Il mio impegno solidale è la mia preghiera

So in partenza che non riuscirò a passare all’opinione pubblica le motivazioni profonde che supportano il mio impegno a creare strutture e servizi per i poveri in generale e, in particolare per gli anziani indigenti. So pure che farò ben fatica a farmi comprendere anche dai cristiani praticanti e perfino dai miei colleghi sacerdoti. I giudizi in proposito che avverto nell’aria sono disparati, ma nessuno corrisponde alla realtà.

Qualcuno, in maniera sbrigativa, pensa che abbia “il male della pietra” e perciò costruisca strutture solamente per questo istinto, indipendentemente da ogni motivazione razionale. Qualche altro, con giudizio più severo, crede che io abbia la mania del protagonismo e perciò i “don Vecchi” siano nati per procurarmi gloria certa. Infine talaltro, più benevolo, approva l’operato pensando che io faccia un’azione di supplenza a quello che dovrebbe fare la pubblica amministrazione o, nella migliore delle ipotesi, che io intenda far da stimolo e da apripista alla società che tarda a farsi carico degli anziani e dei poveri in genere.

Può darsi che la mela che offro alla povera gente e alla mia città abbia nel suo interno qualche vermiciattolo del genere, però io non lo conosco e soprattutto non lo voglio.

Una volta per tutte voglio dichiarare pubblicamente che il mio impegno nel campo della carità cristiana o semplicemente della solidarietà, è per me una espressione coerente alla mia fede, un atto di culto a Dio, come potrebbe essere la celebrazione liturgica, quale una messa bassa o un pontificale. Il mio impegno solidale è semplicemente la mia preghiera e il culto che intendo rendere a Dio come altri preti fanno con la catechesi, la visita agli ammalati o la costruzione di una chiesa.

Qualche anno fa scrissi a proposito di un mio confratello che aveva promosso nella sua chiesa l’adorazione perpetua, che io preferivo invece onorare il Cristo non sotto le specie eucaristiche, ma sotto le “specie umane”, espresse dal povero, dal vecchio o semplicemente da chi ha bisogno, perché ho fatto la mia scelta in rapporto al discorso di Gesù: “Avevo fame, avevo sete, ero nudo, senza casa, in prigione ed in ospedale e tu m’hai o non mi hai dato aiuto”.

A me pareva che la mia scelta fosse coerente, pur nulla togliendo a chi sceglie di onorare Cristo sotto le specie del Pane consacrato.

Il mio confratello non mi comprese o io non mi sono spiegato, per cui sembrò che io criticassi la sua scelta, pur rimanendo vero che ero più convinto della validità della mia.

Per me dare serenità ed aiuto ai poveri, mediante qualsiasi soluzione, corrisponde all’adorazione, alla celebrazione dei sacramenti, alla catechesi o all’azione di evangelizzazione o a quella missionaria. Spero di non sbagliare, anche perché la mia scelta è ben più faticosa di quella di chi sceglie diversamente. Mi conforta però che l’opinione pubblica in genere comprende e favorisce più me che gli altri.

Un commiato senza rito religioso

Recentemente una delle mie “fedeli” che praticano la mia “cattedrale fra i cipressi”, mi confidò con infinita amarezza che era morto un suo congiunto, che pure io conoscevo, e che la moglie e la figlia, pur mie conoscenti, avevano disposto che fosse portato a seppellire senza rito religioso.

Questa notizia mi rattristò quanto mai, sia per il mio vecchio parrocchiano che ha lasciato questo mondo senza un saluto e senza una preghiera, sia per la moglie e la figlia – che, pur credenti, hanno ritenuto doveroso “rispettare” le scelte del loro caro – perché manterranno per tutta la vita la tristezza per questa partenza priva di calore umano, ma soprattutto di speranza.

A questo proposito ho due cose – almeno per me – importanti da dire. La prima: quando muore un famigliare scatta un meccanismo mentale tanto strano quanto assoluto: la volontà o i desideri, veri o presunti, del caro estinto, diventano un imperativo categorico per i suoi famigliari e perciò essi si sentono investiti dallo scrupolo di esaudire in maniera quasi maniacale tutto quello su cui, fino al giorno prima, avevano dissentito o trascurato ma che, chiusi gli occhi, diventa obbligo di coscienza su cui non è possibile alcuna deroga. Questo comportamento, quanto mai diffuso, mi sembra sinceramente irrazionale. Secondo – e qui il problema è ancora più serio – si ritengono, come oro colato e volontà, certe affermazioni fatte in vita, mentre esse sono assai spesso più formali di quanto non si possa credere.

Io ho frequentato e conosciuto personalmente questo fratello, che pur battezzato, comunicato, cresimato e sposato in chiesa, è passato direttamente dal letto di morte al forno crematorio, ho parlato tante volte con lui e credo di essere certo che è stato uno di quegli uomini che, come afferma sant’Agostino, “Dio possiede e la Chiesa non possiede”. Il mio vecchio parrocchiano anche con me si dichiarava non credente, però dell’ateo portava solamente l’etichetta esterna ed anche poco incollata, ma i contenuti di padre, marito, cittadino, lavoratore e sindacalista erano certamente cristiani; nella peggiore delle ipotesi era un cristiano senza saperlo, fortunatamente però per lui ben lo sapeva il Signore e perciò, funerali o meno, quando è arrivato lassù certamente il Signore lo ha accolto dicendogli: “Entra e facciamo festa perché eri lontano e sei tornato”.

Comunque, per buona sicurezza, in qualità di suo vecchio parroco, ho subito, con una preghiera pronta e convinta, chiesto al Signore: “Accoglilo, ti posso assicurare che era un buon diavolo”!

“La fede è bella, senza i ma, i chissà e i perché”

L’argomento non è nuovo, ma se non è nuovo è ancora ben presente nell’esistenza e nel pensare comune, sia dei poco o nulla credenti, come pure dei praticanti.

Gesù, in tutto il periodo che precede l’Ascensione e la venuta dello Spirito Santo nella Pentecoste, afferma più volte e in maniera nitida, che chi chiederà a Dio, nel suo nome, qualcosa di cui ritiene d’aver bisogno, sarà certamente esaudito. Tanti però, per esperienza personale, possono pensare che le cose non stiano così, perché hanno pregato eppure il Cielo è rimasto chiuso e in silenzio.

Ripeto che l’argomento non è nuovo, perché già sant’Agostino, che fu un santo onesto ed intelligente, sentì il bisogno di spiegare questo “rebus” che sembra smentire clamorosamente la promessa di Cristo. Ebbene, il grande e santo Vescovo di Ippona, figlio di santa Monica e convertito da sant’Ambrogio, afferma che quando avviene che non otteniamo ciò che chiediamo accoratamente a Dio, lo si deve – e qui adopera una frase latina concisa e facilmente memorizzabile – al fatto che siamo “mali” o perché chiediamo “mala”, o infine perché domandiamo “male”. Traduco: “mali” = siamo cattivi, in conflitto con Dio e quindi la nostra richiesta non merita risposta, “mala” = chiediamo cose non valide – solo Dio sa ciò che è veramente bene per noi, e infine “male” = chiediamo senza avere una fede sufficiente, ossia una fiducia totale nel Signore.

Da un punto di vista teorico pare che sant’Agostino abbia ragione, quindi nelle nostre richieste dobbiamo tener conto delle tre parole magiche: “mali, mala, male”. A me però rimane ancor più convincente una storiella che ho sentito e che spesso ho adoperato a proposito di questa questione.

In un certo paese di campagna una siccità prolungata stava letteralmente bruciando i raccolti. Allora, come si faceva anche nel mio paese natio, il parroco organizzò una funzione per chiedere la grazia della pioggia. A questo invito una ragazzina si presentò con un ombrello al braccio tra la sorpresa e la meraviglia dei suoi compaesani. «Non vedi che il sole picchia forte?» le chiesero. Al che la ragazzina, veramente credente, ribatté prontamente: «Ma non siamo venuti a chiedere al Signore la grazia della pioggia? Ho portato l’ombrello per non bagnarmi tornando a casa!» Talmente ella era convinta della risposta di Dio!

Mi viene in mente un pensiero di Trilussa, il famoso poeta che scriveva in romanesco: “La fede è bella, senza i ma, i chissà e i perché”.

Credere è fidarsi ciecamente di Dio, mentre le nostre richieste spesso, o quasi sempre, hanno il tarlo del dubbio.

Nozze d’argento nella “cattedrale fra i cipressi”

Ho celebrato le nozze d’argento di due miei giovani amici, durante la messa d’orario a cui partecipa la mia cara e bella comunità nella “cattedrale fra i cipressi” del camposanto.

Suor Teresa mi aveva accennato che queste due care persone intendevano chiedermi di celebrare il venticinquesimo di matrimonio. Le dissi che l’avrei fatto di buon grado.

La sposa la conosco fin da bambina, quando portava il fazzolettone scout, volevo bene ai suoi genitori ed avevo visto crescere in parrocchia i suoi due meravigliosi figlioli. Lo sposo poi è un ottimo professionista che vigila sulla produzione di potassio dell’unico mio vecchio rene che m’è rimasto dopo l’intervento dello scorso anno.

Già mi preparavo per la celebrazione nella bella ed intima cappella del “don Vecchi”. Sennonché qualche giorno fa me li vidi in chiesa ad annunciarmi che avrebbero voluto celebrare le loro nozze d’argento nella mia chiesa, assieme all’assemblea che ogni domenica la gremisce, per cogliere il battito del cuore di Dio, dei fratelli e degli amici in cielo. «Don Armando, abbiamo scelto una soluzione semplice, informale: qui abbiamo i nostri due papà e mia mamma – mi disse l’ancor giovane sposa – partecipiamo alla messa assieme alla comunità e poi faremo una visita alle tombe dei nostri morti. Vogliamo sentirci in famiglia, vicini ai nostri cari, come è avvenuto venticinque anni fa».

Come avrei potuto obiettare di fronte ad un discorso tanto umano, saggio ed anticonformista? L’eucaristia in cimitero è sempre tanto cara; sentiamo ogni domenica sempre più tra noi lo sguardo di Dio, la voce di Cristo e il respiro dei fratelli, tanto che ho la sensazione che questo appuntamento sia atteso con desiderio da tutti, infatti ogni domenica c’è qualcuno in più che si aggrega alla nostra cara comunità.

Questa domenica la presenza di questi due giovani amici, per le loro nozze d’argento, ha rotto un antico pregiudizio che tiene lontano tanta gente dai luoghi da cui sono partiti i propri cari per il cielo. D’ora in poi credo che nella nostra chiesa della Madonna della Consolazione potremo benissimo celebrare il fidanzamento, il matrimonio e tutti gli eventi belli ed amari della vita perché quando si avverte su di noi la paternità di Dio e l’affetto dei fratelli, quel luogo diventa il più propizio per ringraziare e lodare il Signore per quanto di bello ci ha donato.

Una truffa da Internet

Negli ultimi anni del mio servizio pastorale come parroco, avendo intuito come l’informatica l’avrebbe fatta da padrone nei rapporti umani, ho tentato di accostarmi al computer, nonostante la mia veneranda età. Alle prime difficoltà ho voluto illudermi che non avevo proprio tempo per addentrarmi nel linguaggio che la gente, ma soprattutto i giovani, usano comcomunemente. Allora rimandai la decisione per quando sarei andato in pensione, ma di fronte alle prime difficoltà, mi ingannai una seconda volta dicendo che avrei realizzato di più continuando ad usare la mia amata biro.

Da questi antefatti si capisce che la posta via internet, le e-mail e tutte le diavolerie del genere, portano il mio indirizzo, ma giungono nel computer di suor Teresa e lei sfoglia la “posta”.

Qualche giorno fa lei si è precipitata a casa mia con un foglio in mano appena stampato nel suo computer, ma a me indirizzato: «Don Armando, ha vinto quasi un milione di euro, da una lotteria internazionale è stato estratto il suo nome»! Lessi, con comprensibile avidità la notizia, scritta in un brutto italiano; in verità si trattava di 950,210 euro, che avrei ricevuto in contanti una volta sbrigata una serie di adempimenti.

La notizia era troppo bella per essere vera, ma desideravo illudermi che finalmente avrei avuto una buona base di partenza per il “don Vecchi cinque”. Anche in passato, in momenti difficili per le mie finanze, m’ero illuso che il Signore non potesse che aiutarmi, data la causa nobile, per cui chiedevo la grazia e perciò tentai due o tre volte all’Enalotto, ma il Signore pare che non ci sentisse da quell’orecchio.

Tornando alla vincita, telefonai al mio tecnico specializzato in telematica, Gabriele Favrin, il quale, impietoso, mi disse: «Don Armando, si tratta di una bufala, non ascolti, perché perderebbe tempo e soldi!» “Ai periti in arte si deve credere” dicevano i romani ed io ho creduto al mio collaboratore esperto e fedele.

Riprendendo così la vecchia strada, che non mi ha mai tradito: lavoro, risparmio fino all’ultimo centesimo, vita sobria, coerente. Questa strada m’ha portato a delle splendide realizzazioni, che mi sono costate anche sacrifici, ma mi hanno dato anche delle grandissime soddisfazioni.

Mi resta però nell’animo la sensazione di sporco, di imbroglio, perpetrata da gente senza scrupoli disposta a tradire pure la loro madre pur di arraffare denaro. Mi sono inoltre sorpreso perché, pur avendo più di ottant’anni, mi sono lasciato ingannare dal canto delle sirene, pur sapendo fino dai lontani tempi del ginnasio, quanto sono ingannevoli le sirene.

NdR: don Armando è stato contattato dagli autori di questo tipo di truffa. Raccomandiamo attenzione anche ai lettori!

Il milite ignoto del bene

A Roma, presso l’Altare della Patria, in quell’enorme scenario di marmo bianco, riposa il milite ignoto, vegliato notte e giorno da due soldati in armi.

Questo monumento vuole rendere onore ed esprimere riconoscenza a quell’umile fante morto in guerra senza piastrina di riconoscimento, che rappresenta i milioni di giovani “caduti per la Patria” – almeno così si esprime la retorica di un nazionalismo presente anche nello Stato più civile.

Io ho estrema attenzione ed infinito rispetto per quell’umile fante che è morto perché qualcuno più forte e più in alto, che stava al sicuro, glielo ha imposto. Preferisco però gli americani che, almeno a parole, affermano che richiedono ai loro giovani “non di morire, ma di vivere per il bene della Patria”.

Nella Chiesa ci son pure momenti e celebrazioni, parallele a quelle civili, nelle quali si esprime stima e gratitudine per chi si pone a servizio del messaggio cristiano. Io rispetto e condivido queste celebrazioni quanto mai significative, ma vorrei pure io innalzare un monumento al milite ignoto dell’impegno a favore del Regno, un milite che rappresenti quei milioni di figli di Dio e di uomini e di donne di buona volontà che spessissimo nel silenzio, in umiltà e con sacrificio, operano per l’avvento del Regno e per un mondo migliore. Spessissimo si tratta di persone senza segni di riconoscimento, senza mandati ufficiali e senza divisa che, spontaneamente, per un impulso interiore, mettono a servizio del bene la loro intelligenza, il loro cuore e il loro tempo. Presso questo monumento ideale del milite ignoto del bene porrei non due angeli, ma un’intera legione di spiriti del bene perché queste persone che gratuitamente e senza riconoscimenti pubblici continuano in maniera indefessa e generosa a lavorare per il Regno, veramente lo meritano.

Io per fortuna e per grazia ne conosco a decine, o forse meglio a centinaia di questi militi dell’utopia cristiana. Oggi ne prendo uno tra i tanti per collocarlo nel mausoleo che io sogno per gli umili eroi del bene e che, perlomeno per me, possa essere il simbolo del cittadino e del cristiano che si spende per la causa e che non potrà mai aspettarsi un riconoscimento per il suo servizio se non dal buon Dio.

Scelgo un cristiano senza titoli e senza gradi che da una ventina di anni, estate e inverno, col solleone o col gelo, ogni settimana distribuisce per le strade della nostra città un periodico che tenta una lettura cristiana della vita e che semina speranza ed invito alla solidarietà. Non faccio il suo nome perché desidero che rappresenti quelle legioni di volontari che per spirito cristiano, o semplicemente umanitario, servono il Regno o semplicemente l’umanità e nel quale tutti gli operatori pastorali o sociali si riconoscono perché sappiano che perlomeno gli uomini che valutano il bene come valore assoluto, provano per loro stima e riconoscenza e che, nella scala dei valori, li mettono all’apice.

Diario di uno speciale mattino qualunque

Il tempo delle mie elementari risale agli inizi del secolo scorso. La didattica d’allora era, per certi aspetti, diversa da quella d’oggi; allora si cominciava con le aste, ora si legge dopo un mese di scuola. Per la pedagogia le cose andavano meglio: oggi il maestro, se è bravo, istruisce, allora educava, passava valori ed insegnava a vivere. Questa non è differenza di poco conto.

In classe ai miei tempi si faceva lettura, dettato, aritmetica e storia e le lezioni per casa andavano dal tema al problema, o più facilmente al diario. Ricordo come la maestra insisteva perché in questo diario non “snocciolassimo” le solite notizie monotone e ripetitive che contrassegnavano le nostre giornate sempre uguali, ma ci mettessimo un po’ di brio e di novità, almeno nel formulare e nel descrivere ciò che era accaduto.

Questa sera mi ritrovo a domandarmi: “Se qualcuno mi chiedesse il diario di questo giorno che sto chiudendo, mentre mi preparo per la notte, che cosa potrei scrivere di interessante?” Di fronte a questa domanda vedo, come in una carrellata rapida, il susseguirsi di accadimenti per nulla eccezionali, anzi monotoni ed abitudinari, però quanto mai interessanti, ricchi di problematiche, di prospettive che interpellano la mia coscienza e che mi caricano di responsabilità.

Mi piacerebbe, o meglio sarei molto curioso ed interessato, sapere come potrei riferire ciò che è passato sotto i miei occhi, dentro la mia testa e la mia coscienza in questo giorno, tra i tanti, tutti uguali, della mia vita. Oggi ogni gesto, ogni pensiero, ogni avvenimento mi colpisce e mi fa pensare, mi pone domande, mi indica prospettive, nulla mi pare banale e scontato. Credo che la mia vecchia maestra leggerebbe alla classe il mio diario perché sarebbe quanto mai originale, inaspettato, interessante, spero che mi darebbe come voto un 9 o un 10.

Mi fermo al risveglio, perché se dovessi continuare, riempirei tutte le pagine che mi sono state destinate per tutto il 2011. La sveglia è suonata come sempre alle 5,30 proprio nel momento in cui più volentieri avrei dormito. La suora è entrata nel mio appartamentino dolce e leggera ed ha alzato le tapparelle lievemente perché non mi svegliassi di soprassalto e qui cominciano le considerazioni: quanti sono gli anziani che hanno il privilegio di avere una mano amica ed un cuore caldo che si preoccupi perché aprano nelle condizioni migliori la nuova giornata?

«Com’è andata questa notte?» «Bene! Ho finalmente provato l’ebbrezza di non sentirmi in gabbia e mi sono mosso liberamente senza avvertire le stilettate acute di dolore. Finalmente ho ritrovato una libertà di muovermi che da un mese non avevo più!».

Non so cosa avverrà quando metterò i piedi a terra, ma l’essermi potuto muovere quasi a piacimento in letto durante la notte è stato un miracolo, una grazia ed un dono grande di Dio, per cui, appena aperti gli occhi, ho detto di gran cuore “Grazie o mio Signore!”

Quale guida per l’uomo di oggi?

Qualche settimana fa, precisamente la quarta domenica dopo Pasqua, la Chiesa m’ha fatto leggere ai miei fedeli della “Madonna della Consolazione”, una pagina del Vangelo di Giovanni. Gesù in quella pagina, rifacendosi alla condizione ambientale in cui vivevano i suoi ascoltatori, ha adoperato una immagine tratta dalla pastorizia.

La vita degli ebrei del tempo di Cristo aveva come supporto economico l’agricoltura e la pastorizia e perciò Cristo disse che se una persona voleva accettare la proposta che Lui faceva, doveva seguirlo con la fiducia e la docilità con le quali le pecore di uno dei tanti greggi che pascolavano sulle sponde del Giordano seguivano il pastore.

Nella mia infanzia, nella piccola parrocchia di campagna in cui vivevo, il parroco trovava comodo affermare che i fedeli dovevano seguire gli insegnamenti del loro parroco come le pecore di qualsiasi gregge seguivano il loro pastore. Era un buon parroco, ma mi pareva eccessivo dovergli affidare la mia vita. Evidentemente oggi questo discorso mi sembra terribilmente riduttivo e poveri mi sembrano questo paragone e questa lettura semplicistica del testo sacro.

Allora nel mio sermone ho tentato di affermare che anche l’uomo moderno non riesce, anche se lo vuole e si illude di poterlo fare, ad essere totalmente autonomo; è troppo fragile ed indifeso per impostare e risolvere i complessi problemi della vita basandosi solamente sulle sue forze e sulla sua intelligenza e perciò, lo voglia o no, fatalmente deve rifarsi ad una guida che abbia più risorse di lui; sarebbe già un punto positivo se una persona fosse cosciente di questa necessità e poi facesse la sua scelta lucida tra i tanti “maestri” che oggi si offrono più o meno scopertamente, come guide, sia a livello sociale che a quello esistenziale.

A questo punto ho tentato con tutte le mie risorse razionali di evidenziare quanto siano limitati i leaders di oggi e soprattutto quelli che abbiamo conosciuto nell’ultimo mezzo secolo. Nonostante la prosopopea e la supponenza con cui si sono presentati alla ribalta della storia, sono tutti falliti miseramente, siano essi stati filosofi, politici, sociologi. Gli ultimi di questi capi “carismatici” dell’Africa settentrionale stanno crollando miseramente ad uno ad uno in questi giorni.

Conclusi affermando ancora una volta che l’umile e indifeso Gesù di Nazareth rimane l’unico maestro che fa ancora una proposta comprensibile e valida per la vita; quindi feci mie le parole di Pietro: “Signore da chi andremo se soltanto tu hai parole di vita eterna?”, parole ben diverse da quelle fatue o arroganti, saccenti o illusorie dei leaders del nostro tempo.

La proposta che non farò

Ci sono certi eventi che producono nella mia sensibilità umana un impatto così forte da non essere capace di smaltirlo in poco tempo, anche perché ritengo doveroso tenermi nel cuore questa benefica sofferenza.

Ricordo di aver sentito di una certa querelle sorta tra gli alti ranghi del nostro Paese per il fatto che il presidente Napolitano insisteva con decisione per uno stanziamento consistente per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia – e la sfilata delle forze armate fu certamente un elemento clou di questa celebrazione.

Il presidente Napolitano è arrivato un po’ tardi all’amor di Patria perché nel suo passato le sue simpatie erano rivolte altrove, ma ora pare convinto quanto mai perché l’ho visto impettito e commosso di fronte al grande spettacolo di cinquemila soldati, ben vestiti e ben addestrati, alla sfilata (e d’altronde di tempo ne avevano a iosa per prepararsi a questa esibizione).

Io non sono estremamente esperto di conti, ma se comincio a pensare alle paghe da versare a cinquemila uomini, paghe che vanno da quella dell’ultimo volontario arruolato al Capo di Stato Maggiore dell’esercito, ai costi per i carri armati, i camion, i missili, i fucili e quant’altro, la mia mente si annebbia.

Mentre i miei occhi osservavano lo scorrere veloce dei vari corpi in armi, con le loro divise impeccabili e il portamento marziale, il mio animo andò alla proposta ingenua, ma sapiente, di Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi, che una quarantina di anni fa scrisse al presidente degli Stati Uniti e della Russia, dicendo loro: “Datemi ciascuno l’equivalente del costo di un cacciabombardiere ed io risolverò con quel denaro il problema dei milioni di lebbrosi nel mondo”. Non credo che abbia avuto risposta, era una proposta troppo saggia perché dei capi di Stato lo potessero prendere in considerazione.

Mentre io guardavo con curiosità la marcia dei vari corpi del nostro esercito, mi sono chiesto: “Se io scrivessi a Napolitano proponendogli: `Presidente, mi dia il costo della sfilata del 2 giugno, il costo delle paghe dei cinquemila uomini che hanno marciato e delle armi che orgogliosamente hanno mostrato ai ventimila romani che sono andati ad applaudirli, io le garantisco di costruirle tanti “don Vecchi” da accogliere tutti gli anziani poveri che vivono almeno da Napoli a Bologna!'”

Non ho però scritto a Napolitano perché penso che la proposta sia troppo valida perché possa essere presa in considerazione dal capo della burocrazia d’Italia!

Che tristezza guardando quella parata!

Dato il mio stato di attuale seminfermità fisica, causato dalla caduta rovinosa di alcune settimane fa, e dal relativo busto metallico che sono costretto a portare, nella mattinata del 2 giugno, per ammazzare il tempo, mi sono concesso di vedere alla televisione la sfilata militare voluta fortemente da Napolitano per festeggiare ulteriormente i centocinquant’anni dell’unità d’Italia. Uno spettacolo, un autentico spettacolo di denaro pubblico sprecato in nome di una retorica patriottica d’altri tempi!

Mai avrei immaginato che l’Italia disponesse di tanti uomini in arme, di tanti mezzi bellici, di tante specialità e di tante divise e di tanti “eroi” con il petto carico di medaglie al valore!

Come spettacolo non è stato per nulla male, mi sono trovato a pensare alle divise dei soldati di Napoleone, o di quelli di re Franceschiello. Di divise ne sono sfilate di tutti i gusti, bella gioventù impettita – ragazzi e ragazze alla pari – gagliardi e gloriosi. Sciabole sguainate, ordini categorici gridati con decisione e movimenti dei soldati così ritmati che neanche le lancette di un orologio sarebbero più precise.

Ho pensato a quanti soldi sprecati, a quante energie e a quante giornate buttate via per niente. A che cosa può servire un esercito se non per ammazzare, distruggere e portare violenza?

Mentre si avvicendavano i vari corpi militari m’è venuto da pensare prima alla decisione saggia del Granducato di Lussemburgo che una decina di anni fa fa ha deciso di disfarsi dell’esercito mandando a rottamare carri armati e cannoni optando per un forte corpo di polizia per mantenere l’ordine pubblico e al dovere di usare la ragione per regolare i rapporti con gli altri Stati. Poi ho pensato ai volontari, che sono in assoluto i cittadini più nobili e meritevoli, ai quali lo Stato riserva il cinque per mille, collocandolo a suo piacimento e versandolo quando vuole, ma sempre in ritardo. Infine ai milioni di vecchi contadini ed operai che dopo quarant’anni di lavoro, che hanno prodotto non distruzione e morte ma ricchezza e benessere, che alla fine si ritrovano sempre meno di mille euro di pensione, quando non sono che solo cinquecento.

Tutto questo non poté farmi provare se non un sentimento di impotenza, desolazione e tristezza. Alla gente è certamente piaciuto lo spettacolo così variopinto ed inebriante. Neppure gli antichi romani erano nuovi a questi entusiasmi, è infatti nota l’amara sentenza “panem et circenses”, pancia piena e divertimento! Con questa massima però non nascerà mai un mondo migliore.

“Infelice chi confida nell’uomo, fortunato chi confida nel Signore!”

Fra poche settimane inaugureremo il “don Vecchi quattro” di Campalto, altri 64 alloggi per anziani poveri.

Questa non è assolutamente una novità per nessuno. Da tre anni a questa parte non faccio che parlarne a destra e a manca, tanto che questo progetto credo sia diventato il progetto di tutti i miei duecentomila concittadini.

Qualche giorno fa sono stato in cantiere. Mi è sembrato una torre di Babele, ma in positivo: muratori, pittori elettricisti, addetti all’ascensore, piastrellisti, una teoria infinita di fili, di barattoli di pittura, mucchi di piastrelle, alberi tagliati e ruspe per riordinare il terreno.

Agostino, il capomastro, tesseva sorridendo il filo di questa gran ragnatela di operai con competenza e serenità.

Presto il “don Vecchi” aprirà i battenti a quasi un altro centinaio di anziani che avranno una dimora dignitosa, sicura e soprattutto alla portata delle loro magre risorse.

Mentre osservavo con meraviglia questo “miracolo” non meno entusiasmante e sorprendente di quelli di Lourdes e di Medjugorie, mi sono chiesto: “Ma dove ho trovato quei tre milioni e mezzo, ossia quei sette miliardi di vecchie lire, che sono occorsi? Ciò è avvenuto nella stessa maniera di come la fede e le preghiere provocano i miracoli nei più grandi santuari del mondo nei quali il buon Dio o la Vergine elargiscono le loro grazie?

La risposta m’è venuta immediata e perentoria dalla Bibbia: “Infelice chi confida nell’uomo, fortunato chi confida nel Signore!”. Nei miei calcoli di previsione avevo fatto conto sull’aiuto del Comune, della Provincia, della Regione, della Fondazione della Cassa di Risparmio di Venezia, delle banche, dell’Associazione Industriali, tutte realtà alle quali mi sono presentato col cappello in mano per chiedere aiuto.

Molte di queste realtà non mi hanno neanche risposto e quelle poche che l’han fatto, hanno risposto picche. Ai miei amici la voglio fare questa confidenza: dal mio chiedere la carità per i vecchi, che in Italia sono ben cinque milioni e che vivono con la pensione sociale di 580 euro, solamente il Banco di San Marco ha risposto dandomi mille euro.

Dei tre milioni e mezzo di euro occorsi per il “don Vecchi quattro”, solamente mille euro sono giunti da quegli enti la cui prerogativa è lo sperpero! Le pietre del “don Vecchi” di Campalto, tutte le pietre sono dono dei cittadini più poveri della nostra città.

Sto preparando gli inviti per l’inaugurazione; mi viene tristezza e mi sento in colpa se mi rifaccio alla prassi di “invitare le autorità civili, militari e religiose”. Credo che sia giusto che mi rifaccia alla parabola del Vangelo “Invitate i poveri, gli storpi che stanno ai margini della strada, perché essi seggano al banchetto al posto di chi ha rifiutato l’invito”.

Addio a Fra’ Alfonso, il frate questuante, esempio di una Chiesa che rimpiango

Quando sono arrivato, giovane prete, nel 1956, a Mestre, le suore di San Paolo organizzavano banchetti davanti alla chiesa per promuovere la buona stampa e andavano pure, casa per casa, per proporre le loro edizioni e quelle di ispirazione religiosa. Altrettanto, e forse con più determinazione, facevano le Figlie della Chiesa.

A quel tempo la pastorale, ossia l’accostarsi alle anime, non era in posizione di conservazione e difesa com’è spesso oggi, ma gli operatori pastorali, preti, frati o suore che fossero, si impegnavano con iniziative e proposte magari umili ma costanti, mirate a “conquistare le anime”. Poi, pian piano, le suore di San Paolo si ridussero a far da commesse, non sempre “zelanti e brillanti”, nel loro negozio, prima in via Verdi, poi in via Poerio, infine chiesero completamente di andarsene via da Mestre. Le Figlie della Chiesa si ritirarono nel loro guscio di San Gerolamo accudendo a quella chiesa ridotta ormai a mezzo servizio.

Questi ripiegamenti su posizioni più arretrate sono ormai un fatto generalizzato, infatti sono scomparse le associazioni professionali dei maestri cattolici, dei laureati, della Fuci, degli imprenditori, dei preti di fabbrica, dell’associazione cattolica adulti, dei preti che visitano annualmente le famiglie…

Le azioni umili, concrete degli operatori pastorali sono state sostituite da discorsi complicati e da parole roboanti che, a mio modesto parere, macinano aria fritta.

Ho pensato a questo andamento qualche tempo fa, leggendo sul Gazzettino questo trafiletto.

Morto Fra’ Alfonso
Il frate questuante che aiutava i poveri.
Non vedremo più camminare per le calli veneziane, con l’immancabile sacco azzurro sulle spalle, fra’ Alfonso (al secolo Aldo Manfren), dell’ordine dei frati minori. Il frate questuante, per quarant’anni nel convento di San Francesco della Vigna, si è spento sabato nel convento-infermeria di Saccolongo, dove si trovava per le cure della malattia che l’aveva colpito quattro anni fa. Fra’ Alfonso, 74 anni, era nato a Treviso il 9 febbraio 1937. A Venezia era giunto nel 1967 e all’opera di questuante, ha affiancato le attività del patronato parrocchiale, degli Scout e dei chierichetti. Era molto amato dai ragazzi, dai quali si faceva però rispettare con regole rigorose, arrivando, per esempio, a sequestrare il pallone ai giocatori indisciplinati. Ma soprattutto girava per le case e le calli, per ognuno aveva una parola buona, un sorriso, una stretta fraterna di mano: la sua semplicità, la sua umiltà, la sua disponibilità l’hanno fatto un riferimento per tutti i veneziani. Una grandissima amicizia lo ha sempre unito ai Patriarchi.

Certamente il frate da cerca non salvava il mondo ma, a mio parere, era ancora segno di una Chiesa presente, dal respiro popolare, che si mescolava con la vita quotidiana degli uomini comuni. So che certuni giudicheranno questi miei pensieri un po’ romantici e nostalgici di un passato che ormai non c’è più. Forse questo è vero, però mi preoccupo perché il poco pare sia sostituito dal nulla, e questo non è esaltante.

Riuscire a cogliere il vero dono della vita

Qualcuno dei miei vecchi parrocchiani talvolta si ricorda del prete che per quasi mezzo secolo ha guidato la loro comunità e mi chiede di presenziare a qualche momento particolare che ricorda il loro passato. La cosa diventa di anno in anno sempre più rara, però avviene ancora.

Qualche settimana fa due miei odierni collaboratori, che sono stati pure parrocchiani di un tempo, m’hanno chiesto di celebrare le loro nozze d’oro. M’è sempre piaciuto celebrare i matrimoni, perché non c’è avvenimento o “miracolo” più bello che il vedere avanti a sé due giovani che si giurano amore per la vita e che partono per la loro avventura che sognano bella e felice.

La celebrazione delle nozze d’argento e, meglio ancora, quelle d’oro, è ancor più bella perché non si tratta di celebrare una speranza, ma una felice realtà. Chi fallisce nell’amore non viene di certo in chiesa per le nozze d’argento o d’oro.

Nel breve sermone mi rifeci allo schema ormai consolidato da molti anni di ministero, se mai adoperando qualche variante per il caso specifico. In quest’ultima occasione, temendo che la gente col passare del tempo pensi alla vita come ad una realtà del tutto scontata e che soprattutto non possa offrire con la maturità alcunché di interessante, raccontai loro una storiella proveniente dalla cultura dell’estremo oriente, storiella che fa bene pure a me:

“Un pescatore va a pescare sul Gange. Si siede sulla riva, lancia lontano la lenza ed aspetta paziente che il pesce abbocchi, facendo traballare il sughero. Purtroppo sembra che fosse la giornata no, il sughero rimaneva terribilmente immobile. Passa il tempo, il pescatore annoiato mette la mano per terra, trova un sassolino e lo butta in acqua, incuriosito dai centri concentrici che si formano con l’impatto del sasso con l’acqua e che poi si dissolvono leggermente. Per ammazzare il tempo continua nel suo giochetto innocente. Ma buttando l’ultimo sassolino si accorge di un certo brillio e, con sorpresa, vede che si tratta di una pietra preziosa. Da vero incosciente ha buttato via un tesoro!”

La morale venne perfino troppo facile, ma comunque vera: spesso buttiamo via giornate, occasioni, momenti veramente preziosi, non accorgendoci che mentre andiamo inseguendo la fata morgana della felicità perdiamo occasioni concrete per cogliere il vero dono della vita che è nascosto nell’apparente banalità dello scorrere dei giorni e degli anni della nostra esistenza. Questo capita non solamente per gli sposi attempati, ma per qualsiasi categoria di uomini e donne di ogni età.

La Fede deve coinvolgere i comportamenti e le scelte di vita!

Ci sono degli analisti superesperti che studiano il comportamento dell’uomo d’oggi. Nel mio curiosare sulla stampa, mi capita abbastanza di frequente, di imbattermi in studi, inchieste, tavole rotonde o seminari di studio sul modo di concepire il comportamento morale dell’uomo della nostra società.

Io leggo con attenzione questi studi sofisticati che passano sopra i miei capelli bianchi, ma sui quali non sono in grado di prendere posizione perché non riesco a dare un giudizio motivato e convinto. Anch’io però ho modo di notare gli aspetti più macroscopici del comportamento dell’uomo e soprattutto di chi si dice cristiano oggi. Ad esempio oggi ben difficilmente incontro persone che si pongano le grandi domande che a mio giudizio dovrebbero stare alla base del nostro vivere: “Da dove vengo, che cosa ci sto a fare al mondo, dove vado?”.

Mi pare che, generalmente, si viva alla giornata, rassegnati a prendere quello che capita e preoccupati di evitare il peggio! Oggi ben di rado avverto che la gente abbia una coscienza morale, ossia non riesca o non sia preoccupata di non aver capacità di distinguere il bene dal male.

Per moltissimi il male è solamente quello che fa soffrire o che, semplicemente, disturba. Forse è per questo motivo che i confessionali fanno le ragnatele, perché i fedeli non sanno più di che confessarsi. Oggi il dichiararsi credente pare sia un’affermazione determinata dalla tradizione della famiglia o dal non voler far fatica a motivare la propria fede o la propria incredulità. Oggi sembra che fede e morale siano quasi due rotaie che procedono all’infinito camminando ognuna per suo conto senza interferenze e senza incontrarsi mai.

Qualche domenica fa ho tentato di sottolineare ai miei fratelli di fede che celebrano con me l’Eucaristia, la frase precisa di Gesù: “chi mi ama, osserva i miei comandamenti”. Il connubio tra fede e scelte quotidiane a livello esistenziale deve essere come quello tra due fratelli siamesi. La fede che non influenzi la vita è solamente una pia illusione o un’affermazione di comodo, perché essa deve essere l’ago della bussola che indica il nord per ogni comportamento umano che abbraccia economia, politica, rapporti interpersonali, sentimenti, costume di vivere.

Ogni giorno di più mi accorgo che passare questa verità del Vangelo è quanto mai difficile, perché costringe ad andar controcorrente, ma d’altronde il nord è sempre dalla parte che il Vangelo indica.

La Biennale

Io non ci sono stato e non ci vado alla Biennale, benché si trovi a due passi da casa, perché cerco ciò che è bello, che educa e che propone qualcosa di positivo. Di porcherie purtroppo ne incontro ogni giorno senza dover pagare il biglietto dell’ACTV per andarle a vedere ai Giardini di sant’Elena.

Ho letto che Galan, il ministro della cultura, che fino a ieri s’era occupato dell’agricoltura, s’è detto ammirato. Sono certo che l’intellighenzia internazionale parlerà con interesse di questa mostra d’arte moderna. Prendo atto che, avendo abolito i manicomi, ora i matti si possono incontrare ovunque e pare che alla Biennale se ne sia riunito un gran numero, grazie ai soldi dello Stato italiano, estremamente prodigo per certi versi e pidocchioso ed avaro per certi altri – vedi le pensioni – capace di imporre i più svariati balzelli in nome della “cultura” e della emancipazione dei valori della tradizione.

Ho letto, qualche tempo fa, la “critica” della giornalista del Gazzettino Alda Vanzan. Questa cara signora, che io conosco bene perché era una mia parrocchiana fino a qualche anno fa, con fine ironia fa la critica, quella vera, non quella che normalmente s’intende con questo termine tecnico che vuol significare: interpretazione, scoperta dei valori dell’opera d’arte. Da persona sana, che proviene dalla gente del nostro retroterra, indica qualcuna delle stramberie assurde e blasfeme – nel vero senso della parola, perché profanano la natura ed insultano l’intelligenza – e con penna veloce, intinta talvolta nell’ironia e talaltra nel sarcasmo – irride le “opere d’arte” che si incontrano in questo percorso ma che, a mio parere, non ha nulla, proprio nulla a che fare con il bello, il vero, l’armonia.

Di stramberie alla Biennale ce ne sono sempre state, ma quest’anno s’è superata ogni misura. Dalla consegna del dépliant esplicativo, tutto bianco, senza neppure una lettera, al carro armato rovesciato con i cingoli che girano, ad una miriade di piccioni impagliati, alla chiesa con un coniglio sull’altare, alle centinaia di bastoncini per pulirsi le orecchie, all’artista che passa un rullo bianco di pittura su una parete già bianca, alla pornostar nuda che accompagna Sgarbi, ad un artista che rimane impalato per dieci ore per celebrare Garibaldi.

Dire manicomio è poco, troppo poco, ma è ancor più pazzesco che si siano accreditati 4300 giornalisti, che ministri, sindaco, vip e critici insigni si siano precipitati a visitarla e che siano stati spesi milioni di euro per questa porcheria. La pazzia dell’arte è cominciata con un caso singolo: la deturpazione della figura umana di Picasso, ma ora è diventata una pestilenza, per salvarsi dalla quale Venezia dovrebbe far voto di costruire un nuovo e più grande tempio alla Madonna della Salute mentale.