Il conto che l’Europa prima o poi potrebbe pagare

Qualche settimana fa ho pubblicato su “L’incontro” questo trafiletto che riporto di nuovo, perché traduce esattamente il mio pensiero e le mie preoccupazioni:

IL LAMENTO DEL GIOVANE PROFUGO
Ero povero, non avevo un tetto, non avevo affetto, non avevo scuola, non avevo pane. Ho dormito sui tuoi marciapiedi, come un animale. Ho sofferto la violenza della tua polizia. Ho conosciuto l’ingiustizia della tua giustizia. Sono sopravvissuto all’insufficienza della tua carità. Ho chiesto aiuto, mi hai dato disprezzo. Ho chiesto rispetto, mi hai offerto omissione. Se un giorno qualcuno più competente di te saprà guidarmi per sen­tieri storti e al posto d’un libro metterà un revolver nella mia mano, invece di un pallone mi darà un barattolo di colla da fiutare, invece dell’amore mi insegnerà l’odio come la soluzione. ALLORA se ci incontreremo in qualche posto probabilmente ti assalirò, proba­bilmente ti aggredirò, probabilmente ti ucciderò: MA NON RECLAMARE: quando io ancora non sapevo odiare tu non mi hai dato motivi per amarti.
Come si può lamentare della gramigna la mano irresponsabile che l’ha seminata?      p. Savio Corinaldesi

Il giorno dopo l’uscita de “L’incontro”, quando di buon mattino ho aperto, come sempre, la chiesa, ho trovato sotto il tabernacolo una busta con questa lettera che trascrivo.

Molto stimato don Armando,
fa riflettere il lamento di padre Corinaldesi, ove ci sono quasi dieci comandamenti a favore del malcapitato clandestino che laggiù era senza casa, senza lavoro. Però, secondo i giornali, alcuni hanno pagato anche 5000 euro per venire in Italia, clandestini senza lavoro, per dormire sui marciapiedi, come dice padre Savio. E’ tutta colpa nostra? Chissà se avete un po’ di spazio per la cronaca del Gazzettino del 5 giugno 2011 a pag. XVI, che riporta la cronaca di una seconda rapina a una signora di 67 anni di Favaro Veneto. Come da essa detto, con accento straniero.
Credo che chi legge “L’incontro” le sarebbe grato. Con stima,
Olivo
Mestre 5.6.11

Dato che mi trovavo solo soletto in chiesa accanto alla lampada rossa che testimonia la presenza di Cristo, di primo acchito m’è venuto da dire a Gesù: «Rispondi tu al signor Olivo, che certamente è un tuo discepolo», ma poi ho pensato che Cristo è troppo buono per rinfacciare l’egoismo ad un cristiano preoccupato solamente del suo benessere e che evidentemente se ne frega del trauma di esseri umani che, anche per colpa nostra e sua, stanno peggio di noi.

Poi ho deciso di ricordare al mio interlocutore che noi europei – ed anche Favaro fa parte dell’Europa – pur essendo una piccolissima parte degli uomini che abitano la terra, abbiamo arraffato e mangiamo la stragrande maggioranza dei beni della stessa.

Noi europei in genere, ed anche noi italiani in specie, abbiamo ridotto in schiavitù quei popoli, li abbiamo depredati della ricchezza del petrolio, li sfruttiamo con le nostre lobby commerciali, abbiamo insegnato loro la prepotenza, l’imbroglio, siamo stati cattivi maestri. Se ora questa gente ci pesa un po’, ma non troppo, non facciamo che pagare per le nostre malefatte passate e presenti.

Caro signor Olivo, io ho paura, proprio paura, che i popoli dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente, prima o poi si sveglino e ci presentino il conto del nostro egoismo e penso che non avrebbero tutti i torti.

Un umile suggerimento al Santo Padre

C’è una sentenza dell’antica Roma che potrei citare anche in latino, ma credo che sembrerebbe perfino ridicolo far sfoggio di una cultura che non posseggo; comunque la massima è questa: “ciabattino non occuparti di cose che non ti competono perché sono più grandi di te!”. Quindi, con estremo rispetto per l’autorità e la canizie del Sommo Pontefice, mi permetto, appunto per l’amore e il rispetto che gli porto, di fare una osservazione che spero il Patriarca, o qualcuno che ha dimestichezza col Vaticano, gli possa riferire.

Io so purtroppo, per esperienza lungamente sofferta, quanto sia difficile parlare, più difficile ancora parlare a gente numerosa ed eterogenea e so che è pressoché impossibile parlare delle cose di Dio. Avendo però il mandato di Cristo ed un messaggio meraviglioso ed essenziale per gli uomini del nostro tempo, bisogna parlare e parlare nella maniera più opportuna e maggiormente intelligibile possibile.

Il mondo intero dice che il nostro Papa è un teologo di prima grandezza, un vero pozzo di cultura e la sua missione lo costringe a prendere la parola da mattina a sera sugli argomenti più diversi e rivolta alle persone più eterogenee. Io ho ascoltato il Papa a San Giuliano, alla Salute, in Croazia e l’ascolto quasi ogni settimana in occasione dell’Angelus dal balcone del Vaticano. Legge sempre, anche quando dice due parole, legge con una voce monotona, flebile ed incerta, spesso è estremamente lungo e per di più dice anche le cose più sublimi in maniera prolissa e quasi scontata; mai uno scatto di passione, mai una parola forte e turgida di fervore. La gente applaude sempre, ma credo che lo applauda perché è Papa, ma non per quello che dice e per come lo dice.

Il Papa è vecchio, più vecchio di me, è tedesco, e quindi viene da un’altra cultura, ma possibile che qualcuno che gli vuol bene, che ha confidenza non gli possa dire: «Santità, butti via talvolta la carta, ci metta un po’ di passione o perlomeno si faccia scrivere i discorsi da qualche collaboratore più brillante, che adoperi immagini più incidenti, che tenti di far breccia sul cuore dell’uomo che oggi da mane a sera sente gente che parla perfino troppo bene per ingannare il prossimo»?

Dicono che non si nasce oratori, però la Parola del Signore e della verità meritano ed esigono il nostro massimo impegno!

Ora spero che qualcuno non mi fraintenda, che pensi che io voglia insegnare qualcosa al Papa; dico questo solamente per amore verso di Lui e verso chi l’ascolta. Vorrei avere semplicemente il cuore di Caterina da Siena quando scongiurò il Papa di tornare a Roma, perché questo era bene per la Chiesa. Temo però che le persone importanti, e tra queste lo stesso Papa, corrano il pericolo di rimanere soli, senza chi li aiuti a espletare bene il loro compito.

“Cari ragazzi…”

Lo scorrere dei giorni talvolta pare monotono e banale, mentre avendo occhi attenti si possono fare delle piccole o grandi scoperte che riempiono l’animo di meraviglia e di consolazione.

Nel mio minuscolo, ma confortevole alloggio, su un mobile di arte povera poggia una piccola cornice d’argento con le foto dei miei cento chierichetti di Carpenedo. Ogni volta che ci passo d’avanti butto uno sguardo furtivo ai miei bambini di un tempo ed una carezza leggera di dolce nostalgia si poggia nel mio animo.

Ogni tanto mi viene voglia di prendere in mano il ritratto per osservare uno ad uno quei volti belli e sorridenti che emergono dalle tunichette eleganti sulle quali s’appoggia la crocetta di legno.

I miei chierichetti erano una perla preziosa acquisita con tanta fatica e lasciata alla vecchia comunità come un tesoro prezioso.

I miei chierichetti bambine e bambini, rimangono sempre nel mio ricordo e nel mio cuore nello splendore della loro fanciullezza, non si sono sciupati, non sono cresciuti, ma nella foto incorniciata d’argento e nel mio animo incorniciati d’affetto e di nostalgia rimangono sempre belli, sempre innocenti.

Qualche giorno fa suor Teresa mi disse felice: “ho incontrato Piero Tositti, fa l’alpino ad Aosta ed è felice della sua scelta e della sua vita!”

Piero, “il pescatore”! Piero era un ragazzino mite, apparentemente silenzioso, ad un po’ introverso, in realtà era invece sornione ed intelligente.

Andava a pescare con suo padre che pure era stato uno scout dei miei tempi eroici di giovane prete.

Piero andava a pescare e poi, prima della Messa, veniva a raccontarmi che aveva preso più pesce di papà e quando poi la pescagione andava bene, univa il suo pesce a quello del padre ed orgoglioso me lo portava per i poveri come potesse sfamare un intero continente.

Piero il chierichetto, piccolo pescatore è ora un alpino che vive la sua cara giovinezza tra i monti della Val d’Aosta.

Mi sono commosso all’insorgere di questo caro ricordo e gli ho mandato subito un Ave Maria via email dello spirito.

Pensando a Piero il piccolo pescatore, ho pensato alla moltitudine di ragazzi e ragazze che ho incontrato sui banchi di scuola del Volta, delle magistrali, del Pacinotti, e alle commerciali, dei ragazzi scout, dell’azione cattolica, dei chierichetti e delle parrocchie in cui ho seminato fiducia e speranza per oltre mezzo secolo della mia vita, dai ragazzi con cui giocavo a pallone in campo Sant’Agnese ai Gesuati, nel continuo timore che arrivasse il “ghebi” (il vigile), ai ragazzi del patronato del Concordia ove c’era un grande campo sterrato mentre ora è tutto costruito, alle flotte di bambini che sembravano un vero sciame d’api o un formicaio mentre giocavano in patronato di via Manzoni in attesa di pigiarsi al Lux per il film della settimana.

Ogni tanto mi viene a galla qualcuno, e mi ricorda un passato intenso ed affollato di creaturine che sono cresciute all’ombra del campanile ed accanto alla lunga tonaca di un prete spilungone.

Qualche giorno fa appresi di una trattativa importante portata avanti da un dirigente dell’Enel, di cui il giornale faceva il nome e mi ricordai del ragazzino che i capi scout avevano destinato a fare da Gesù bambino in una ricostruzione della natività, questo piccolo per un po’ stette tutto rannicchiato nel cestone di paglia, ad un certo momento però ruppe l’incanto uscendo dalla sua scomoda culla!

Cari ragazzi della mia vita di prete, non so dove ora siete, cosa fate, ma sappiate che vi peso sempre con intenso affetto e che siete stati il conforto, la speranza e la gioia della mia vita!

Basta violenza!

Sarà forse l’imbragatura di acciaio in cui sono costretto a vivere che aumenta nel mio animo maggiormente il mio rifiuto assoluto della violenza e della sofferenza imposta all’uomo per i motivi più disparati.

In questi ultimi tempi sto pensando con raccapriccio ed orrore a come, dopo tanti secoli di storia, nonostante la filosofia delle religioni dell’estremo oriente, tutte tese alla non violenza e al rispetto della vita, quale l’induismo, e dopo duemila anni di storia cristiana per la quale è severamente riprovato perfino il pronunciare l’epiteto di “stolto”, ci siano nel mondo ancora tanta barbarie, tanta violenza, tortura, persecuzione e morte.

L’occidente, che si crede emancipato e civile, la Chiesa, che si ritiene apportatrice di fraternità e di amore, hanno ancora tanta strada da fare per potersi dire coerenti a queste belle e splendide verità.

Quando penso alla tortura, tranquillamente praticata non fino a ieri, ma fino ad oggi in Paesi cosiddetti cristiani, e quando penso alla “Santa Inquisizione”, alle guerre di religione e alle crociate, benedette ed auspicate non solo dagli umili fedeli, ma dalle più alte gerarchie ecclesiastiche e perfino dal Papa, mi vien da rabbrividire.

Papa Wojtyla ha chiesto perdono e qualche prelato ha perfino non condiviso e anzi criticato tale atto, mentre credo che dovremmo ogni giorno prostrarci di fronte alla storia e all’uomo per chiedere perdono per i peccati di ieri e quelli di oggi.

Bisogna che gridiamo con quanta voce abbiamo in petto e con quanta passione abbiamo nel cuore: “Basta guerre, basta violenza, basta tortura, basta pene fisiche, basta sbarre, basta sopraffazione, basta “giustizia” che non creda alla possibilità dell’uomo di redimersi, basta retorica del diritto, basta bugie per coprire l’egoismo, l’avidità, la sete di potere.

Da qualche tempo ho deciso di non sopprimere neppure una formica o una mosca molesta, perché mi pare d’aver capito che la violenza, comunque e per qualsiasi motivo esercitata, è il “vero peccato che grida vendetta al cospetto di Dio”. Mi auguro che questo rifiuto del male mi accompagni fino all’ultimo respiro della mia vita.

Il mio incidente

L’appisolarmi, come al solito, di fronte ad un programma televisivo per niente interessante, m’è stato galeotto! Un brusco risveglio, in cui non m’era chiaro se fosse mattina o sera, presto o tardi, m’ha fatto balzare in piedi perdendo l’equilibrio e andando miseramente a cadere tra il televisore e il termosifone. Con fatica mi sono rialzato tutto dolorante.

Prima una lastra e poi la tac m’hanno fornito la triste notizia della rottura di due vertebre. Il neurochirurgo ha ordinato, con sentenza inappellabile, che dovevo procurarmi un busto. Ormai da qualche settimana sono imbragato in una specie di armatura metallica che mi dà la sensazione di essere stato condannato alla tortura della “Vergine di Norimberga”, l’antico strumento di tortura in cui il condannato era costretto ad entrare in una sagoma d’acciaio costellata di aculei, sagoma che, una volta chiusa, trafiggeva da parte a parte il povero derelitto.

Ora per me alzarmi è uno strazio, vestirmi peggio, a camminare sembro un robot che si muove a scatti. Povero me! Le prospettive per le ferie estive, che comunque avrei passato a Mestre compiendo il mio ministero nella mia amata cattedrale tra i cipressi, sono ben tristi e desolate. Tento di consolarmi pensando che vi sono tanti cittadini che stanno peggio di me e che il disagio e il dolore forse purificheranno il mio spirito e renderanno più bella la mia anima, ma non sempre questi pensieri sono capaci di rendere più serene le mie giornate.

Fortunatamente, in occasione di questa mia impotenza, il buon Dio ha mandato dal suo Cielo i suoi angeli perché “non inciampi il mio piede”.

Questo incidente però ha anche i suoi risvolti positivi perché mi costringe a pensare ai miei coetanei che, a differenza di me, sono soli, senza soldi e senza aiuti. Tutto questo mi rende più deciso e caparbio nel voler portare avanti il progetto pilota, voluto dall’assessore regionale Sernagiotto, che intende, tramite il “don Vecchi”, provvedere a quegli anziani poveri e in perdita di autosufficienza, offrendo loro un servizio di accudienza.

Spero di saper affermare con la liturgia “Oh felice colpa, che ha aperto il mio spirito a comprendere l’animo di Dio”. Pensare ai poveri è da sempre un gran dono.

Il breviario, mia croce e delizia del mattino

Ho confidato più volte ai miei amici che per me il “breviario”, ossia la preghiera ufficiale che la Chiesa richiede ai suoi sacerdoti di recitare ogni giorno, rappresenta una “croce e delizia”.

Il breviario consiste in una miscellanea di salmi, inni e brani che raccolgono la riflessione dei padri della Chiesa e di scrittori ecclesiastici. Questa orazione pubblica fu pensata per i monaci che intervallavano la giornata di lavoro con questi momenti di preghiera. Il breviario, se recitato da una bella e numerosa comunità di monaci, rappresenta anche da un punto di vista estetico e mistico, un qualcosa di bello e di spirituale.

Io ricordo che ebbi modo di partecipare al coro di una grande comunità di monaci benedettini tedeschi del monastero di Marialac e fui molto impressionato dal canto gregoriano che saliva al cielo tra le volte di una bella chiesa gotica. La recitazione in latino dei salmi e di inni a cori alterni, da parte di queste voci virili, faceva diventare poesia e preghiera il tutto, tanto che il messaggio delle singole parole diventava pressoché insignificante, mentre la celebrazione liturgica, nel suo insieme, diventava veramente orazione sublime, anche se certe parole e pensieri rimanevano del tutto coperti dalla solennità della celebrazione.

Le cose sono ben diverse quando io, di buon mattino, devo cimentarmi in una lettura di testi provenienti da un modo di pensare sostanzialmente diverso dal mio, testi talora incomprensibili, talora talmente lontani dalla nostra sensibilità da apparire perfino contradditori allo spirito evangelico.

Spesso l’abitudine mi conduce per mano, tanto che mi rimane nel cuore solamente il desiderio di pregare e talvolta anche solo il dovere, però quando comincio a cimentarmi in una lettura più attenta, allora sono guai perché insorge il mio apparato razionale e critico che si inceppa ad ogni pié sospinto!

Questa preghiera d’obbligo mi diventa così faticosa, arida ed insignificante tanto che quando chiudo il breviario mi rifugio nelle preghiere imparate nella mia infanzia e queste mi aprono le porte dell’anima ad un rapporto più vero ed onesto col Signore.

Lo Spirito Santo è un grande dono!

Mi pare di avere imparato ormai da molto tempo che il Vangelo vada riletto, interpretato e vissuto in maniera dinamica. Purtroppo ci sono preti, laici e parrocchie che leggono il Vangelo con la stessa cadenza e lo stesso modo di interpretarlo con cui lo facevano, non dico i nostri nonni, ma anche i nostri trisavoli.

Troppi cristiani ripetono parole e gesti che praticamente finiscono per non dir più niente a nessuno. Ricordo un aneddoto di carattere militare che calza bene a questo proposito. Un capitano ordina ad un soldato di riverniciare una seggiola importante; per timore che qualcuno si sedesse sopra rovinando la pittura e i propri pantaloni, dato che di dipendenti ne aveva fin troppi, vi mise un piantone di guardia. Passò il tempo e in quella caserma si continuò a mettere un soldato di guardia alla sedia, finché qualcuno, più intelligente degli altri, si domandò che cosa ci stesse a fare quel militare accanto alla seggiola. Nessuno lo sapeva!

Qualche domenica fa ho riflettuto su queste cose in rapporto alla promessa di Gesù “Il Padre vi manderà il Paraclito, lo Spirito di verità, perché rimanga con voi per sempre. Egli rimarrà presso di voi e sarà con voi!” Mio fratello, don Roberto, con quel suo argomentare un po’ sbarazzino, ha commentato in proposito: «Il Paraclito? Rimane per la nostra gente “l’Illustre sconosciuto” e le persone più oneste si chiedono ancora: “Carneade, chi era costui?”».

L’iconografia religiosa, che raffigura lo Spirito Santo con l’immagine di una innocente e spaurita colombella, non ha aiutato molto alla comprensione della Terza Persona della Santissima Trinità. Tutto questo induce i fedeli ad ascoltare compunti e silenziosi questo discorso, però c’è molto da dubitare che per loro significhi qualcosa.

Io preferisco pensare il Paraclito come il vento, ora leggero, ora gagliardo, che accarezza, sferza e penetra tutti ed ovunque. Il Paraclito è il Signore onnipotente che tutto occupa e nel quale noi siamo e ci muoviamo e che manifesta l’amore, la verità e il bene attraverso la poliedrica ed infinita diversità di realtà che compongono il Creato.

Il Paraclito, lo Spirito di Dio, parla, annuncia, incoraggia, ammonisce, conforta, indica la strada, fornisce elementi per interpretare le problematiche della vita, mediante la coscienza, gli incontri, la cronaca, la natura, il dialogo con le creature di ogni ceto e gli avvenimenti. Non c’è momento della vita, situazione esistenziale in cui, se tu ti apri alla “verità” che lo Spirito ti offre, tu non possa sentirti sorretto, consigliato ed aiutato da Dio.

L’uomo vive in Dio come il pesce nell’acqua e gli uccelli nel cielo. Sentirti nel cuore di Dio che ti ama e che sempre ti sorregge, è veramente un dono meraviglioso.

Solidarietà a Mestre

Io sono arrivato a Mestre nel 1956 e a quel tempo la città era ancora un grosso agglomerato urbano, cresciuto in fretta a causa delle industrie di Marghera che avevano creato fabbriche e posti di lavoro.

Il conte Volpi, con una intuizione felice e con il suo coraggio di valido imprenditore, aveva intuito che sulla gronda della laguna, in stretto rapporto con l’Adriatico e con la centralità che era propria del territorio mestrino, avrebbero potuto prosperare le industrie delle quali l’intero Paese aveva bisogno.

L’intervento di Volpi ha salvato Venezia dalla miseria e dalla decadenza e, contemporaneamente, ha rivitalizzato l’interland che viveva solamente di una agricoltura frammentata e poco redditizia. Mestre però era rimasta sonnolenta e succube di Venezia a livello culturale e sociale. Monsignor Vecchi arrivò provvidenzialmente a Mestre nel momento più propizio per maturare questa crescita e seminò in maniera lucida ed intelligente nella Chiesa e nella città, il germe della consapevolezza di quello che era la vocazione naturale del vecchio borgo cresciuto troppo in fretta.

Questa semente germogliò subito ed in maniera gagliarda, ma i processi storici sono sempre relativamente lunghi e complessi, perciò la nostra città è ancora in una fase di sviluppo e di maturazione.

Su questo processo penso di ritornare in altra occasione, ma oggi sento il bisogno di mettere il dito su un aspetto di questo sviluppo ritardato. Lo faccio spinto sulla scia di una iniziativa del dottor De Faveri che, dopo aver superato la barriera corallina della burocrazia, è riuscito a restaurare, a sue spese, la vecchia cappellina del nostro cimitero voluto da Napoleone.

Mi sono chiesto come mai questo imprenditore dell’interland s’è determinato a questo intervento di carattere civico, mentre imprenditori, industriali, grossi commercianti di Mestre se ne sono stati inerti ed indifferenti di fronte al decadimento di questo umile, ma amato monumento della nostra città. Quello che di bello e di nuovo sta nascendo in Mestre lo dobbiamo alla civica amministrazione e quasi mai ad industriali ed imprenditori privati, pur danarosi! Mestre non ha ancora maturato una borghesia partecipe alle problematiche cittadine; essa rimane indifferente ai bisogni culturali e sociali della nostra gente e pare solamente preoccupata a far soldi!

Non conosco iniziativa, struttura o intervento in cui la classe benestante si sia fatto carico di qualsiasi istanza sociale. Questa è ancora una brutta toppa sul vestito buono della nostra città.

Il libro Cuore si arricchisce di nuovi racconti anche in questo nostro tempo

Non so proprio se gli attuali insegnanti delle elementari leggano o facciano leggere ai nostri ragazzini la raccolta di racconti del De Amicis contenuta nel libro Cuore.

Ai miei tempi il libro Cuore era una specie di Bibbia per i bambini della mia età. M’hanno fatto sognare i romanzi di Verne e di Salgari, m’ha colpito il bellissimo racconto dei Ragazzi della via Paal, ma il Cuore, con il suo sentimento e con quel suo pizzico di romanticismo, con cui presenta in maniera toccante gli umili protagonisti della vita semplice di tutti i giorni, mi ha sempre coinvolto, commosso e fatto del bene, tanto che i suoi personaggi sono rimasti per me delle icone splendide che m’hanno fatto conoscere il lato più bello e più pulito della vita.

Debbo anche confessare che come m’ha fatto enormemente bene l’intuizione di Mario Pomilio che afferma nel suo “Quinto Evangelio” che il testo sacro non è per nulla concluso ma cresce ogni giorno con quanto di bello e di positivo fiorisce nella nostra società, così sogno e sono felice quando scopro episodi e personaggi che aggiungano nuovi capitoli al volume di De Amicis.

Qualche settimana fa m’ha raggiunto in sagrestia una cara mamma che ogni giorno arriva al camposanto a “salutare” il suo figliolo morto tragicamente e poi viene a messa per pregare per i vivi e i defunti. Questa signora mi porse un involucro che conteneva una collana ed un bracciale d’oro dicendomi: «Sono i doni di mio figlio, io non li porterò più, glieli regalo perché lei faccia del bene». La voce le tremava e quando alzai lo sguardo sul suo volto vidi due perle lucenti che le uscivano dalle palpebre. L’abbracciai con tutto l’affetto che un prete ultraottantenne può offrire ad una creatura così bella e luminosa.

Volete che il gesto di questa donna del popolo non stia bene accanto al “piccolo scrivano fiorentino” o alla “maestrina” o alla “vedetta lombarda”?

Mi spiace di non avere una penna felice come quella di Edmondo De Amicis, per aggiungere questi episodi toccanti ai racconti di calda e vera umanità dello scrittore amato nella mia infanzia. Nel mio cuore però sono incise a carattere d’oro e credo siano le cose più preziose e care che io posseggo.

Il Centro Don Vecchi è e deve restare del popolo semplice

L’otto ottobre prossimo venturo, alle ore 11, era stato fissato che il Cardinale Patriarca avrebbe benedetto e inaugurato il “don Vecchi” di Campalto, offrendo una piccola ma confortevole dimora ad un’altra ottantina di anziani di modestissime risorse economiche. Gli appartamentini sono 64, ma alcuni sono destinati a marito e moglie o a madre e figlia.

Meno di cinque anni fa la Fondazione che ha realizzato la struttura, aveva in tasca solamente un sogno, un sogno però che nasceva dall’assoluta convinzione che ci si doveva impegnare non in rapporto alle risorse di cui si disponeva – che erano, a livello economico, nulle – ma partendo dalla consapevolezza del bisogno degli anziani meno fortunati.

In questi cinque anni scarsi, abbiamo trovato un terreno, abbiamo comperato una casa pur obsoleta, ma che aveva una preziosa destinazione alberghiera, una ricchezza, dato ch’era situata alle porte di Venezia. Abbiamo però rinunciato a questa opportunità, preferendo, coerentemente alla nostra coscienza, la struttura di solidarietà.

Abbiamo realizzato l’opera nonostante l’indifferenza assoluta degli enti pubblici, delle banche e degli amministratori della cosa pubblica. Mi correggo: il Banco di San Marco fu l’unico ente che ci ha donato mille euro, poi niente, assolutamente niente!

Ci siamo affidati al buon cuore e alla coscienza dei concittadini, quei cittadini che stanno pagando in prima persona i morsi della crisi. La gente ha condiviso il nostro progetto e ci ha finanziato con piccoli versamenti che partivano dai dieci ai cinquanta euro, da aggiungere alla generosità stupenda di alcune persone anziane, le quali hanno fatto quadrare i conti.

Chi inviteremo all’inaugurazione? Non certamente i notabili, ma soltanto la gente, la povera gente. A titolo simbolico consegneremo le chiavi della cittadella degli anziani ad alcuni operatori sociali che ci sono stati particolarmente vicini, hanno condiviso e si sono fatti carico del progetto, ma in realtà le consegneremo ad ogni cittadino perché il popolo semplice ed umile s’è impegnato in prima persona e noi vogliamo dire apertamente, il giorno dell’inaugurazione, a chi appartiene a questo popolo umile e generoso, che ci ha creduto, che la cittadella, il “don Vecchi”, è suo e come tale lo deve custodire ed amare e difendere da chi tentasse di farne occasione di lucro.

Noi scommettiamo sul Centro Don Vecchi 5!

Gli amministratori pubblici, responsabili e seri, sono consapevoli d’avere delle grosse gatte da pelare altri però a motivo di populismo, spendono in maniera dissennata, tanto si troverà a sbrogliare la matassa chi verrà eletto alle elezioni successive.

Le persone responsabili, affrontano con onestà i problemi drammatici della nostra società. L’aumento consistente dell’età, la diminuzione della popolazione giovanile che contribuisce fiscalmente al costo degli anziani in pensione e il costo, vero o gonfiato, delle rette per gli anziani non autosufficienti, ha posto l’assessore alla sicurezza sociale della Regione, dottor Remo Sernagiotto, di fronte al dramma di come affrontare una spesa che sta aumentando in maniera vorticosa, e date le proiezioni sul numero di anziani per cui si dovrà provvedere nei prossimi anni, gli ha posto il problema, veramente drammatico, di trovare una soluzione.

Questo assessore, che non proviene dalla politica, ma dall’impresa, ed è perciò un uomo con i piedi per terra, vedendo la signorilità dell’ambiente ed esaminando i costi che al “don Vecchi” sono abissalmente inferiori a quelli che sono praticati dalle case di riposo, certamente ha pensato che sia possibile trovare una soluzione intermedia, meno onerosa e più dignitosa di quelle attuali.

Da questi ragionamenti è nata l’idea di una struttura che si muova sulla dottrina economica e sociale del “don Vecchi”, ma che possa far vivere più a lungo l’anziano in un luogo in cui possa continuare a gestire la sua vita da protagonista, fruendo di qualche aiuto maggiore.

Per impostare un progetto che risponda a queste urgenze, abbiamo pensato assieme al prototipo di un anziano, aiutato da una sorella più giovane o da una nuora generosa, o semplicemente da una “serva” vecchio stampo. La Regione ci aiuterà a dare un compenso all’assistente famigliare, per tutto il resto ci si avvarrà della rete dei servizi sanitari già posti in atto dalla uls.

Questa è la scommessa di Sernagiotto e del “don Vecchi”. Io sono sicuro che vinceremo la scommessa, nonostante che i direttori delle case di riposo per non autosufficienti, i sindacati si stiano stracciando le vesti e prevedano fosche prospettive. Sono disposto a scommettere uno a dieci che il 95% degli anziani che risiederanno nel progetto pilota del “don Vecchi” 5, vivranno e moriranno in un ambiente signorile, alla portata anche di chi gode la pensione minima, amati e riveriti e serviti per quanto è loro necessario, fino all’ultimo respiro. Chi vuole scommettere si faccia avanti!

Quanto apprezzo ora “il terribile quotidiano”!

Non è infrequente sentire della gente che si lagna per la monotonia del vivere. Per molti sembra che il tran tran quotidiano sia poco esaltante, anzi noioso ed insipido, sognando di trovare il gusto del vivere evadendo dalla quotidianità. Da questo stato d’animo è nato il detto assai diffuso che la vita di tutti i giorni può definirsi “il terribile quotidiano!”.

C’è qualcuno però che ha contestato e contesta questa affermazione, carica di tristezza e di desolazione, affermando che il quotidiano, vissuto con partecipazione, con intelligenza e con uno spirito di osservazione e di avventura, si può ritenere un qualcosa di veramente bello ed interessante.

Fino a due, tre settimane fa (il commento di don Armando risale a un paio di mesi fa, NdR) ero anch’io uno della schiera, piuttosto numerosa, che non riesce a trovare interesse alcuno di fronte alla ripetitività, alla monotonia del passare dei giorni facendo, pressappoco, sempre le stesse cose. Ora però mi sono decisamente convertito.

Qualche settimana fa, essendomi addormentato dopo cena, come sempre, davanti al televisore acceso, mi svegliai di colpo, forse per un rumore più forte della trasmissione; stordito, barcollai, finendo rannicchiato a terra tra il televisore e il termosifone. Una brutta botta. Non mi ruppi il femore, come capita tanto frequentemente tra i miei coinquilini del “don Vecchi”, ma mi fratturai due vertebre.

M’hanno ordinato un busto ortopedico che è veramente un supplizio. Mi sento ingabbiato come quando a Venezia si condannavano alla “cheba” i malfattori del tempo.

Da giorni e giorni sto ora rimpiangendo a calde lacrime “il terribile quotidiano” di un tempo. Era più bello e certamente più gradevole di quanto pensassi prima della rovinosa caduta.

Mi pare d’aver capito che devo vivere giorno per giorno, cogliendo il dolce e l’amaro, mangiando il “piatto della giornata”. La vita, anche quella più monotona, va vissuta con un po’ di entusiasmo e di responsabilità gustando quello che ci offre ogni giorno, perché è sempre nuova, interessante e bella. Per essere assolutamente convinti basta rompersi due semplici vertebre, per averne una controprova quanto mai convincente.

Un linguaggio poco comprensibile

A questo mondo o dai tutto per scontato o altrimenti, se guardi la realtà che ti passa davanti agli occhi in atteggiamento anche benevolmente critico, allora ti nascono domande e perplessità a non finire.

Qualche giorno fa m’è capitato di leggere il titolo di una lezione di catechesi religiosa che sarebbe stata tenuta da un noto teologo, titolo che, nonostante ogni mio sforzo, non sono riuscito a comprendere che cosa volesse trattare. Io ho fatto qualche esperienza del mondo della pedagogia, della psicologia e della didattica, avendo insegnato per 15 anni alle magistrali e, nel contempo, essendo stato consulente ecclesiastico di una associazione professionale inerente alla scuola. Ricordo che quando alunni ed insegnanti s’imbarcavano in un discorso d’ordine psicologico o pedagogico, erano veramente dei guai perché non si capiva proprio dove questi “esperti” volessero arrivare. Alcuni credevano d’essere più brillanti e più convincenti quanto più il loro dire era astruso ed ermetico.

C’è purtroppo a questo mondo della gente che pare goda a rendere difficili le cose facili e il mondo ecclesiale non solo non è alieno da questo pericolo, ma pare ci sguazzi dentro con voluttà.

Un giorno m’è capitato di dire una mascalzonata di fronte ad un noto teologo che disquisiva in maniera astrusa. Gli caddero a terra i fogli degli appunti e siccome lui faceva fatica a riordinarli, sbottai dicendo a voce alta: «Non si preoccupi, tanto le pagine dei suoi appunti sono perfettamente intercambiabili perché egualmente incomprensibili». L’assemblea per educazione non mi seguì, ma credo che tutti fossero con me.  Chi non riesce a parlare un linguaggio religioso che tutti capiscono, è preferibile che taccia.

Recentemente poi ebbi a leggere in un foglio parrocchiale che veniva soppressa una messa per far luogo ad un rito di iniziazione cristiana. Credo che soltanto un’assoluta minoranza abbia compreso questa scelta e che alla parrocchia sia rimasto sconosciuto il motivo della soppressione di una messa d’orario.

Ricordo un mio insegnante il quale diceva: «Quando ti rivolgi ai fedeli, domandati se parleresti così anche se ti trovassi al bar con gli amici o all’ipermercato».

Quello del linguaggio, nella Chiesa, non è il problema più grave, ma di certo un problema reale.

Fede e burocrazia della religione

Quando mi serve il numero di telefonino di un prete o di una parrocchia, mi riesce più facile cercarlo nell'”annuario” della diocesi, che non sull’elenco telefonico, dove mi è difficile scoprire sotto quale nome posso trovarlo.

L’annuario è un grosso volume di 230 pagine che esce ogni anno con gli opportuni aggiornamenti.

Ogni volta che prendo in mano questo volume, provo delle sensazioni strane che vanno dall’orgoglio di appartenere ad una realtà così ricca ed articolata, alla delusione che un “marchingegno” così complesso non produca dei risultati di ordine spirituale così eclatanti che finora a me non è mai capitato di scorgere.

Queste osservazioni così elementari da potersi considerare perfino banali, mi hanno posto un problema molto più importante che finora non ho mai affrontato seriamente e che, meno che meno ho risolto, cioè il rapporto tra fede e religione o, meglio ancora, tra fede e Chiesa. Da sempre ho ritenuto che la fede sia la gioiosa certezza che Dio mi ama, mi perdona, mi aiuta e mi attende in fondo alla strada della mia vita, mentre ho pensato che la religione, e più ancora la Chiesa, siano gli strumenti che dovrebbero illuminare, giustificare e sorreggermi nel mio credere.

Mi ritrovo ora a constatare che mentre il mio atto di fede è semplice, essenziale, personale, il “marchingegno” della religione e della Chiesa è un qualcosa di mastodontico, complesso, artificioso e burocratico. Quando mi ritrovo a pregare “Dio mio!” e poi penso al volume di 300 pagine che racchiude le gerarchie, l’organizzazione ecclesiastica, gli istituti, gli operatori religiosi, le congregazioni, commissioni e quant’altro, mi pare che ci sia una sproporzione evidente.

So che la mia fede deve essere alimentata, sorretta, custodita e difesa, però temo che l’immenso carrettone costruito nei secoli per adempiere a questo compito sia veramente eccessivo.

In questo momento della mia vita sogno una religione ed una Chiesa più povere, più leggere e più essenziali, perché temo che si corra il rischio che questo enorme meccanismo possa soffocare quel soffio leggero che mi fa credere, amare e sperare. Non ho ancora tutto chiaro, però sento che la mia Chiesa deve spogliarsi neppiù di paludamenti, formule, ingranaggi ed istituzioni che arrischiano di assorbire ogni energia e farmi dimenticare il motivo per cui sono state costruite.

Il commiato cristiano ai fratelli che non praticano o non credono

L’ho confessato più volte che ora esercito il mio ministero di prete soprattutto celebrando funerali. E che cosa potrebbe fare altrimenti un prete che ha la sua chiesa nel cuore del camposanto? La cosa non mi dispiace affatto e non mi sento per nulla un prete frustrato, perché questo ministero mi dà modo di offrire le grandi e benefiche verità cristiane alle domande più vere che si presentano alla coscienza dell’uomo in occasione dalla realtà amara e temuta della morte.

Normalmente prendo contatto con i famigliari del defunto con una telefonata un paio di giorni prima del commiato. Oggi è tanto difficile trovare tempo per un incontro diretto. Dal breve colloquio faccio emergere il volto e la vita del fratello che l’indomani presenterò alla misericordia di Dio. In questo dialogo non manco mai di chiedere qualche notizia sulla religiosità del defunto. Poche volte si tratta di un cristiano praticante, quasi sempre i famigliari dicono che era veramente credente ma che praticava poco e, qualche volta ancora, mi capita anche di sentire che, pur essendo una brava creatura, non era credente.

Che fare allora? Penso che un prete da manuale dovrebbe dire che non è affar suo dare una cornice religiosa al commiato di una creatura che non può reagire o chiarire ulteriormente la sua posizione, né può però un “prete da strada” dare l’impressione di svendere le sue convinzioni. Pian piano ho elaborato un mio discorso che tiene conto dell’ambiguità della situazione. Comincio col dire che col battesimo il Signore ha riconosciuto il fratello che ci lascia come suo figlio (lo voglia o non lo voglia le prerogative e i diritti di figlio gli rimangono comunque). Continuo col citare una frase che Cronin, nel romanzo “Anni verdi” fa dire al vecchio parroco che rincorre l’adolescente che ha voltato le spalle alla fede: “Ricordati che se anche non ami Dio, Dio continua ad amarti ed attenderti comunque”.

Proseguo con la famosa frase di sant’Agostino con cui questo grande santo afferma che non è facile sapere chi serve veramente ed è amato da Dio, perché ci sono uomini che Dio stima per la loro autenticità, ma che non trovano spazio nella Chiesa, ed altri che non fanno che “paternostrare” da mattina a sera, ma che Dio non apprezza più di tanto perché non colgono e non vivono la sostanza della fede.

Infine concludo riferendo l’accoglienza che il Padre fa al prodigo, che di certo non era stato un figlio per bene. Aggiungendo che forse qualcuno sta lontano dalla fede perché ha conosciuto solamente il “Dio dei preti”, ma non quello del Vangelo.

Terminato il sermone, ho l’impressione che tutti ci sentiamo più vicini, più fratelli e più uomini di fede, e rasserenati circa la pace eterna del caro estinto.