“Le luci del tramonto”: il diario del 2010

Per un “blitz” di persone che mi vogliono bene e han creduto di farmi piacere, è stato dato alle stampe il mio “Diario del 2010”. Questa cara gente non solamente si è sobbarcata l’enorme fatica di inserire al computer le 330 pagine di testo, correggere quanti più errori possibile, ma anche ha mitigato il titolo del volume, sostituendo quello che avevo ipotizzato “Il canto del cigno”, con quello più saggio “Le luci del tramonto”, dandomi così la possibilità di trovare seppur un piccolo spazio per il titolo del diario 2011.

Fra pochi giorni avrò 83 anni, segnati soprattutto negli ultimi venti da interventi chirurgici di non poco conto. Talvolta mi sorprendo di essere ancora vivo e più ancora mi provoca gioia e riconoscenza l’avere ancora la possibilità di impegnarmi per l’avvento del Regno e la grinta per portare avanti le mie idee circa la pastorale, la vita, la società e la Chiesa.

Sono sempre stato un solitario, pur costantemente partecipe agli eventi che riguardano la collettività e il cristianesimo in particolare. Ora mi sento ancora più solo perché la mia visione della vita mi pare così poco condivisa.

Scrivevo poco tempo fa nelle pagine di questo testo di “confidenze” e di “reazioni”, che torno spesso sugli stessi argomenti, non solamente perché sono vecchio, ma soprattutto avvertendo che mi resta ancora poco tempo, e perciò sono preoccupato di ribadire le “mie verità”, perché temo che non ci sia più alcuno ad offrire quegli apporti che nascono dal profondo della mia coscienza che, fondamentalmente, è rimasta libera dalle mode dell’opinione pubblica e dalle convenienze.

Confesso che ogni tanto mi capita di leggiucchiare qua e là qualche pagina del volume tanto lungo e tanto pesante del mio diario e finisco sempre per ringraziare tutti quei cari amici che hanno reso possibile questa bella avventura e il buon Dio che mi aiuta a contribuire in positivo – o forse anche in negativo – alla maturazione di una Chiesa più coerente ed una società più sana.

La reazione dei cattolici sulla questione dell’ICI

Io sono per natura, per convinzione e per scelta, un cristiano ed un prete “interventista”. Credo che i cristiani non debbano rassegnarsi sempre alla difesa, ma debbano spendersi “all’attacco”. Non debbano trincerarsi attorno al campanile, ma paracadutarsi ove c’è la mischia, ove si fa la storia e si costruisce l’opinione pubblica.

I cristiani non devono lasciarsi vincere dalla paura, temere gli avversari, ma devono buttarsi fuori dalla trincea, perché essi posseggono gli strumenti migliori, hanno delle motivazioni assolutamente più valide, degli obiettivi più rispondenti ai bisogni dell’uomo.

Mi fanno pena i “cristianelli da sagrestia”, come li ha definiti non so se il cardinale Ottavini o il cardinale Siri. Il tempo dei martiri non è finito, e se uno crede, deve essere disposto a pagare qualunque prezzo per le sue convinzioni.

Questo mio modo di pensare mi ha portato a provare un senso di soddisfazione riguardo le nette prese di posizione dei vescovi, della stampa cattolica e perfino dei preti in merito ad una questione marginale ma significativa, ossia il problema dell’ICI.

I soliti mangiapreti, anticlericali all’ennesima potenza, quali sono i radicali capofila, i massoni, liberali e politici dell’estrema sinistra hanno montato una indegna campagna di stampa, volendo far passare l’idea che la crisi economica è determinata dal fatto che la Chiesa non pagherebbe l’ICI.

M’è piaciuto l’intervento di Bagnasco col suo “Parliamone!”: se c’è qualcuno che sgarra, intervenite, ma non siate così stupidi e faziosi da “mettere in ginocchio” preti, frati, suore e parrocchie, che stanno dando una mano allo Stato impegnandosi fino allo spasimo per aiutare i poveri, educare i ragazzi, combattere i mali della società.

Bocca, il prestigioso giornalista di sinistra, morto poco tempo fa, con onestà intellettuale ed autentico anticonformismo, scrisse qualche anno fa: “Se gratti e vai a vedere che cosa ci sta dietro ad ogni opera benefica e solidale, al novantanove per cento trovi sempre un prete, un frate o una suora”.

Sono stato tanto felice di riscontrare in questa occasione un sussulto di orgoglio e di coraggio da parte dei cristiani d’Italia, i quali finalmente hanno reagito alla “carognata radicale” e al codazzo più reazionario e retrivo della nostra società. “Forza, cattolici!”.

La Bibbia che sogno

Ebbi modo in passato di citare un libro che ho letto moltissimi anni fa e che mi ha interessato oltremodo. Si intitolava “La Bibbia aveva ragione” e tentava di spiegare con una razionalità lucida e con argomentazioni condivisibili, quelle pagine della Bibbia che noi, uomini disincantati del terzo millennio ed eredi del secolo dei lumi, non riusciamo ad accettare come avvenimenti reali.

La spiegazione che quel volume portava non escludeva “il miracolo” o l’intervento divino, ma li riconduceva ad una cornice comprensibile ed accettabile senza che “gridasse vendetta” alla nostra esperienza e alla nostra razionalità.

Porto ad esempio un episodio della Bibbia che ricordo; il passaggio del Mar Rosso da parte degli ebrei e l’affogamento dell’esercito egizio. Secondo l’autore avrebbe soffiato un forte vento che avrebbe abbassato il livello dell’acqua così da permettere, nei guadi meno profondi, il passaggio degli ebrei. Al cessare del vento del nord si sarebbe alzata la marea affogando gli egizi. Noi a Venezia ne abbiamo un’esperienza lampante con la marea che si alza e si abbassa a causa del vento di scirocco.

Per associazione di idee pensai a questa tesi leggendo, durante l’avvento, la bellissima pagina di san Luca che racconta l’annunciazione e che il Beato Angelico tradusse con i colori dolcissimi ed incantati della sua tavolozza.

Ho letto in passato una Bibbia, o meglio alcune pagine della Bibbia scritte non nella traduzione letterale, dall’aramaico, ma in un italiano corrente. Era quanto mai piacevole la lettura che si rifaceva alla lingua che noi comunemente parliamo. Io però sognerei ancora un passo oltre, ossia che qualcuno fosse capace di decodificare il testo, che si rifà ad una tradizione ed una cultura infinitamente lontane e diverse dalla nostra, leggere e riportare “il mistero” alle conoscenze, alla sensibilità e alle leggi scientifiche che siamo andati scoprendo durante i secoli.

Avevo tentato di fare io questa operazione che reputerei tanto importante per dare razionalità a tutti gli eventi narrati dal Vangelo, ma da un lato mi sono accorto che non ho la capacità di farlo e dall’altro che non so neppure se sia possibile farlo senza nulla togliere all’intervento di Dio. Faccio un esempio: per me sarebbe molto più comprensibile ed accettabile che l’arcangelo Gabriele (sapendo che angelo significa “messaggero”) fosse raccontato come una “intuizione”, una “folgorazione” che illumina improvvisamente la mente della Madonna, piuttosto di quell’essere strano con due ali sulle spalle di cui mai nessuno ha incontrato un esemplare.

Lascio perciò a chi è più colto di me portare avanti questo progetto ambizioso, ma allettante.

Carpinetum

Qualche tempo fa un mio giovane collega mi chiese un consiglio: se fosse stato opportuno continuare a pubblicare un mensile che aveva trovato “agonizzante” quando è entrato nella mia vecchia parrocchia.

Per prima cosa mi venne in mente la genesi di quel periodico. Nel ’71, quando arrivai a Carpenedo, “infuriava” la contestazione. Capii immediatamente che se volevo colloquiare con la mia gente, dovevo procurarmi uno strumento. Scelsi un periodico con cui poter dire la mia sui vari problemi che riguardavano la comunità. Scelsi come testata “Lettera aperta”, perché fosse ben chiaro che quanto essa riportava era “la mia” voce.

La gente che veniva a messa prendeva il foglio settimanale ed aveva modo di conoscere il pensiero del loro parroco. Il foglio ebbe fortunatamente un certo successo, tanto che si arrivò alla tiratura di 3500 copie settimanali. Capii però, quasi subito, che il foglio, che portava prevalentemente notizie ed appuntamenti, raggiungeva solo i praticanti, che non hanno mai superato il 25-30 per cento dei residenti in parrocchia.

Io però mi sono sempre sentito mandato ad “annunciare il Regno” a tutti i seimila abitanti e quindi dovevo passare il messaggio di Cristo, i valori, la lettura della vita, e non solo notizie.

Allora diedi alle stampe il mensile che chiamai “Carpinetum”, per motivi di toponomastica, e lo mandai ogni mese in tutte le famiglie praticanti, presenti saltuariamente, credenti, scettiche e non credenti, perché la proposta di Gesù giungesse proprio a tutti.

Studiai le rubriche in maniera tale che suscitassero curiosità e, meglio ancora, interesse.

Ricordo in proposito che una di queste rubriche la pubblicai in due o tre volumi col titolo “Ai miei parrocchiani che non vengono in chiesa”.

La mia risposta al giovane collega, intelligente e volonteroso, fu quindi decisamente un “si”, perché l’attività pastorale non deve avere come primo obiettivo la pratica religiosa, ma l’acquisizione di valori cristiani, ossia la proposta per la conoscenza del pensiero di Cristo sulle varie problematiche della vita. I riti e la pratica religiosa, se non vogliamo che si riducano ad essere qualcosa di magico, devono diventare mezzo per proporre le grandi verità cristiane, cioè: Dio creatore, la sua paternità e la sua misericordia, il senso positivo della vita e via dicendo.

Quando mai le nostre parrocchie sviluppano questo obiettivo, con che mezzi e con quali risultati? Sono convinto che sia urgente e necessario un ripensamento radicale di tutta la pastorale, perché è cristiano non chi va a messa, ma chi vive secondo l’insegnamento di Gesù.

Spero proprio che il Papa non ci metta tanto a nominare il nuovo Patriarca (come sempre questa riflessione risale ad un po’ di tempo fa, NdR), e scelga quello giusto, perché non mi pare siano molti i vescovi che abbiano chiari questi obiettivi da proporre ai loro preti.

Un funerale alla vigilia di Natale

Per tanti anni ho ritmato l’attesa trepida del Natale sul “Sabato del villaggio”, la dolce poesia imparata da fanciullo. E’ proprio vero che l’attesa di ogni evento lieto ha un suo profumo particolare; essa offre al cuore un qualcosa di indefinibile che sa di sogno, desiderio e speranza.

Forse talvolta la vigilia è già di per se stessa un qualcosa di così bello che è quasi un dono a sé stante, forse persino più dolce della festa stessa. Da vecchi però lo stupore, il desiderio, hanno bisogno di essere alimentati con particolare intensità, perché pare che il cuore si sia scaricato e non sia più capace di emozioni calde.

Questo era lo stato d’animo con cui quest’anno ho tentato di prepararmi a vivere il Natale, nel ricordo delle tante vigilie di Natale vissute con struggente attesa del giorno più caro dell’anno.

Quest’anno un paio di giorni prima di questo lieto evento mi è stato chiesto di celebrare un funerale proprio il giorno della vigilia. Per un attimo ho provato quasi disagio e desiderio di rifiuto. Passata però l’iniziale perplessità, ho pensato che avrei potuto compartecipare con la persona a cui avrei dato l’ultimo saluto, al suo splendido e definitivo Natale celeste. Questo pensiero ha addolcito la nota amara della mia vigilia.

Sennonché, all’ora fissata, i necrofori portarono all’altare, già addobbato per la festa, la povera bara di abete dipinto e mi dissero che temevano che non sarebbe venuto nessuno. E fu così! Nella mia piccola chiesa, che pur offre la calda ospitalità di una baita di montagna, mi trovai io, la bara, Cristo nel tabernacolo e le duecento sedie vuote.

Chiesi a suor Teresa, impegnata per i preparativi del Natale, di dar volto ai parenti, alla città, alla chiesa universale, per l’ultimo saluto a quella figlia di Dio. Noi due, in solitudine, abbiamo presentato al Signore quella creatura di cui conoscevamo soltanto il nome.

Confesso però che quella solitudine, quel silenzio, mi han fatto sentire più che mai il bisogno assoluto che Dio sia con noi, che non ci abbandoni alla desolazione di un mondo ogni giorno più anonimo, fatto di persone tutte ripiegate su se stesse ed incapaci anche dell’ultima occasione per essere solidali.

Durante il rito è riaffiorata più volte la preghiera “Vieni Signore Gesù, abbiamo bisogno di Te”. Forse era da tanto che non pregavo con tale intensità.

Propositi per la vita

Un’altra volta ho dovuto sottopormi ad un breve ricovero in clinica a Padova. Questa volta è stato un intervento per un accertamento sulla pericolosità del “nemico”, perché i sanitari stanno portando avanti la “guerra” con la strategia dell’anticipo e della prevenzione.

Mi sono ritrovato nel candido lettino a riflettere sulla vita e sul domani. Una domanda lucida e impellente si è presentata alla mia coscienza: “Perché combatti da così lungo tempo, preoccupandoti, portando il peso della paura, impegnando un mondo di persone che si fanno carico della tua salute e facendo spendere alla collettività tanto denaro?”. Tante volte mi sono chiesto quanto costa un ricovero anche solamente per un paio di giorni in ospedale. Tutto questo potrebbe essere giustificato se questo mio combattere contro il male – impegno che finora ha segnato vittorie, seppur parziali, pagate a duro prezzo – una volta raggiunto l’obiettivo ottenuto di prolungare la vita, mi desse la capacità di godere appieno di questo risultato e di riuscire poi ad impiegarlo per essere felice e far felice le persone che abitano il mio piccolo mondo.

Mi rode il pensiero: “Perché ti sottoponi a tanta fatica e coinvolgi tanta gente in questo sforzo, se poi spesso sciupi, butti via o comunque non godi appieno di quelle meravigliose e stupende possibilità che ti offre la vita?” e continuo poi dicendomi: “Se tu fossi minimamente coerente, dovresti vivere appieno ogni momento, ogni incontro ed ogni rapporto con le persone e con il creato, dato che ti sei salvato o qualcuno ti ha salvato”.

Allora ogni volta che mi trovo impegnato in questo combattimento per sconfiggere il “nemico” che tenta di rubarmi questo bene così prezioso, rifaccio i vecchi propositi, mai mantenuti: “Sarò felice anche per le cose più piccole, accoglierò ogni persona con cuore aperto e fraterno, mi presenterò sempre con in mano un fiore o un sorriso, con un sentimento di simpatia, di calda comprensione e di vera solidarietà!”.

Pur sapendo che mi sarà tanto difficile mantenere questo proposito, perché mille volte non vi sono stato fedele, almeno per un minimo di coerenza devo ritenerlo con ancor più determinazione, perché solamente facendo così, posso sperare che il buon Dio mi faccia dono di un po’ di vita in più.

L’importanza di comunicare i giusti messaggi

Il cardinale Urbani, veneziano e patriarca di Venezia, lo sentii tanti anni fa ripetere alcune sentenze che solo ora capisco quanto sagge fossero, pur nascendo da una cultura popolare del nostro Veneto e dall’ambiente ecclesiastico: “Quando hai bisogno che qualcuno ti faccia un favore o ti dia una mano in una tua qualche difficoltà, non andarlo a chiedere a chi non ha niente da fare, perché ti dirà sempre di no, chiedilo invece a chi è molto occupato, perché questi troverà sempre un po’ di tempo anche per te”.

Mio padre, un giorno che mi vide sconsolato perché mi sentivo solo, non sapevo come risolvere un problema che implicava l’aiuto di qualcuno, tentando di rassicurarmi, mi disse qualcosa di simile, ma in una maniera un po’ burlona, com’era suo carattere: «Armando, non preoccuparti, tra tanta gente che gira attorno a te troverai certamente tre o quattro persone che hanno la mania di lavorare, rivolgiti a loro». Il cardinale e mio padre avevano ragione! Finora, anche nei momenti più cruciali, ho sempre incontrato qualcuno “dei soliti” che ha trovato il tempo e la voglia di darmi una mano.

Credo che questa sentenza apparentemente ingenua e popolare corrisponda alla grande verità che Renzo Tramaglino dei Promessi Sposi ha tradotto brillantemente così: “La c’è la Provvidenza!”.

Ricordo un’altra battuta dello stesso cardinale, veneziano doc: “Se tutti ti dicono che sei ubriaco, vai a casa e mettiti a letto, anche se non hai bevuto neppure un’ombretta”.

L’opinione pubblica è estremamente condizionata, specie ora che i mass-media costruiscono “la verità” in maniera massiccia ed industriale. E’ ben difficile andare controcorrente o far passare qualche verità in cui credi. Per questo spendo tanti soldi, stampo migliaia di copie de “L’incontro”, ritorno tanto di frequente sugli stessi concetti che ritengo validi per il bene della società e della Chiesa, perché soltanto ribattendo il chiodo esso finisce per conficcarsi.

Mi meraviglia che certi miei colleghi non credano molto ai mezzi di informazione, non si impegnino sufficientemente per parlare quanto più possibile con i loro parrocchiani. Già nell’antica Grecia si diceva che “la goccia continua scava perfino la roccia”. Il sermoncino domenicale, tante volte anche non molto preparato, non è certamente sufficiente per passare le grandi verità e i valori essenziali per la vita.

Un sì che mi ha edificato

Qualche tempo fa mi è giunta una telefonata che mi ha raggelato: «Sono un ex prete». D’istinto mi venne da tradurre la frase secondo una mentalità che ora fortunatamente non si usa più. «Sono uno spretato!».

Negli ultimi decenni della mia vita sacerdotale ho incontrato più di una volta creature che han fatto questa amara esperienza, ma il rapporto, da parte mia, con queste persone, è stato sempre cordiale e fraterno. Ogni volta si è aperto un dialogo sereno e costruttivo.

Nella mia giovinezza però le cose non andavano così. Ricordo un bellissimo film che portava appunto questo titolo “Lo spretato”. Mi vengono in mente certe scene amare ed altre struggenti: l’incontro di un gruppetto di sacerdoti che avevano abbandonato, volti tristi, delusi, sofferenti, o la scena del protagonista che esce da un locale notturno sul far del mattino e incontra uno spazzino che scopa le foglie ingiallite dell’autunno: «Cosa fai?» gli chiede, e il netturbino gli risponde ovviamente: «Raccolgo i rifiuti!» e lui «Non raccogli anche rifiuti di uomo?» Egli si sentiva un rifiuto della Chiesa e forse ne aveva ben donde. Quanta tristezza! Credo che la vita di chi ha lasciato la sua vocazione e il ministero sacro sia sempre piena di nostalgia e di disagio interiore.

Il mio interlocutore mi chiedeva un alloggio; vive di lavori precari e di espedienti e non ce la fa a pagare un affitto corrente. Di primo acchito rimasi un po’ perplesso, anche perché egli non aveva l’età canonica dei 70 anni fissata per convenzione col Comune di Venezia. Chiesi consiglio a don Gianni, il nuovo giovane presidente della Fondazione. Egli attese solamente un attimo, poi soggiunse: «Io sono per il si; di certo egli ha già molto sofferto!».

Fui felice ed edificato dalla risposta di questo sacerdote che è nato nella stagione degli abbandoni di preti non sufficientemente preparati e adeguati a vivere il ministero “impossibile” del sacerdote in questo nostro tempo e in questa nostra società tanto irrequieta e per nulla disposta a dare una mano a chi è stato travolto da questo dramma. Io di certo non mi ritrovo nelle parole dell’operatore che raccoglie rifiuti di uomo, ma vorrei avere invece il volto di quel Padre meraviglioso che accoglie e fa grande festa al figlio che ritorna dopo le deludenti esperienze di chi s’era lasciato affascinare dai fuochi fatui di questo mondo.

Il Signore è veramente libero, ama tutti e si serve di tutti!

La mia memoria si annebbia e vacilla sempre di più, tanto che sono veramente preoccupato nel fare qualche citazione, temendo di dire “fischi per fiaschi”. Metto le mani avanti, ricordando ai miei eventuali amici lettori la massima che afferma che “i vecchi hanno diritto di dimenticare”. Io mi avvalgo, o meglio sono costretto, ad avvalermi di questa massima.

Faccio questa premessa senza citare, per paura di sbagliarmi, la pagina del Vangelo che, per associazione di idee, qualche giorno fa, mi ha ispirato questa riflessione.

Veniamo al dunque. La Punto che un anno fa mi è stata regalata, pur così usata, è così bella che è dotata persino della radio. La frequenza che normalmente ascoltavo durante i miei brevi tragitti tra il “don Vecchi” e il cimitero e viceversa, era quella di Rai uno, sennonché, qualche tempo fa, non so perché, l’ho perduta e nel tentativo di ritrovarla mi sono imbattuto in una emittente dalla voce a me ben nota; capii subito che si trattava di Radio Radicale. Non mi spostai perché Rai uno trasmette spesso programmi di intrattenimento tanto banali e musiche moderne che mi irritano, mentre i radicali, a qualsiasi ora, mettono in onda discorsi seri, dibattiti, dirette da congressi e sedute del parlamento.

Ho finito per prendere più coscienza delle campagne, dei valori che essi perseguono con tanta convinzione. Più di una volta ho ripetuto che nutro dei sentimenti di amore ed odio verso questa gente tanto settaria ma altrettanto coerente ed impegnata.

Sentendo come Pannella, la Bonino e i loro amici si battono all’arma bianca per la legalità, per il diritto, per modificare il trattamento nelle carceri, per gli aiuti al terzo mondo e per i diritti della persona, mi venne in mente il discorso di Gamaliele davanti al sinedrio in difesa dei cristiani: “Se la loro dottrina viene dagli uomini, essa perirà come tutte le cose umane, ma se viene da Dio, allora non vi capiti di mettervi contro Dio perché non saranno i vostri provvedimenti a distruggerla”.

Da qualche tempo sento il dovere di essere più cauto nel rifiutare in toto chi non la pensa come la Chiesa. Certe battaglie, non solamente dei radicali, mi paiono così giuste che mi viene la preoccupazione che questa gente sia “la mano sinistra di Dio” ed io ho paura di non finire io stesso, per tradizione o per preconcetto, a mettermi contro Dio, perché chi combatte per la verità, la libertà, la pace, la giustizia, è certamente dalla parte di Dio.

Recentemente ho letto qualcosa di don Gallo o della Zarri, cristiani certamente della fronda e del dissenso, però i loro discorsi mi hanno fatto più bene di certi altri melensi, scontati e fumosi di matrice squisitamente cattolica. Il Signore è veramente libero, ama tutti e si serve di tutti.

Un Avvento difficile

Anche quest’anno, mentre il tempo passava inesorabile e le poche settimane di avvento ci conducevano al grande mistero di Dio che si mescola alle vicende e ai drammi dell’uomo, col Natale di Cristo, una volta ancora mi sono sentito avvolto da una ambascia esistenziale struggente e carica di preoccupazione.

Ho avvertito ancora una volta la preoccupazione per non essere capace di condurre la mia piccola comunità all’incontro esaltante con Dio, ma solamente di permetterle – come credo che avvenga troppo spesso ed in troppe comunità cristiane – di avviarsi con candore ed illusione, cullata dalla dolce atmosfera natalizia, ad una celebrazione, ad un rito, oppure ad un qualcosa di misterioso e di magico che al massimo può trasformare la monotonia del quotidiano in un qualcosa di appagante, ma nulla più!

Nei sermoni delle domeniche di avvento i miei tentativi maldestri e confusi di invitare all’ascolto vigile ed attivo degli inviti pressanti ed accorati di Giovanni Battista, m’è parso che cadessero nel vuoto, come per un ripetersi di parole e gesti della tradizione cristiana.

Al termine di ogni sermone, anche di quelli più felici, mi è sembrato che al massimo essi abbiano creato una certa emozione spirituale, ma non siano stati capaci di passare la meravigliosa verità che Dio è presente e lo posso incontrare nel quotidiano anche più banale e nell’uomo sempre e comunque povero e perciò dimora prediletta di Dio.

Ormai sono troppo deciso a rifiutare il misterioso e soprattutto il magico nei riti e nella festa, stimandoli solamente dei mezzi propedeutici all’incontro vitale con Colui che solo mi può salvare da una vita fatua, piccola ed insignificante. Tuttavia più in me è diventata lucida questa verità, più ho avvertito amaramente la mia inadeguatezza a portare avanti il ministero della grazia e della salvezza alla scoperta e all’incontro col Salvatore.

Qualche settimana fa ho pubblicato su “L’incontro” la preghiera del saltimbanco, che diceva pressappoco: “Signore, io sono solamente un saltimbanco, povero e ignorante, nella mia vita non ho fatto niente di importante, però ti ho sempre cercato ed amato, non rifiutarmi o Signore”. Credo che purtroppo tocchi anche a me di rivolgermi al Signore con queste parole.

Il dono di “angeli della notte” venuti da lontano

Credo di aver letto quasi tutti i romanzi di Cronin, il medico inglese che è passato dalla medicina alla letteratura. Non penso che Cronin sia un autore ancora molto letto oggigiorno. Ai miei tempi però i romanzi di questo narratore, dalla prosa scorrevole e dal racconto sempre vivo ed avvincente, erano molto conosciuti, anche perché alcuni sono diventati dei films che hanno ottenuto molto successo, quali “Anni verdi”, “La cittadella”, “Le stelle stanno a guardare”. Di questo autore però ho letto alcuni romanzi che hanno riscosso meno successo, ma che comunque a me sono piaciuti.

Qualche settimana fa, incontrando di primo mattino una delle signore che la Fondazione ha assunto per l’assistenza notturna al don Vecchi, la quale stava terminando il turno della notte, il mio pensiero è andato ad un romanzo minore del Cronin, “Angeli nella notte”, nel quale questo autore descrive, in modo veramente brillante, il lavoro delle infermiere che negli ospedali vigilano notte e giorno gli ammalati.

Cronin, avendo esercitato la professione di medico, conosceva molto bene le mansioni di queste operatrici della sanità. Porto ancora un dolce ricordo della descrizione ricca di poesia di queste giovani donne che, spinte dalla loro calda femminilità, rimboccano le coperte, spengono le luci, danno un sorso d’acqua, chiedono agli ammalati come si sentono, danno le medicine, arrivando talvolta ad un incoraggiamento rasserenante o perfino dando una carezza delicata e carica di affetto.

Nei miei reiterati ricoveri in ospedale, ho avuto modo di riscontrare la bellezza e la preziosità del servizio di queste infermiere che si dedicano al mondo della sofferenza.

Da noi al “don Vecchi” gli “angeli della notte” vengono dalla lontana Moldavia od Ucraina, due paesi le cui donne più intraprendenti e generose sono ormai sparse in tutta Europa.

Mi sono fermato un attimo a salutare questa giovane donna col volto sereno, dolce e sorridente, nonostante avesse vegliato l’intera notte per assistere i nostri anziani che, pur dovendo essere tutti autosufficienti, soffrono invece almeno per l’età – infatti la vecchiaia è di per se stessa una malattia – lo dicevano pure i romani.

Vedendo la composta bellezza di questa donna che è venuta da lontano a donare il suo cuore ai nostri vecchi, ho provato un sentimento di ammirazione, di riconoscenza e d’affetto per il suo dono così caro e generoso.

E’ Gesù che ci insegna a cercare le persone lontane dalla Chiesa

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere e poi fare una riflessione dall’altare su una delle parabole più semplici ed innocenti di tutto il Vangelo: la pecorella smarrita.

Ho l’impressione che oggi noi preti non gradiamo troppo trattare questo argomento perché il titolo e il contenuto della breve e candida parabola è diventato quasi un luogo comune al quale si fa riferimento per la pecorella protagonista del racconto. Mi sono sorpreso di essere un po’ intaccato anch’io da questo atteggiamento che guarda con superiorità di adulto smaliziato questo racconto evangelico.

Il modo di accostarmi al testo sacro proviene anche dal fatto che nella parrocchia della mia infanzia avevamo un vecchio cappellano che non aveva fatto carriera, il quale, nelle sue prediche, ritornava, per dritto o per rovescio prevalentemente su due argomenti: la pecorella smarrita e gli dei falsi e bugiardi con i quali se la prendeva con tanto vigore e passione.

Mentre in sagrestia leggevo il testo per prepararmi alla riflessione dopo il Vangelo, come per una illuminazione interiore fui colpito da un insegnamento veramente forte che la parabola, apparentemente tanto elementare, conteneva. Gesù ci insegna a non covare da mane a sera, e in tutte le occasioni, quel gruppetto di fedeli che costituiscono l’assoluta minoranza del “gregge”, ma a non darci pace, invece, per la stragrande maggioranza delle “pecore” che ora, per un motivo o per un altro, se n’è andata.

Facciamo poco o nulla per i “lontani”. Le nostre comunità non sono attrezzate per questo apostolato ed avvertono altrettanto poco questa esigenza e questo dovere.

“L’incontro” è un periodico a cui sta profondamente a cuore questo problema e “vive” per questo tentativo di dialogo, di approccio e di recupero di chi se n’è andato. Ahimè, forse per questo motivo, che mette una pulce sull’orecchio e che suona come un pungolo, il periodico viene accolto benevolmente da pasticcerie, botteghe, banche, luoghi “laici” per loro natura e trova, purtroppo, l’ostracismo nelle parrocchie.

Proprio qualche settimana fa, mi hanno riferito di un giovane parroco di primo pelo che rifiutava “L’incontro”. Gli scrissi per domandargli se era vero, per non importunarlo ulteriormente, ma questi, come un altro di un’altra parrocchia del centro, neanche si degnò di darmi risposta.

Poco male! Come Paolo di Tarso, lascio pure a questi pastori coccolare i rimasugli del gregge rimasto ed io mi occuperò dei “gentili”, sperando di essere in linea con la parabola della pecorella smarrita insegnataci da Cristo.

Libertà di dissenso e fedeltà di collaborazione

Già nell’antica Roma avevano capito che era fatale che la gente criticasse chi è al governo di una qualsiasi realtà, tanto che si era quasi arrivati a codificare questo comportamento definendolo “jus mormorandi”.

Io mi avvalgo quanto mai di questo presunto diritto, definendolo quasi una virtù, ma faccio estrema fatica a comprenderlo, e peggio ancora ad accettarlo, quando sono gli altri ad avvalersene e a praticarlo nei miei riguardi. Quando infatti mi sento quasi impedito a governare la nave seguendo la rotta che ritengo la più giusta e talvolta anche l’unica praticabile, allora mi appoggio ad un’altra sentenza, che papa Giovanni ci ripeteva spesso per educarci ad una fiducia e ad una collaborazione aperta verso chi ricopriva la carica di guida e si prendeva la responsabilità della comunità: “Miles pro duce et dux pro victoria”. Il cittadino o il cristiano deve fidarsi e collaborare col capo e il responsabile deve impegnarsi per la buona riuscita.

Infatti, specie negli organismi un po’ grandi e complessi, solo chi è al vertice ha una visione completa della situazione e perciò è in grado di orientare i suoi collaboratori a raggiungere il bene della comunità. Questo discorso lo capisco fin troppo bene finché esso dovrebbe orientare il comportamento di chi collabora con me per gestire i trecento alloggi del Centro e per provvedere al bene di quel piccolo popolo di mezzo migliaio di anziani che vi abita; purtroppo avverto molto meno questo dovere quando dovrebbe sorreggere la mia collaborazione con chi mi sta sopra.

Credo che don Mazzolari, il prete che maggiormente ha influito sulla mia coscienza, abbia a proposito una soluzione teorica e poi ne abbia dato una testimonianza non solo convincente, ma anche comprovata dalla storia. A questo riguardo don Mazzolari, che papa Giovanni ha definito “la tromba di Dio nella bassa padana”, offriva il suo motto: “Liberi e fedeli!”. Quanta saggezza e quanta dignità umana e spirituale in questa massima! Libertà di giudizio, di critica, e perfino di dissenso, sempre rispettoso e teso al bene, ma poi comunque fedeltà e collaborazione.

Questo è il mio obiettivo e il mio proposito nei riguardi di “chi mi sta sopra”. Mi auguro però, e spero che lo sia, anche per “chi mi sta sotto”.

Io non avrei altrettanta pazienza!

Col passare del tempo non faccio altro che scoprirmi sempre nuovi limiti e difetti. Ho citato più volte una considerazione che il nostro vecchio ed amato patriarca Roncalli fa nel suo “Giornale dell’anima”, l’equivalente del mio “diario”, ma molto più saggio, in occasione del suo sessantesimo compleanno: “Che bella età, la mia: visione pacata e serena della vita, equilibrio spirituale, capacità di accogliere tranquillamente ciò che avviene, pace interiore”. Non ricordo esattamente le parole del nostro Papa buono, ma questo è il senso della riflessione.

Se io dovessi fare un bilancio, alla mia età, bilancio che dovrebbe essere ancora più equilibrato e sapiente, perché posso fruire di ben più di altri vent’anni di vita, di certo non potrei tirare conclusioni simili a quelle del mio amato pastore. L’accento lo dovrei mettere sull’intransigenza, l’irritazione, l’impazienza verso una società, un mondo e una Chiesa lenti, passivi, sempre propensi al compromesso.

In queste ultime settimane, osservando la fatica del nostro povero nuovo Governo, che ha avuto la generosità di prendersi la pessima “gatta da pelare” lasciatagli da dei politici rissosi, inconcludenti e ciarlatani, mi verrebbe da suggerirgli, di fronte alle critiche contrapposte e ai commenti faziosi: “O così o niente; o si fa come dico io, altrimenti arrangiatevi!”. Io credo che farei così, molto probabilmente con il risultato di sfasciare tutto.

Il povero Monti invece, da volontario, tenta di riparare i guai fatti da gente che s’è pagata e continua a esserlo, e continua con toni bassi e pazienti ad ascoltare, a mediare, sopportando le critiche dei soliti sapientoni inconcludenti e l’irrisione dei buffoni di corte.

Qualche giorno fa ne ho sentito uno che, con una faccia tosta e tono sarcastico ed irridente, criticava il Presidente perché ha la solita moglie da quarant’anni. Quando poi senti i soliti politici, che sanno tutto, fargli le chiose sulle sue scelte di carattere finanziario, materia di cui è uno dei massimi competenti, mi verrebbe da dirgli: “Pianta tutto, lascia che si arrangino!”. Poi finisco per capire che l’aver pazienza è una dote ed una virtù necessaria, mentre io, pur vecchio e “religioso”, mi scopro a non averne per nulla.

Ammiro i tecnici del nuovo governo!

In quest’ultimo tempo, credo come tutti gli italiani e forse come tutti i concittadini europei, sto osservando con infinita ammirazione e simpatia il nuovo “governo dei tecnici”. Mi pare che anche dalle prime mosse, estremamente impopolari, e con dichiarazione persino troppo esagerate di rispetto, a mio umile parere, verso il Parlamento e la politica, dia la sensazione di qualcosa di finalmente onesto, pulito e competente.

Abituato da decenni all’enfasi fabulatoria dei nostri politici di professione, maestri insuperabili nel parlare e nell’imbonire l’opinione pubblica con discorsi da attori di teatro, insuperabili, l’ascoltare i nuovi protagonisti del governo, che cercano le parole, che faticano a far scorrere il pensiero, che sono preoccupati di dire qualcosa di impreciso, m’ha dato l’impressione che finalmente abbiamo dei governanti che rispettano non solo noi cittadini, ma pure il senso delle parole e con fatica cercano quelle che meglio possono esprimere le soluzioni che, con sofferenza, fatica e professionalità, ritengono più giuste per salvarci dal baratro in cui ci hanno cacciato i nostri venditori di fumo che noi, come allocchi, abbiamo votato.

Vedere poi un ministro in lacrime nel dover annunciare provvedimenti pesanti, un capo di governo che dichiara di rinunciare fin da subito alla paga che gli spetta, mentre neppure quel Paperon dei Paperoni di Berlusconi l’aveva mai fatto, il sentire che il primo ministro va a messa con la moglie sposata quarant’anni fa davanti all’altare, che un ministro è il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, capace di trascinare migliaia di volontari a soccorrere gli infelici e che nel contempo è riuscito a riconciliare Paesi africani, in guerra da decenni, o ad organizzare l’incontro tra i rappresentanti di religioni che per millenni si sono guardate in cagnesco e si sono combattute, tutto ciò mi apre di certo il cuore alla speranza.

Non riesco proprio a rimpiangere Berlusconi, Bersani, Di Pietro, Casini, Fini, Bossi e compagnia cantante. Se questi soggetti se ne andassero a casa per sempre sarei ben più felice, preferendo mille volte gente che sa far i conti e che si sa guadagnare la vita anche senza la politica.