Cosa significa “democrazia”?

Ho “incontrato” anni fa un autore, di cui non ho mai conosciuto il nome, ma di cui ricordo lo pseudonimo un po’ particolare con cui si firmava, “Pittigrilli”.

Di questo scrittore ho letto “Uomini incontro a Cristo” di Genovese della Pro Civitate di Assisi. Il volume è un’antologia di una quarantina di testimonianze di persone, appartenenti ad ogni ceto sociale, che raccontano l’itinerario personale che li ha condotti alla fede.

Pittigrilli era uno di questi. Io lo ricordo per due motivi. Il primo, fondamentale: perché confessava che egli era giunto alla fede per una strada insolita, lo spiritismo. Il secondo, per una sua immagine che mi ha particolarmente colpito e che mi spinge ora alla denuncia che intendo fare e che assomiglia ad una puntura di spillo che fa scoppiare il pallone iridato che fa fin troppa bella figura di sé in un cielo terso.

Afferma Pittigrilli che ci sono certe parole magiche che ritornano di frequente, altisonanti e perentorie, quali; libertà, giustizia, solidarietà, democrazia, ecc., che in realtà sono dei paraventi dietro cui si nasconde la peggior spazzatura napoletana.

Mi fermo al termine “democrazia”, abusato specie dalla sinistra, ma non solo da essa.

Esempio: Napolitano sembra aver il mal di pancia per la democrazia nei Paesi dell’Africa settentrionale, proprio lui che ha plaudito i carri armati russi che hanno soffocato la primavera di Praga e l’insurrezione ungherese. Se c’è uno che non può parlare di democrazia, questo è proprio lui, perché poi anche oggi non può non sapere delle tresche che ci sono per appropriarsi del petrolio della Libia. Non so proprio quanto la povera gente di Tripoli gradisca che le bombe che sventrano le loro case giungano da chi vuole la democrazia.

Secondo esempio: l’altro ieri il referendum sull’acqua che ha raggiunto il quorum e tutti hanno affermato che il popolo sovrano s’è finalmente espresso in maniera democratica, mentre tutti costoro dovrebbero ricordare che in un precedente referendum lo stesso popolo sovrano aveva già bocciato il finanziamento dei partiti, mentre tutti, proprio tutti se ne sono strafregati altamente della risposta “democratica”.

Credo che neppure oggi quei milioni di italiani che campano con quattrocentottanta euro al mese siano interessati alla democrazia dei furbi.

Sono giunto alla conclusione che dovremmo pensarci mille volte prima di adoperare “queste parole magiche” e dovremmo arrossire quando sono usate come paravento di inganno e di sporcizia interiore.

Che gioia sentire ancora parlare in TV di Giorgio La Pira!

La televisione è piena di banalità, di chiacchiere, quando non trasmette violenze e meschinità. D’altronde non può essere che così, dovendo ogni emittente trasmettere qualcosa ventiquattr’ore su ventiquattro del giorno. Ogni emittente non usa poi solamente un canale, perché anche l’ultima arrivata, qual’è “Rete veneta”, trasmette contemporaneamente su tre, quattro, cinque canali, programmi diversi.

Fortunatamente tra tanta spazzatura talvolta, per caso, mi capita di scoprire qualche “perla” (non è facile, ma talvolta avviene). Una settimana fa accesi per caso il televisore e mi capitò di vedere il volto serafico di Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze, il politico dalle parole pulite ed oneste, dai pensieri sublimi e dalle utopie più impossibili.

Un tempo ritenevo che La Pira, nel mondo della politica, fosse quasi un signore ingenuo e fuori tempo che cercava di accalappiare le farfalle multicolori col suo retino, un uomo con la testa sulle nuvole che rincorreva la Fata Morgana. Ora ho mutato radicalmente giudizio. Reputo La Pira uno dei politici più realisti che non solo il nostro Paese, ma pure il nostro mondo abbia avuto.

Qualche tempo fa è morta la fedele segretaria di La Pira e in quell’occasione un giornalista ha ripreso il discorso della “politica” di quest’uomo di Dio che viveva ospite in una celletta di un convento di Firenze, povero, mistico, sognatore, ma soprattutto uomo che credeva a Dio, si fidava di Lui ed impostava la sua azione di sindaco e di deputato sulla Parola saggia e sapiente del Signore.

Il reportage televisivo che mi capitò di vedere, riportava l’immagine di La Pira in occasione della sua visita in Vietnam da O ci min, in quel momento tragico in cui, prima la Francia e poi l’America, una volta ancora tentarono, fortunatamente invano, di schiacciare, con le bombe al napalm e con la potenza militare, l’anelito di un popolo ad essere artefice libero della propria storia.

La Francia e l’America ebbero la peggio, ma se queste potenze avessero ascoltato questo profeta disarmato che credeva che non solo ogni uomo ma ogni città ed ogni popolo avessero un proprio angelo custode a parlare alle loro coscienze ed indicare la strada dritta, quante atrocità e quante rovine avrebbero evitato.

Ogni giorno di più mi pare di capire che gli uomini apparentemente più ingenui e più sognatori, quali sono i santi, gli innamorati e i poeti, sono quelli che hanno ragione, che comprendono il senso del vivere, mentre i furbi, i realisti e i forti sono quelli che provocano le più grandi rovine.

Sono stato contento di aver reincontrato alla televisione questo profeta disarmato del nostro tempo.

Il messaggio che cerco di trasmettere agli uomini di questo tempo

Ogni giorno di più colgo i segni di un mondo che sta evolvendosi in maniera veloce, tanto che mi pare mi dica apertamente: “Questo non è più il tuo tempo, sei ormai un ospite sopportato, un peso piuttosto che una risorsa!”. Mai come in questa stagione della mia vita il mio pensiero va al romanzo della mia prima giovinezza “Piccolo mondo antico” di Antonio Fogazzaro. Le atmosfere delicate e struggenti, il clima di dolce rimpianto per dei ricordi avvolti da calda malinconia, soffusa da un pizzico di romanticismo, dovuto al tempo che fugge veloce, mi rende più belli i giorni del passato e più scorrevoli e serene le vecchie vicende, mentre le attuali mi sembrano più angolose ed impervie.

Mi sono sorpreso a fare queste riflessioni e a cogliere questi sentimenti mentre oggi sceglievo la foto di copertina per “L’incontro”. Tra le tante immagini che rubo alla stampa che ricevo e metto nel mio disordinato archivio, ho scelto il volto pulito e bello di una ragazza impegnata a scrivere al computer, strumento che io non so usare e al quale mi accosto come ad un marchingegno misterioso ed impenetrabile. Mentre guardavo le dita che si posavano dolcemente sulla tastiera, mi ricordai di essere, io, della generazione in cui a scuola si adoperava l’abbecedario per la scrittura e il pallottoliere per l’aritmetica. Tra questi due sussidi didattici di un tempo e il computer, che oggi è adoperato con disinvoltura assoluta a casa e a scuola da tutti i nostri bambini, “ne è passata di acqua sotto i ponti”.

Ogni settimana mi ritrovo a comporre il menabò del nostro periodico, incollando le striscioline di carta prestampate, con tutte le difficoltà di comporre armoniosamente le pagine, dovendo spesso ricorrere al rimedio degli inserti per far tornare i conti.

Un giorno una mia nipote, vedendomi tanto indaffarato, mi disse sorpresa: «Perché, zio, non impagini tutto al computer, è più veloce!». Dovetti confessare, quasi arrossendo, che non avevo dimestichezza con quell’arnese. Mi accontento, alla mia età, di passare un messaggio che faccia conoscere ai nostri giovani “le radici” della nostra cultura. Se riuscissi a far ciò mi stimerei soddisfatto e mi riterrei ancora un po’ utile per i fratelli di questa stagione della vita che non è più la mia.

Un’altra scelta faticosa all’orizzonte

Quando sei anni fa insistetti col Patriarca per poter lasciare la parrocchia, avendo sorpassato di un anno l’età canonica fissata dalla Chiesa per chi ha responsabilità dirette nel campo della pastorale, lo feci per tre motivi.

Primo: avevo timore che tutto l’impianto organizzativo, allora complesso, mi cadesse addosso per mancanza delle forze fisiche e psicologiche necessarie per svolgere il ministero così complesso ed articolato qual’era quello della mia parrocchia.

Secondo: ritenevo di avere un’età e quindi una mentalità che difficilmente potesse comprendere ed accettare quei processi evolutivi che nel nostro tempo sono assai veloci, che caratterizzano l’evoluzione sociale, culturale e psicologica di ogni stagione della storia ed in specie di quella attuale.

Terzo: ritenevo di dover far posto alle nuove generazioni che devono fare esperienze, misurarsi con i problemi reali della vita e perciò occupare i posti di responsabilità.

Penso che pochi abbiano compreso e condiviso queste mie motivazioni d’ordine razionale e di coscienza. I superiori perché hanno difficoltà di rincalzi e gli altri perché abituati a vedere qualcuno che “tira la carretta” e vogliono illudersi che sia facile e doveroso continuare a farlo.

In fondo però alla mia coscienza, ero turbato da due motivi più reconditi: temevo che fosse un atteggiamento di superbia vedermi crollare addosso una bella impalcatura che avevo creato con tanta fatica e che, in fondo, mi dava lustro. Poi temevo che nel mio animo ci fossero solamente stanchezza e bisogno di riposo.

A distanza di sei anni mi ritrovo nella stessa situazione esistenziale, avendo accettato la presidenza della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri “don Vecchi” e che, tutto sommato, procede a gonfie vele.

Sento inoltre il peso e la responsabilità del periodico “L’incontro” che, sorprendentemente, si è affermato, ed è certamente il periodico della diocesi più diffuso e più capace di creare opinione pubblica. E c’è pure il polo solidale del don Vecchi, così solido e promettente, che comporta responsabilità, fatica e richiede nervi saldi, pazienza e coraggio.

Oggi sento, come allora, nuova stanchezza, stress, paura di non farcela, preoccupazione che l’avvenire promettente di queste realtà trovi un inciampo nella mia fragilità in fase di aumento. Soprattutto sono preoccupato che la mia presenza, in un settore così significativo nella vita della Chiesa veneziana, impedisca lo sbocciare di giovani sacerdoti che prendano il testimone e sviluppino ulteriormente l’aspetto solidale della nostra diocesi.

Rimando di giorno in giorno la decisione sul da farsi, perché difficile e faticosa, aspettando e sperando che il Signore mi dia un segnale forte ed incontrovertibile. Se poi i confratelli e i superiori mi dessero una mano, sarei loro molto grato. Vorrei continuare a servire la Chiesa e la città con le mie forze residue, ma senza responsabilità.

La fiducia che in tanti mi danno è uno stimolo a continuare

Qualche giorno fa mi ha telefonato un commercialista che, a suo dire, mi conosceva bene, preannunciandomi che una sua cliente, morta da poco, s’era ricordata di me nel suo testamento.

Il mio interlocutore mi ha anche fatto il nome di questa generosa creatura che si è ricordata di questo vecchio prete ma, sia perché sono un po’ duro d’orecchio, sia perché di primo acchito non sono stato capace di inquadrare la persona di cui mi parlava, essa mi rimane a tutt’oggi sconosciuta.

Il signore della telefonata mi ha anche informato che la pratica, giustamente, dovrà fare il suo iter e che la cifra si aggira sui ventimila euro, e quando gli chiesi se il beneficiario fosse la Fondazione, mi rispose, con mio dispiacere, che invece sono io l’erede. Il mio dispiacere nasce dal fatto che lo Stato, affamato di denaro come sempre, si prenderà una buona fetta di questa eredità, mentre se fosse stata destinata alla Fondazione, che è una ONLUS, tutto l’importo sarebbe giunto a giusta destinazione.

Più volte ho detto e scritto che, vivendo io al “don Vecchi”, anche la mia modestissima pensione mi basta e che tutto quello che ricevo a qualsiasi titolo lo passo al “don Vecchi” perché venga destinato agli anziani più poveri di me. Non nascondo però che la notizia mi ha fatto piacere perché essa mi rassicura che non ci sono, nella nostra città, solamente persone che diffidano o che criticano sempre, ma ci sono pure concittadini che condividono il mio sogno di creare una città solidale nella quale ognuno collabori ad aggiungere il suo piccolo tassello per vivere una vita più fraterna.

Talvolta vengo a conoscere critiche malevole e preconcette, ma più spesso mi giungono attestazioni di fiducia e di affetto. Ringrazio sempre il Signore perché i miei concittadini sono fin troppo buoni nei miei riguardi dimostrandomi tanto di frequente una fiducia ed un affetto che talvolta mi fanno perfino arrossire, perché sono cosciente che potrei e dovrei fare di più e di meglio perché, credenti o meno, anche in questo nostro tempo c’è bisogno di incontrare sacerdoti che si schierino con i più poveri e, soprattutto, escano allo scoperto, diano testimonianza tentando di giocarsi interamente sul valore della fraternità.

Queste attenzioni che, fortunatamente, non sono infrequenti, mi giungono come uno stimolo ed un invito ad un servizio sempre vigoroso e appassionato a favore dei fratelli.

Bepi Pistolato

Io, per il “mestiere” che faccio e soprattutto per la “specializzazione” che ne faccio nella mia chiesa al camposanto, ho purtroppo ormai dimestichezza con la morte e con il dolore. Non passa settimana che non mi sia richiesto di salutare a nome dei congiunti, gli uomini che partono da questo mondo. Tanto che spesso mi sembra di essere quasi un funzionario della “stazione di partenza per il cielo”.

Confesso che, fortunatamente, non ho fatto e non voglio fare l’abitudine a queste partenze; sempre vi partecipo infatti con tutta la mia umanità e con tutta la mia fede.

Eppure debbo dire onestamente che certe “partenze” mi coinvolgono più profondamente, mi scuotono e mi lasciano sgomento, quasi che da un punto di vista razionale ed esistenziale non riesca a recepire ed accettare la scomparsa di creature che m’accorgo che erano diventate parte integrante, quasi un tutt’uno con la mia vita.

Ricordo quando, tanti anni fa, l’aereo che trasportava l’intera squadra di calcio del Torino, andò a sfracellarsi contro il colle di Superga. Un appassionato di calcio intervistato dal solito giornalista su come vivesse quel dramma, affermò: «Quando succede un dramma del genere ti vien da dire “è una tragedia”, ma se in quel dramma sono coinvolte persone a cui vuoi bene è tutt’altra cosa».

A me è successo tutto questo quando il dottor Mario Carraro, maestro del coro nato con me a Carpenedo da più di trentacinque anni, mi annunciò con estrema amarezza: «E’ morto Bepi». Non servì che aggiungesse altro perché, pur se nella mia vecchia parrocchia i “Bepi” si contano a decine e decine, per tutti “Bepi” era l’organista, il mitico organista che per più di quarant’anni arrivava silenzioso e puntuale, saliva la stretta scaletta a bovolo per sedersi alla consolle e accompagnare tutti, assolutamente tutti gli eventi gioiosi o tristi che coinvolgevano la vita della parrocchia.

Bepi c’era quando ad ottobre del 1971 arrivai in parrocchia, Bepi c’era ancora quando il 2 ottobre del 2005 me ne andai. Bepi suonava tranquillo le canzoni gioiose e ritmate delle affollate messe del fanciullo, quando i nostri piccoli, guidati da don Adriano o don Gino facevano tremare il soffitto della chiesa battendo le mani e tirando fuori quanta voce avevano in corpo sotto la spinta dei ritmi veloci che Bepi pigiava sui tasti.

Bepi c’era alle prove e alle messe delle 12 quando, con Stefano o Fabio, sperimentavano i canti di una numerosa gioventù in ricerca. Bepi c’era due volte la settimana quando la corale faceva le prove e quando alla domenica cantava sull’altare e quei canti, mediante Radiocarpini, planavano su quasi tutto il Triveneto fino a Ravenna.

Bepi c’era sempre, con i suoi spartiti sotto il braccio, silenzioso, modesto, fedele. L’umile operaio della Montedison diventava il cuore pulsante della preghiera dell’intera comunità ogni volta ch’essa si riuniva per la lode a Dio.

Con la tragica morte di Bepi un altro pezzo di quella parrocchia che ho lasciato, scompare. Tra poco, di quella meravigliosa realtà non mi resterà che un nostalgico ricordo, ma forse la ritroverò presto tutta intera tra bianche nuvole del Cielo.

Quale carità?

Pur ricevendo da una vita le confidenze di tantissime persone, non so ancora se anche gli altri sono messi in crisi da verità che, giungendo da parti le più disparate, colpiscono la coscienza.

Alcuni anni fa ricevetti in dono un volumetto, stampato artigianalmente da due sorelle. Quando lo lessi rimasi sorpreso dal loro modo di procedere nell’ascesi interiore. Queste due donne di mezza età erano seriamente impegnate a crescere spiritualmente, cercando di conoscere la volontà del Signore nei riguardi delle situazioni esistenziali in cui venivano via via a trovarsi.

Il volumetto che mi avevano donato a livello confidenziale, quale segno di stima e di amicizia, era concepito quasi come un diario spirituale; c’era una premessa che descriveva la situazione esistenziale, il problema o l’interrogativo in cui ognuna di loro veniva a trovarsi; nella seconda parte c’era quella che, secondo loro, era la risposta di Dio, l’indicazione o la soluzione che il Signore indicava loro mediante l’apertura casuale del Vangelo o semplicemente quella rappresentata dai fatti o incontri che esse interpretavano in relazione al loro problema.

Non credo che si possa assumere questo metodo a regola generale, comunque ho avuto modo di constatare che, almeno per loro, rappresentava un aiuto ed una spinta per una crescita umana e spirituale.

Ho pensato a questa testimonianza avendo, questa mattina, fatto questa duplice esperienza. Dapprima ho letto la riflessione di una cristiana del sud Africa che aveva deciso di rispondere positivamente a qualsiasi richiesta che le fosse stata rivolta, indipendentemente dalla condizione del richiedente e dall’uso che avrebbe fatto del suo aiuto.

Più tardi, nelle letture della messa che ho celebrato, mi sono imbattuto in due frasi della Scrittura: “Chi semina generosamente, generosamente raccoglie” e “Benedetto chi dona con gioia”. Questi due “incontri” nella stessa mattinata mi hanno costretto a chiedermi: “E’ giusto che io limiti al minimo la carità spicciola, per preferire la nascita di una struttura a scopo solidale? Le mie due amiche non avrebbero certamente avuto dubbi sulla opzione della carità comunque. Io invece rimango ancora in crisi e forse ho bisogno di una spintarella ulteriore per fare la mia scelta.

“Un eremo non è un guscio di lumaca”

Un’alunna degli anni verdi della mia vita di prete, qualche tempo fa è venuta a farmi visita nel mio piccolo alloggio del “don Vecchi”. Questa cara “ragazza”, conosciuta sui banchi di scuola, ha sposato un medico tedesco ed abita in Germania, a Bonn, ha due figlie ed è ormai una nonna in pensione. E’ venuta perché conserva un bel ricordo del suo vecchio insegnante con il quale ha mantenuto un rapporto ancora vivo leggendo ogni settimana “L’incontro” su Internet.

Venendo quest’ultima volta, m’ha chiesto un piacere per la sua vecchia mamma che vive sola a Mestre e, come sempre, mi ha fatto un regalino. Evidentemente conosce i miei gusti ed ha quindi scelto in libreria due volumi della Einaudi, dicendomi che temendo che almeno uno l’avessi già letto, avrei potuto tenere l’altro. Era vero: “Il pane di ieri” di Enzo Bianchi, della comunità di Bose, l’avevo già letto. Quel volume è ricco di poesia, di spiritualità e di calda umanità. Il volume di padre Bianchi è veramente bello e m’ha fatto bene perché ho compreso da esso che “l’uomo di Dio” non è uno che si estranea da questo mondo e che non possa godere delle cose buone, anzi egli coglie con più intensità la poesia della vita e del quotidiano.

Ho tenuto quindi il volume alternativo: “Un eremo non è un guscio di lumaca” di Adriana Zarri. In questo volume la “teologa”, spesso critica e dissenziente dalle tesi ufficiali della Chiesa, racconta la sua scelta di vivere una vita eremitica “sui generis” in una vecchia cascina abbandonata, “Il molinasso”, sule colline piemontesi.

La Zarri, che è certamente una donna di fede, ma libera, anticonformista, attenta a cogliere gli aspetti positivi della cultura e dei movimenti del laicismo italiano, racconta il suo quotidiano con grande semplicità, ma con la sensibilità di un’intellettuale intelligente e di giornalista che conosce il mestiere dello scrivere.

La mia lettura procede lenta, ma con profitto. Mi interessa quanto mai questa religiosità o questo misticismo fuori delle righe della tradizione e del diritto canonico, perché confrontando la mia vita di oggi che passa dalla “celletta” dell’abitazione al tempio tra i cipressi, con un po’ di ascetismo potrei aspirare anch’io ad essere un eremita del nostro tempo.

Il dono per il quale non smetterò mai di ringraziare Dio

Io in verità non ho mai troppo apprezzato né invidiato quella gente che afferma d’aver scoperto una teoria, un’associazione o una qualche soluzione così appagante e risolutiva da non aver più dubbi, più incertezze e di aver quasi incontrato finalmente la verità e il bene assoluti.

Già in passato ho confidato a questo diario, a cui affido il bello e il brutto della mia vita, che andando a visitare le famiglie della parrocchia, ho incontrato un “parrocchiano” che non conoscevo e che era, come seppi in seguito, un “vescovo” dei testimoni di Geova. Questo signore “attaccò immediatamente bottone” per convincermi della bontà della sua fede.

Inizialmente, con cortesia, cercai di obiettare, in difesa delle mie convinzioni religiose, ma lui diventava via via sempre più perentorio nelle sue affermazioni, tanto che ad un certo momento gli chiesi: «Ma lei pensa di possedere tutta la verità?» E lui, pronto, rispose: «Si!». «Allora, risposi io, credo che non abbiamo più niente da dirci, perché io sono un povero mendicante della verità, e quando ne scopro anche solamente qualche stilla, sono enormemente felice!»

Tanta gente si rivolge a me con una fiducia disarmante che mi mette in imbarazzo e in crisi, ponendomi domande sui problemi più importanti della vita, supponendo che, per il fatto che io sono un prete, abbia una risposta sicura e pacifica per tutto. Magari fosse vero! Però posso affermare tranquillamente che sull’esistenza di Dio non ho proprio dubbi. Lo cerco ogni giorno battendo i sentieri impervi della verità, dell’amore e della bellezza, convinto che ogni passo, seppur minimo che compio in questa direzione, mi porta ad una conoscenza più approfondita ed entusiasmante del mio Signore.

La fede mi dona la certezza della presenza misteriosa, ma ineffabile, del Padre, del Creatore, mi fa sentire meno solo e alla deriva nella mia fragilità, mi sento amato ed avvolto da questo amore che si manifesta nel respiro della vita, mi dà la dolce serenità che qualcuno mi attende con l’amore del Padre della parabola in fondo a quella strada in cui non c’è il buio di una notte cupa e misteriosa, ma la porta aperta sulla luce.

Ogni giorno ringrazio il Signore per il dono della fede, che reputo il dono più grande tra gli innumerevoli doni che Egli mi ha fatto.

Come si fa a non vedere Dio nella bellezza e nell’armonia del creato?

Un mio coinquilino del “don Vecchi”, essendosi accorto che la mia vecchia Fiat Uno perdeva i pezzi, mi ha regalato una Punto usata ma in ottimo stato. Questa mia attuale vettura, tutta bianca, ha un aspetto dignitoso e non è neanche così vecchia da far collocare il suo nuovo proprietario nel passato dei tempi.

Alla relativa giovane età della vettura s’aggiunge il fatto che il proprietario precedente deve essere stato un maniaco dell’automobile. Il concessionario poi che ha mediato l’acquisto, un mio vecchio parrocchiano, mi ha quasi fatto arrossire di avere un’auto così bella e così nuova. Pensate che la mia Punto ha perfino la radio incorporata nel cruscotto, cosa che mai m’era capitata nelle auto precedenti che ho usato.

Spesso quando giro la chiave dell’accensione si accende pure automaticamente anche la radio. Quando ci sono le solite canzonette o quei programmi di intrattenimento banali e ciarlieri, chiudo. Quando però trasmettono notiziari o qualche programma che, per qualche verso, mi interessa, colgo due piccioni con una fava: percorro la strada “don Vecchi”-cimitero e ascolto anche qualcosa che arricchisce il mio spirito.

Qualche giorno fa fui attratto da una trasmissione il cui conduttore mi sembrava persino imbarazzato mentre cercava di attenuare l’irrompere aggressivo ed acido di un certo signor Odifreddi che ce l’aveva col Papa, con la religione e con Dio. Mai avevo saputo quanto fosse irriverente ed amaro questo signore che – seppi in seguito – è uno della pattuglietta degli atei militanti che in Italia, ultimamente, intervengono con uscite provocatorie, non ultima quella degli autobus genovesi con la scritta “Dio è morto!”.

Dopo la messa tornai a casa, un po’ turbato e contrariato perché non mi capita spesso di imbattermi in questa furia distruttiva di ogni valore. Quasi per respirare un’aria più sana e riconciliarmi l’animo guardando il creato, mi affacciai al mio piccolo terrazzino. Una signora l’anno scorso mi aveva donato una pianta grassa a forma di pallone, con delle spine micidiali; ebbene, durante la notte, erano sbocciati da quella palla verde, difesa da tanti aculei affilatissimi, sei fiori bianchi di una bellezza inimmaginabile, di un color latteo e di una delicatezza struggente, con una corolla di pistilli, uno dei quali, in ogni fiore, superava in altezza gli altri, quasi un’antenna tesa a cogliere un nonsoché.

Rimasi talmente colpito da tanta armonia e bellezza che usciva da quella palla verde, difesa da tante spine perché nessuno attentasse al suo splendore, che quasi istintivamente mi venne da dire a voce alta: «Ma dove vivi, caro signor Odifreddi? Non ti guardi mai attorno? Non hai ancora visto come il buon Dio si manifesta in ogni luogo ed in ogni momento attraverso la bellezza e l’armonia del creato? O sei cieco, caro signore, o altrimenti non puoi essere che matto! In ogni caso, vatti a curare!».

L’importanza di gridare “non sono d’accordo!”

Lo stile degli scritti che parlano di religione, peggio ancora se sono scritti spirituali che si rifanno all’ascetica o alla mistica, è quasi sempre mieloso. Pare che quando si parla delle cose che riguardano lo spirito, i toni debbano essere bassi o perlomeno smorzati, ben difficilmente si usano parole che esprimano posizioni decise. Sembra che mai si possano adoperare termini e concetti spigolosi, rigidi come d’acciaio, ma sempre si debba invece ricorrere al velluto nelle espressioni e, tanto più, nelle parole.

Questo costume, tanto comune e diffuso da non destare quasi più sorpresa, ha fatto si che qualche mattina fa, mentre leggevo un testo per la mia breve meditazione all’inizio del nuovo giorno, sia stato sorpreso e colpito da una parola e da un concetto che credo, d’ora in poi, almeno per quanto mi riguarda, inserirò nel mio pensiero e nel mio linguaggio.

La riflessione apparteneva ad un cristiano del sud Africa, il quale faceva notare come il coraggio di tanti giovani di colore avesse cambiato il volto e l’anima del suo Paese, così tristemente famoso per la discriminazione razziale, mentre ora è diventato, in occasione del campionato del mondo di calcio, il “padrone di casa” che ha ospitato i cittadini di tutto il mondo.

Questo fedele ringraziava di cuore il buon Dio per tutti i suoi connazionali che lungo gli ultimi secoli si erano opposti all’ingiustizia. Terminando col dire che il mondo avrà sempre bisogno di credenti che continuino a dire alle tenebre: “non sono d’accordo!”.

Il nostro mondo è quello che è, ha tanti difetti e limiti, ma nel corso dei secoli è pure cresciuto in umanità, basti pensare all’abolizione della schiavitù, all’emancipazione della donna, al diritto universale di voto, all’assistenza sociale … Tutto ciò è avvenuto non per merito di chi ha assistito passivamente all’ingiustizia e alla discriminazione sociale, di chi ha sempre chinato il capo e taciuto, di chi s’è sempre rassegnato, di chi per quieto vivere non è intervenuto, ma per merito di chi ha ribadito con le parole e soprattutto con i fatti: “non siamo d’accordo!”.

Questa mattina, chiuso il libro, ho ringraziato e pregato per quel coro infinito di persone che lungo i secoli hanno affermato “non siamo d’accordo!” ed ho chiesto al Signore che m’aiuti ad aggregarmi sempre ed in ogni circostanza a questo popolo di persone che manifestano pubblicamente il loro disaccordo con tutto ciò che non rispetta l’uomo; costi quello che costi!

Gli angeli di Mestre

Tanti anni fa, certamente più di mezzo secolo fa, ho letto un bel romanzo di Cronin, lo scrittore inglese dal racconto scorrevole e persuasivo, autore di “Anni verdi”, “La cittadella”, “Le chiavi del Regno”, “Le stelle stanno a guardare”, “L’albero di Giuda” ed altri dei quali non ricordo più il titolo.

Uno di questi romanzi aveva come titolo “Angeli nella notte” e raccontava il servizio generoso e caro che le infermiere svolgevano durante il giorno e soprattutto di notte negli ospedali. Durante la notte insonne degli ammalati, di frequente questi “angeli” vestiti di bianco s’accostavano per confortare, sorridere ed aiutare e portare la dolce e calda umanità dei loro cuori di donna.

Quante volte ho sperimentato personalmente, durante i miei numerosi ricoveri, la dolcezza e il conforto di queste care creature, sempre pazienti, pronte e disponibili, e quante volte ho ringraziato il buon Dio per questi “angeli della notte”!

In questo tempo di forzato “riposo”, dovuto alla mia caduta rovinosa, ho pensato che a questo mondo sono ancora numerose e provvidenziali queste creature senza nome che svolgono il loro servizio silenzioso in tutti i settori della nostra società.

Ad ottobre inaugureremo il “don Vecchi” di Campalto, io non posso permettermi la prodigalità del dottor Padovan della ULSS, il quale ha diviso un milione tra i dipendenti che hanno trasferito l’Umberto 1° nell’Ospedale dell’Angelo, però un segno lo voglio dare a quegli angeli ignoti della città che m’hanno offerto un aiuto determinante per la realizzazione della nuova struttura. Offrirò loro le “chiavi” della “città degli anziani”. Ho già provato le chiavi e preparato la pergamena con le motivazioni. Ho cominciato a buttar giù la lista dei nomi e subito mi sono accorto che questi “angeli” sono una “legione”. Sono costretto a fare una scelta come ha fatto l’italia dopo la grande guerra portando nell’Altare della Patria “il Milite ignoto”. Ma voglio che si sappia fin d’ora, se consegnerò fisicamente le chiavi ad una ventina di concittadini, che il mio gesto vuol manifestare riconoscenza ed amore a quella moltitudine – veramente una moltitudine – di persone che m’hanno aiutato a realizzare questo nuovo “miracolo” del costo di sette miliardi di vecchie lire.

Ogni persona a cui il Patriarca consegnerà le chiavi della “città degli anziani”, rappresenterà un numero sconfinato di altri cittadini che hanno operato per la realizzazione di quest’opera a favore dei nostri vecchi. Come mi commuove, mi fa felice il pensiero che Mestre possa contare ancora su questo popolo di “angeli” che fanno da contrappeso all’egoismo, all’indifferenza, alla furbizia di qualcuno che pensa solamente a se stesso e ai propri vantaggi.

Il modo di vivere di ieri e i “comandamenti” dei mass-media

Nota della Redazione: questa riflessione di don Armando va presa come tale e non applicata alla lettera e/o indiscriminatamente. Taluni cibi, se ingeriti dopo la data di scadenza, possono portare problemi e disturbi. La data di utilizzabilità di un alimento dopo la sua scadenza varia a seconda della natura dell’alimento stesso, dei conservanti in esso presenti, ecc. Raccomandiamo quindi prudenza, soprattutto nei confronti dei bambini e nelle situazioni di grande caldo.

Qualche settimana fa un mio amico che s’è assunto il compito di aprire nuovi punti di distribuzione de “L’incontro”, e perciò bazzica per negozi per piazzare il nostro periodico, tutto felice mi ha portato un cartone di alimenti scaduti “per i poveri”.

Sono tornato al “don Vecchi” sperando di far cosa grata offrendo questi alimenti – biscotti, caramelle, pizzette ed altro – ma per prime le donne di cucina alle quali ho mostrato il cartone di alimenti, dopo uno sguardo ed una rapida lettura della data, hanno liquidato il dono con una sentenza perentoria e definitiva: “Scaduti!” La sentenza era inappellabile e sono convinto che se mi fossi presentato a tutti i giudici, competenti o meno in materia, esistenti al “don Vecchi”, la risposta non sarebbe stata meno pronta e definitiva: “Scaduto!”, termine equivalente alla condanna “alla spazzatura!”

Non conosco la fine di quel cartone, ma se non è stato buttato con disprezzo nella pattumiera, di certo esso non ha potuto che finire da suor Angela, l’anziana religiosa che deve aver fatto voto di mangiare solamente avanzi e alimenti scaduti e, nonostante ciò, è viva, vegeta e instancabile con i suoi quasi novant’anni e il suo alimentarsi senza troppi pregiudizi. I mass-media sono veramente micidiali, hanno creato un’opinione pubblica talmente stupida e preconcetta per cui nessun comandamento di Dio e nessuna legge dell’uomo è così cogente ed osservata.

E’ morto solamente poco tempo fa il frate francescano che girava le calli veneziane con la bisaccia da cerca. Cosa pensiamo che raccogliesse se non pane vecchio che i frati e i poveri hanno mangiato da secoli pur morendo assai longevi?

Ogni volta che mi capita sottomano un articolo in cui si parla dello spreco di generi alimentari, lo pubblico senza pensarci un istante, ma quale incidenza può avere la mia povera voce di fronte ai mass-media che sono pagati per convincere a buttare per poter produrre ancora e di più!

Oggi s’arriva alla patente di stupidità di dare perfino una scadenza al pane. Il pane più diventa vecchio più diventa duro, e forse fa più bene perché se ne mangia meno! Quando ero bambino, andavo con il pentolino a prendere il latte appena munto e, non avendo frigorifero, specie d’estate, spesso andava a male. La mamma buttava via il siero che s’era formato e ci dava la “ricotta” con ciò ch’era rimasto. Nonostante ciò io ho ottantadue anni e i miei sei fratelli fortunatamente sono tutti vivi e vegeti.

So d’essere una voce “che grida nel deserto”, ma lasciatemi ripetere: “non lasciamoci troppo influenzare dal nuovo decalogo pubblicato su carta da parte dei mass-media al soldo di industriali avidi e furbastri. Sono ogni giorno più convinto che la nostra società potrà salvarsi solamente praticando il risparmio, la sobrietà di vita ed obbedendo all’ordine di Gesù che di alimenti ne poteva produrre a volontà e che invece prescrive ai suoi apostoli: “Raccogliete gli avanzi!”.

Quella caduta mi ha aperto gli occhi

I nostri vecchi, giustamente, ci hanno insegnato che ogni esperienza umana ha due facce, come ogni medaglia. Noi cogliamo per prima e di più la facciata che ci tocca più direttamente nella nostra sensibilità e siamo spesso tentati di trascurare l’altra facciata, quella in penombra, che consideriamo meno interessante, che però è parte integrante ed inscindibile della facciata più appariscente.

Tantissime volte la gente del quartiere, pensando che nel convento di clausura di via san Donà vivesse un folto gruppo di giovani donne chiuse nel loro chiostro ed intente solamente alla preghiera, mi facevano osservare: “Perché queste religiose, invece di starsene tutte chiuse nel loro convento salmodiando da mane a sera, non accudiscono agli ammalati, non si dedicano ad educare i bambini e a soccorrere i poveri?”

Confesso che queste osservazioni facevano un po’ di breccia anche nella mia coscienza. Io non sono mai stato un grande ammiratore delle mura, delle grate, delle tonacone delle suore, le figlie predilette di Dio. Le ho sempre sognate belle, luminose, giovani, avvenenti, operose e piene di entusiasmo. Capisco però che neanche le suore possono fermare l’orologio e il calendario del tempo!

Un giorno in cui con delicatezza riportavo questi discorsi alla priora del convento, ella gentilmente mi fece osservare che loro tentavano di testimoniare la facciata in penombra della medaglia della vita: il bisogno dell’uomo di stare in silenzio, di riflettere, di rapportarsi con l’assoluto. Capii che le monache di clausura non avevano tutti i torti nel fare quello che stavano facendo.

In questi ultimi tempi, in cui mi sono trovato imprigionato in un busto metallico per tenere in asse le due vertebre che mi sono rotte per una rovinosa ed inspiegabile caduta, di frequente ho pensato al discorso delle due facce della medaglia fattomi dalla suora di clausura.

Il primo pensiero è certamente banale e fanciullesco: “come facevano i soldati di ventura del Medioevo a rinchiudersi in quelle pesanti armature e a battersi pure col nemico usando degli spadoni quanto mai pesanti?” Questa però, convengo, è un’osservazione banale dell’altra facciata della medaglia offertami dalla mia caduta e dalla relativa prescrizione medica di portare il busto.

Però ben presto s’affacciò alla mia coscienza un’altra lettura che mi ha fatto pensare e perfino concludere che il mio guaio non è stato del tutto insignificante: “O felice caduta, che mi ha aperto gli occhi su una realtà che mi tocca da vicino”.

Al “don Vecchi” siamo circa 250 anziani con l’età media di 86 anni e le cadute e le relative rotture del femore sono all’ordine del giorno. Allora, osservando la seconda facciata della mia dolorosa caduta, mi sto chiedendo ogni momento: “come fanno i miei coetanei che sono soli, che non hanno soldi, ad affrontare i guai come il mio o peggio del mio?”. Soltanto quando si è “come loro” si può capire.

Conclusione: ho ringraziato il Signore della caduta perché mi ha aperto gli occhi ed ho fatto il proposito che mi impegnerò fino allo spasimo perché quando dovesse capitare ad un povero vecchio di avere questa amara esperienza abbia almeno a fianco chi gli dia una mano.

Ciò che ritengo essenziale

Non passano due o tre settimane che, per il dritto o il rovescio, nei miei sermoni non ritorni su un argomento che reputo essenziale.

Io sono convinto che la mia religiosità, ossia il culto che debbo a Dio e il mio seguire Gesù e il suo messaggio, consista in un’esperienza viva, attuale, che deve trovare costantemente motivazioni e sbocchi esistenziali sempre nuovi ed aderenti ai bisogni dell’uomo di oggi e soprattutto arricchenti per la mia vita e quella dei fratelli.

Questo discorso si oppone, almeno per certi versi, ad un modo alternativo di concepire e praticare “l’azione liturgica”, come si dice nel gergo degli addetti ai lavori. Ho l’impressione che per molti preti e per tantissimi cristiani il vivere la nostra religione si riduca spesso a dei riti che, nell’intenzione di chi li compie, dovrebbero commemorare fatti avvenuti duemila anni fa, quali sono gli eventi della vita e i discorsi di Cristo.

Nella migliore delle ipotesi per tanti cristiani i riti religiosi fanno memoria o, meglio ancora, diventano il memoriale – come si dice oggi – ossia rendono presenti eventi importanti che sono avvenuti tanto tempo fa. Così è per il Natale, la Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste.  Tutto questo avviene con la lettura del testo sacro che descrive l’evento, poi il sacerdote lo interpreta ed aiuta i cristiani a trarne le debite conclusioni per la loro vita personale e quella comunitaria.

Io credo di dovermi spingere un po’ oltre, essendo profondamente convinto che l’evento religioso sia un’esperienza personale e collettiva dei fedeli i quali, sulle direttrici di Dio offerteci dal Vangelo, instaurano un rapporto nuovo, originale e dimensionato sulla sensibilità, sulla cultura che viviamo oggi e qui. Motivo per cui, ad esempio, il mio vivere la Pentecoste quest’anno è diverso da quello vissuto lo scorso anno e da quello che il mio fratello di fede – sia egli inglese, keniota o nordamericano – ha sperimentato in questo stesso anno nella sua comunità cristiana d’Africa o d’Inghilterra. Solo così l’esperienza religiosa di ogni festa risulta un’esperienza che mi coinvolge totalmente, mentre altrimenti avrei timore che la mia presenza in chiesa corresse il pericolo di crearmi solo le emozioni date da una ricostruzione, per quanto ben fatta, dell’evento religioso, riducendomi a spettatore e non attore protagonista di questa esperienza religiosa che il buon Dio intende offrirmi per vivere una vita più piena e più autentica e che poi mi aiuterà a realizzarmi più compiutamente nella mia umanità nel tempo che mi è concesso di vivere.

Forse non riesco a esprimere fino in fondo quello che penso. Tento allora con due parole di dire ciò che ho suggerito ai fedeli della mia comunità il giorno della Pentecoste: «Oggi, come gli apostoli duemila anni fa, nonostante abbiamo incontrato mille volte Gesù, ci ritroviamo timidi, paurosi, incerti, quasi pesci fuor d’acqua in questo mondo, ma se la nostra preghiera sarà ardente e fiduciosa, il Signore di certo illuminerà i nostri cuori e darà coraggio alla nostra volontà, perché sappiamo uscire questa mattina da questa chiesa per testimoniare che Dio è con noi e giocarci tutti e fino in fondo sulla proposta di Cristo che avvertiamo essere l’unica valida e rispondente alle nostre attese profonde e a quelle degli uomini del nostro tempo».

Ho avuto la sensazione che uscendo di chiesa tutti fossimo più determinati di quando siamo entrati, a vivere da uomini illuminati e decisi.