. La Regione non ci regala nulla; ha costituito un fondo di rotazione col quale possiamo affrontare il costo della struttura, ma dovremo restituire fino all’ultimo millesimo ciò che ci viene anticipato.

Al Comune abbiamo chiesto “il diritto di superficie” per costruire la struttura. Neanche questo ente ci darà niente per niente: pagheremo questo diritto di superficie pur alleggerendo l’onere del Comune di pagare delle rette veramente salate alle case di riposo per non autosufficienti.

Da noi i futuri residenti pagheranno solamente i costi condominiali e le utenze e chi avesse un reddito abbastanza consistente darà un contributo di solidarietà per chi ha la pensione minima. Tutto ciò si chiama, ed è, solidarietà. Molti lo daranno volentieri questo contributo mentre gli avidi e gli egoisti invece lo dovranno fare perché questo è giusto.

Se il Comune sarà sollecito ed intelligente quanto la Regione, al massimo entro due anni la nostra città potrà disporre di quasi quattrocento alloggi per anziani poveri e questo non è poco.

Voglio precisare altre due cose che reputo importanti: le nostre strutture sono e saranno, oltre che comode, anche signorili, perché siamo convinti che “i poveri sono i nostri padroni”! Secondo: questa operazione la consideriamo una lode a Dio che nasce dalla nostra fede e dalla carità cristiana, poiché vogliamo che non si rifaccia a criteri di beneficenza e di filantropia. Stiamo facendo tutto questo solamente “perché Dio lo vuole!”.

Scelte, prezzi da pagare e risultati raggiunti

La bega con un mio confratello mi ha reso alquanto amara la vita in queste ultime settimane. Mi addolora quanto mai non riuscire a vivere in pace con le persone con le quali dovrei avere quasi tutto in comune.

La mia vita da prete quanto è stata bella e positiva nei riguardi dei cosiddetti “lontani”, altrettanto è stata difficile con i “vicini”, e più ancora con i colleghi. Le incomprensioni sono state molte e le critiche mi hanno spinto a chiudermi a riccio e ad isolarmi dalla mia confraternita.

Per natura e per scelta rifiuto le chiacchiere inutili, i convegni perditempo, il seguire le mode correnti, il “far da tappezzeria” alle cerimonie, i riti ampollosi e un certo servilismo ecclesiastico. Ho pagato di buon grado e senza chiedere sconto il prezzo che questa libertà comporta. Mentre mi sono speso totalmente per la mia gente, ho amato appassionatamente la mia comunità, non ho mai fatto vacanze, non mi sono mai alzato dopo le cinque e mezza e fino a quando sono andato in pensione non mi sono mai ritirato per il sonno prima delle 23.

Penso di aver amato ed ascoltato il mio vescovo, pur mantenendo la mia dignità di persona, la mia libertà di pensiero e l’onestà di rapporto. La mia casa è sempre stata aperta, non mi sono mai negato a nessuno ed ho continuato a farlo, ho sempre affermato che nessuno mi avrebbe mai recato disturbo per alcun motivo.

Ho visitato ogni anno una o più volte tutte le famiglie della mia parrocchia, anche le più ostiche, perché ho sempre ritenuto che il Signore mi mandava per tutti.

Nella mia comunità non ho mai permesso che alcun gruppo prevaricasse sugli altri. Ho mantenuto aperto il dialogo presenziando a tutti gli appuntamenti più significativi, quali il battesimo, la prima comunione, il matrimonio. Ho accompagnato alla tomba tutti i membri della comunità. Ho tentato di offrire il messaggio di Gesù tramite un settimanale che ha raggiunto le 3500 copie settimanali, un mensile inviato a tutte le famiglie, un mensile per gli anziani, una emittente radiofonica.

Tutto questo non lo ritengo un merito, ma solamente l’adempimento al mio dovere. Non ho mai preteso che gli altri si allineassero a me.

Credo di aver ottenuto qualche risultato: nel censimento è risultato che frequentava il 42% dei parrocchiani, ho lasciato 200 scout, cento chierichetti, il centro per gli anziani, una florida pastorale per gli sposi e delle strutture d’eccellenza.

Mi si accusa di essere autoreferenziale, di non adeguarmi agli indirizzi pastorali del vicariato della diocesi. Forse hanno ragione su questo punto, ma certamente torto marcio sui risultati.

Il cardinale Scola disse: «Chi ha gambe corra». Io ho tentato di farlo, mi spiace se qualche “zoppo” rimane indietro, ma non so cosa fargli!

Mio fratello Luigi ha dovuto chiuder bottega

Non passa settimana che non appaia sui giornali il triste “bollettino di guerra” nel quale vengono comunicate le “perdite subite” nelle aziende d’Italia. Ormai si contano a decine o centinaia le chiusure di piccole aziende sorte dall’iniziativa, dalla laboriosità e dallo spirito di sacrificio di certi operai o capomastri intelligenti e volonterosi che si sono messi in proprio; spesso piccole aziende estremamente efficienti che hanno prodotto lavoro e ricchezza per il nostro Paese, e soprattutto hanno formato una schiera di operai specializzati competenti e con comportamenti professionali sani e laboriosi.

Quando leggo queste notizie rimango amareggiato e preoccupato che l’Italia sperperi e si privi di quella che è la sua autentica e specifica ricchezza, non avendo essa giacimenti di petrolio o miniere di metalli preziosi. D’altronde i mali di questo nostro povero Paese sono talmente tanti, che si arrischia di abituarsi a questi “necrologi” aziendali.

Quando però la notizia tocca da vicino, essa diventa un vero dramma. Mio fratello Luigi, col 31 dicembre, ha chiuso l’azienda di falegnameria che mio padre ha aperto ottant’anni fa e che lui ha condotto brillantemente e con successo fino all’altro ieri. L’età di mio fratello, ma soprattutto le tasse, e più ancora la terrificante normativa e burocrazia che vige per l’impresa familiare, trattata come una multinazionale, l’ha costretto a chiudere.

Io, tornando a casa, non sentirò più il profumo dell’abete o del larice appena tagliati, la “musica” della pialla o della sega a nastro, e per uno come me che ha passato la sua fanciullezza tra i trucioli, a scaldare la colla caravella e a raddrizzare i chiodi storti per riutilizzarli, sarà come sentir morire una lunga parte della vita. Per mio fratello sarà poi un dramma che renderà triste la sua vecchiaia.

La bottega della mia famiglia ha cominciato a morire però ormai da anni, quando sindacati e Stato hanno fatto scomparire l’apprendistato, preferendo che all’artigiano subentrasse l’operaio alla Charlot, parte integrante di una catena di montaggio, facendo così scomparire l’artigiano è il “parente prossimo” dell’artista, per farlo diventare una “rotella” della macchina anonima.

Mi sarà più triste tornare a casa non trovando più gli odori e i rumori del mio passato. Il mio “piccolo mondo antico”, povero ma vivo e bello, è ormai morto, anzi fatto morire, e così l’Italia sarà ancor più povera.

Ancora una parola su don Verzè

Una saggia e umana sentenza dell’antica Roma recita: “Parce sepolto”, lascia stare i morti. Cosa che ritengo giusta e che voglio sempre rispettare.

Ieri ho letto la notizia della morte di don Verzè, proprio nel giorno in cui il “San Raffaele”, la sua splendida creatura, è stato messo all’asta.

Credo che questa sia la terza o quarta volta che mi occupo della figura e della testimonianza di questo vecchio prete veronese, ma che spese la sua vita nella città di sant’Ambrogio, Milano. I miei interventi sono stati altalenanti: ammirazione, stupore, delusione, recupero e quindi amarezza.

In questi ultimi tempi la stampa è stata particolarmente cattiva col fondatore dell’opera colossale del San Raffaele. I laici, nel senso più negativo del termine, non gli hanno di certo risparmiato critiche, accuse e non hanno mancato di puntare il dito sulla vita, l’opera, il pensiero e la moralità civica di quest’uomo di Chiesa. L’opinione pubblica cattolica è stata piuttosto tiepida nella difesa di questo religioso, ha preso le distanze, se ne è lavata le mani, consegnando idealmente alla magistratura, organo della giustizia civile, l’impresa di questo prete.

Io ritengo di dover spendere una parola ancora per questo sacerdote che ha tentato di inserire nell’umano, nella concretezza e nella società il precetto cristiano della solidarietà. Non spetta a me, fortunatamente, dare un giudizio sulla vita e sull’opera di don Verzè – fra l’altro non ho una conoscenza seria su quanto ha fatto. Però sento il dovere di aggiungere una considerazione a favore di questo prete che, nonostante tutto, ammiro e stimo.

La società e pure uomini di Chiesa, che non si sporcano le mani con la vita, che sono prudenti della peggior prudenza perbenista, che si garantiscono al massimo, che non hanno il coraggio di rischiare, che si limitano a criticare gli altri, che non si spendono tutti per una causa, che pensano sempre a fatti propri e al loro tornaconto, in maniera ipocrita si limitano a criticare e a giudicare. Così han fatto con don Verzè, il quale può aver pure sbagliato, ma ha fatto quello che nessun cittadino e nessun prete ha tentato e saputo fare.

Chi fa può talvolta ed in parte anche sbagliare, ma chi non fa sbaglia sempre e sbaglia di grosso.

Don Verzè potrà sempre dire a Cristo, l’unico che lo può giudicare con giustizia: «Signore, ho esagerato, ma tu per primo me ne hai dato l’esempio, giocandoti tutto per gli altri e ottenendo la mia stessa sorte».

Sono convinto che sbagliare per troppo amore non sia una colpa, ma sempre e comunque un merito. Ho pregato per don Verzè e l’ho pregato. Desidero e mi propongo di seguire il suo esempio solitario piuttosto che quello della moltitudine di prudenti, inetti, pavidi ed inconcludenti.