Non passano due o tre settimane che, per il dritto o il rovescio, nei miei sermoni non ritorni su un argomento che reputo essenziale.
Io sono convinto che la mia religiosità, ossia il culto che debbo a Dio e il mio seguire Gesù e il suo messaggio, consista in un’esperienza viva, attuale, che deve trovare costantemente motivazioni e sbocchi esistenziali sempre nuovi ed aderenti ai bisogni dell’uomo di oggi e soprattutto arricchenti per la mia vita e quella dei fratelli.
Questo discorso si oppone, almeno per certi versi, ad un modo alternativo di concepire e praticare “l’azione liturgica”, come si dice nel gergo degli addetti ai lavori. Ho l’impressione che per molti preti e per tantissimi cristiani il vivere la nostra religione si riduca spesso a dei riti che, nell’intenzione di chi li compie, dovrebbero commemorare fatti avvenuti duemila anni fa, quali sono gli eventi della vita e i discorsi di Cristo.
Nella migliore delle ipotesi per tanti cristiani i riti religiosi fanno memoria o, meglio ancora, diventano il memoriale – come si dice oggi – ossia rendono presenti eventi importanti che sono avvenuti tanto tempo fa. Così è per il Natale, la Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste. Tutto questo avviene con la lettura del testo sacro che descrive l’evento, poi il sacerdote lo interpreta ed aiuta i cristiani a trarne le debite conclusioni per la loro vita personale e quella comunitaria.
Io credo di dovermi spingere un po’ oltre, essendo profondamente convinto che l’evento religioso sia un’esperienza personale e collettiva dei fedeli i quali, sulle direttrici di Dio offerteci dal Vangelo, instaurano un rapporto nuovo, originale e dimensionato sulla sensibilità, sulla cultura che viviamo oggi e qui. Motivo per cui, ad esempio, il mio vivere la Pentecoste quest’anno è diverso da quello vissuto lo scorso anno e da quello che il mio fratello di fede – sia egli inglese, keniota o nordamericano – ha sperimentato in questo stesso anno nella sua comunità cristiana d’Africa o d’Inghilterra. Solo così l’esperienza religiosa di ogni festa risulta un’esperienza che mi coinvolge totalmente, mentre altrimenti avrei timore che la mia presenza in chiesa corresse il pericolo di crearmi solo le emozioni date da una ricostruzione, per quanto ben fatta, dell’evento religioso, riducendomi a spettatore e non attore protagonista di questa esperienza religiosa che il buon Dio intende offrirmi per vivere una vita più piena e più autentica e che poi mi aiuterà a realizzarmi più compiutamente nella mia umanità nel tempo che mi è concesso di vivere.
Forse non riesco a esprimere fino in fondo quello che penso. Tento allora con due parole di dire ciò che ho suggerito ai fedeli della mia comunità il giorno della Pentecoste: «Oggi, come gli apostoli duemila anni fa, nonostante abbiamo incontrato mille volte Gesù, ci ritroviamo timidi, paurosi, incerti, quasi pesci fuor d’acqua in questo mondo, ma se la nostra preghiera sarà ardente e fiduciosa, il Signore di certo illuminerà i nostri cuori e darà coraggio alla nostra volontà, perché sappiamo uscire questa mattina da questa chiesa per testimoniare che Dio è con noi e giocarci tutti e fino in fondo sulla proposta di Cristo che avvertiamo essere l’unica valida e rispondente alle nostre attese profonde e a quelle degli uomini del nostro tempo».
Ho avuto la sensazione che uscendo di chiesa tutti fossimo più determinati di quando siamo entrati, a vivere da uomini illuminati e decisi.