“Quanto sono costato oggi alla comunità?”

Nota: don Armando ha scritto questo appunto qualche settimana fa.

Oggi ho dovuto assoggettarmi ad un altro esame clinico.

Nonostante la mia apparenza perfino troppo florida, tanto da crearmi qualche problema di sovrappeso, un male subdolo da parecchi anni sta minacciando la mia salute. Noi occidentali straprivilegiati nei riguardi dei popoli poveri di tre quarti del mondo, finiamo per avere perfino una vita più lunga grazie agli esami che monitorano lo stato della nostra salute e gli interventi medici che riequilibrano carenze e storture.

L’esame urologico non è semplice, dura più di un’ora ed impegna direttamente un medico, un tecnico radiologico, un’infermiera professionale, indirettamente tutta l’organizzazione amministrativa ed impegna delle macchine ultramoderne che costano centinaio di milioni. Quindi soltanto questo esame costa un patrimonio!

Nonostante continui a sentire critiche e lagnanze nei riguardi del nuovo ospedale io ne rimango entusiasta.

Anche oggi se mi rifacevo alle esperienze pregresse dell’ospedale vecchio, non posso che concludere che l’ospedale dell’Angelo è una reggia in rapporto alla topaia dell’Umberto I°.

Ma quello che ho pensato stamattina, mentre il macchinario era manovrato dalla regia di comando al sicuro dalle radiazioni, non riguarda solamente l’ingiustizia permanente tra i popolo del Nord e del Sud del mondo, già questo è un problema che mi pesa sulla coscienza, ma questo è un problema grosso nei riguardi del quale ho poche possibilità di intervento.

La domanda che invece mi sono posto durante i sessanta minuti di immobilità sul lettino bianco manovrato a distanza, è questa: “Quanto sono costato oggi alla comunità?” Certamente centinaia di euro! E quindi mi è venuta coerente la conclusione: “Io ho il dovere di ripagare la comunità per questo dispendio di forze e di denaro nei riguardi di questo povero vecchio prete ottantenne!

Proposito: tenterò di farlo impegnando tutto il mio tempo e le mie energie residue per il bene della società che mi riserva tante attenzioni e mi sta prolungando la vita!

Oggetti smarriti

Un po’ alla volta cittadini e strutture stanno scoprendo le nostre associazioni di volontariato che operano nel settore degli indumenti, dei mobili, degli alimentari e dei supporti per gli infermi.

La fascia di cittadini che hanno bisogno ha fatto la scoperta in maniera assai rapida, chi invece può donare qualcosa, anche senza molti sacrifici, è più lento, ma un po’ alla volta ci sta arrivando. Questa è la cosa più importante.

In questi giorni sono giunti dall’aeroporto due furgoni di oggetti smarriti, anche se non sembra la gente dimentica un sacco di roba! Gli addetti al Marco Polo la raccolgono, la custodiscono per un certo tempo, poi organizzano un’asta. Non tutto però riescono a vendere e perciò regalano a noi tutto quello che è rimasto invenduto: scarpe, ombrelli, maglie, giacche … e le cose più disparate che noi invece riusciamo a cedere a 20 o 50 centesimi!

L’altro giorno il signor Danilo Bagaggia mi mostrava ciò che aveva ritirato dall’aeroporto Marco Polo.

Parrebbe impossibile che molta gente dimenticasse tante cose!

Mentre guardavo curioso il responsabile che mi mostrava i capi più disparati, abituato come sono dal “mio mestiere” a riflettere e trarre conclusioni esistenziali, cominciai a domandarmi “cosa posso io aver dimenticato in giro?” forse qualche ombrello, un paio di occhiali …, ma poi la riflessione si allargò per riflettere sulle parole, sui gesti, sui comportamenti che ho lasciato dietro di me, spesso inconsciamente, finendo per domandarmi “che fine hanno fatto?”

Qualcuno ha potuto beneficiarne o ha dovuto buttarle quali rifiuti ingombranti, inutili o peggio nocivi?”

Ho cominciato a preoccuparmi per la responsabilità che ne deriva da parole dette senza pensarci, da comportamenti superficiali. Mi è venuto in mente la preghiera di David “Miserere me, Deus”.

Spero però che le mie colpe in questo ambito non siano pari a quelle di David che portò via la moglie di Uria e poi lo fece uccidere!

Disegnare il volto nuovo di una comunità cristiana nel terzo millennio

Un mio vecchio cappellano, che ha fatto una rapida carriera tanto da diventare titolare di due parrocchie, oltre ad avere altri incarichi in diocesi, mi ha usato la cortesia di invitarmi a celebrare la Santa Messa in occasione della festa del titolare di una di queste due comunità.

Sono stato felice dell’invito, un po’ perché per me rappresentava un’attenzione per l’attività di un vecchio prete che ora vive ai margini della vita pastorale della diocesi e di cui quasi nessuno si ricorda, un po’ perché rimango ancora curioso di come oggi il giovane clero conduce la comunità dei cristiani del nostro tempo.

Per me, uscito dall’ingranaggio pastorale diretto da più di tre anni, fa veramente piacere confrontare i progetti che ho coltivato per tanti anni, con le soluzioni che ora vanno per la maggiore.

Don Paolo, così si chiama il mio ex collaboratore, naturalmente mi ha chiesto di dire due parole al Vangelo.

Sempre rifletto sul testo sacro per attualizzarlo, affinché esso diventi chiave per leggere la vita lo stimolo perché la comunità si sforzi di entrare nella logica del Vangelo.

In questa occasione la riflessione è stata più prolungata e più attenta del solito.

La pagina del Vangelo che la liturgia assegna alla festa di S. Nicola, santo protettore di una delle parrocchiette di don Paolo, e denominata appunto “S. Nicolò dei mendicoli”, è quella denominata comunemente la “parabola della pecora smarrita”, mi ha offerto l’opportunità di mettere a fuoco: il volto, il compito, lo stile di vita di una comunità cristiana in tempo in cui i cristiani convinti e coerenti rappresentano una piccola minoranza tra gli abitanti all’interno dei confini canonici della parrocchia.

Sono proprio convinto che oggi dobbiamo essere tutti fortemente impegnati per disegnare il volto nuovo di una comunità cristiana nel terzo millennio e in una società sempre più secolarizzata.

Sarei molto felice se fossi riuscito ad offrire qualche buona idea!

L’acqua alta, il MOSE e la debolezza dei governanti

Ai primi di dicembrem se per caso mi fosse venuta la voglia di andare a pregare nella basilica di S. Marco, di certo non avrei potuto andarci, perché nonostante gli stivaloni avrei avuto bisogno di un periscopio o della bombola da sommozzatore per affrontare i 165 cm. di acqua che c’era in Piazza S. Marco. Dopo un sentimento di pena nei riguardi della povera gente che vive a Venezia a pianoterra e dei negozi sommersi dall’acqua con la merce rovinata, il mio pensiero è andato immediatamente ai “disobbedienti di Casarini” ai no-globals, all’estrema sinistra, ai verdi, al Partito Democratico nelle sue componenti rosa e bianco e a tutti coloro che nutrono complessi di sudditanza verso questa gente sballata che in tutti questi anni ha messo in atto mille farse per bloccare il Mòse.

Io non so se questa struttura  impedirebbe un’acqua alta del genere, comunque essa sarebbe un tentativo per verificare la sua efficacia.

In questa tragedia cittadina, che dimostra quanto siano stupidi e faziosi certi individui che tengono banco nella ribalta dell’opinione pubblica e quanto siano imbecilli quelli che si fanno incantare dalla loro demagogia e anzi sono perfino preoccupati di qualificare in maniera adeguata gli attentatori della sopravvivenza della nostra bella e cara città.

Il formaggio sui maccheroni poi l’hanno messo i sindacati con lo sciopero dei vaporetti, sciopero che certamente ha salvato i lavoratori dal naufragio! Oggi come veneziano di adozione, mi sono sentito veramente disperato pensando alla città sommersa dall’acqua sì dell’Adriatico, ma prima ancora dalla demagogia degli stolti e dalla debolezza dei governanti.

E’ meglio leggere “L’Incontro”!

Una mattina sfogliando “Il Gazzettino”, mi è venuto in mente quanto mi raccomandava il mio vecchio cappellano, don Nardino Mazzardis, ai tempi di quando frequentavo la sezione degli aspiranti dell’Azione Cattolica.

Il vecchio cappellano, che noi ragazzi amavamo e seguivamo fedelmente, ci raccomandava di prendere e leggere “Il Vittorioso”, giornale che si rifaceva ai sani principi e non “L’Avventuroso” che spesso aveva trame violente e le sue donnine erano abbastanza discinte. Don Nardino affermava che se uno mette nei cassetti della sua memoria immagini poco morali e storie violente, avrebbe terminato per convincersi che il mondo era fatto così e che quella era la vita!

“Il Gazzettino” non è certamente un giornale licenzioso, ma spesso indulge anch’esso fin troppo con la cronaca nera.

Quella mattina la pagina 7 era totalmente occupata da articoli, più o meno lunghi, che aveva questi titoli: “Accoltella il convivente e poi uccide la sua bambina” questo era il piatto forte, ma il seguito non era da meno: “Tredicenne denudato e filmato da tre bulli che poi lo ricattano”. Poi sempre con molta evidenza “Le mette un limone in bocca e tenta di sgozzare la moglie”. A mezza pagina un altro titolo a cinque colonne: “Parmigiano avariato, sequestrate 2000 forme; nel magazzino c’erano anche topi morti”. Non poteva mancare anche il sesso: “Il marito prende il Viagra e lei chiama la polizia”, e per finire, più in piccolo: “Condannato a sei mesi il portavoce dei Cobas del latte”, “Il P.M. chiede l’ergastolo per l’assassino di Roverara”.

Queste constatazioni ci aiutano a spingere con convinzione a leggere “L’incontro”!

Ancora sul libro del Cardinal Martini

Ho sempre avuto paura di avventurarmi in terreni e luoghi sconosciuti.

Ho l’impressione, quando intraprendo sentieri che non ho battuto precedentemente, che mi manchi il terreno sotto i piedi, o peggio ancora, di incappare nelle sabbie mobili col pericolo di essere inghiottito.

Provo questo sentimento sia quando mi metto in viaggio per visitare una città che non conosco, ma anche quando comincio a leggere un volume che affronta problemi di ordine religioso o morali e dando loro soluzioni diverse da quelle che mi sono state prospettate dai miei maestri di un tempo.

Sto provando questi sentimenti con la lettura dell’ultimo volume scritto dall’anziano ed ammalato arcivescovo emerito di Milano il Cardinal Martini.

In genere, quando ho superato questo istintivo timore iniziale ed ho elaborato i messaggi, finisco per averne un notevole arricchimento interiore e normalmente utilizzo poi al massimo le proposte ideali che scaturiscono da questa esperienza.

Rifacendomi ancora una volta alla lettura dell’ultimo volume del Cardinal Martini, edito recentemente da Mondadori, dopo un po’ di smarrimento iniziale per lo stile dimesso, per la sua ricerca apparentemente un po’ dubbiosa e smarrita, tanto diversa da quella delle sue omelie fatte sulla cattedra di Sant’Ambrogio con la mitria in testa ed il pastorale tenuto ben stretto in mano, sto scoprendo un mondo profondo, intenso e tanto bello. Suggerimenti dati con estrema umiltà, riflessioni discrete, tanto che sembrano più richieste che offerte, mi aprono il cuore alla stima, al rispetto, alla fiducia e all’amore.

Quanto mi ha sorpreso e poi stupito e riempito di aria pulita e di luce una sua espressione: “Di certo non possiamo pretendere che Dio sia il Dio cattolico” mi è parso che il vecchio Cardinale, finalmente libero per la sua età e per il male incombente dia pieno respiro al suo pensiero e lo offra con discrezione e con convinzione ai fratelli di fede e di ricerca.

Lode al Cardinale Martini per “Conversazioni notturne a Gerusalemme”

Pur apprezzando la teologia come scienza nobile che studia in maniera specifica l’esistenza, la natura e le opere di Dio, in verità mi hanno sempre un po’ disturbato i teologi, specie quelli di mezza tacca, che sono poi la stragrande maggioranza, che pare siano i confidenti o peggio ancora i consiglieri ascoltati di Dio. Dicono, ma io non ne ho alcuna motivazione convincente, che, ad esempio, un sacerdote, per essere nominato Vescovo, debba essere un laureato in teologia, in patristica, in sacra scrittura, in morale o per lo meno abbia un altro titolo accademico, dimenticando costoro che Cristo scelse i suoi discepoli non poggiandosi sulla scienza sacra che essi possedevano, ma sulla fede e soprattutto sull’amore che essi dimostravano.

Anche oggi fanno del gran bene nella chiesa gli uomini di fede, i cristiani che amano, non quelli che scrivono trattati e sembrano dei “vicedio” che san tutto, non hanno dubbi, perplessità sui problemi non risolti.

Le persone di chiesa che pontificano destano nel mio animo più compatimento che ammirazione.

Avevo sempre stimato il Cardinale Martini come un grande biblista, uomo sicuro, tranquillo nella verità di fede, mentre ora me lo ritrovo, nell’ultimo suo libro “Conversazioni notturne a Gerusalemme” come “Vescovo in pigiama” incerto, titubante, perplesso o comunque in ricerca, non uomo da pontificali, ma un umile ricercatore della verità e delle soluzioni religiose valide quasi indifeso di fronte al mistero della vita e della morte.

Confesso che, dopo un primo sentimento di meraviglia e di sorpresa, la lettura dei pensieri del Cardinale, questi mi piace più così. Lo trovo più umano più onesto più vicino alla mia povertà interiore!

“Chi ha lavorato, si è sacrificato per me?”

Forse la genesi della pulsione interiore che oggi ho provato visitando, come faccio quasi tutti i giorni, i magazzini S. Martino gestiti dai volontari dell’associazione “Vestire gli ignudi” mi è stata provocata da una lontana lettura di un carnet di un giovane francese, fatta molti anni fa.

Scriveva nel suo diario questo giovane ventenne: “Oggi sono stato attratto da un manifesto che reclamizzava l’ultimo film di una famosa attrice: i capelli platinati, gli occhi vivi e penetranti l’armonia del suo corpo, mi hanno dato l’impressione di grande armonia e di splendida bellezza. Quanti spettatori godranno al buio delle sale cinematografiche della bellezza sovrana di questa donna? Però quanto pochi penseranno che sotto quello splendore c’è la vita di una donna con i suoi drammi interiori, i suoi sogni e i suoi dolori?

D’istinto ho sentito il bisogno di entrare in una chiesa, per ringraziare Dio di aver donato questa meravigliosa creatura e per pregare per lei perchè l’aiuti nelle sue difficoltà e nei suoi drammi.

Di fronte alle stive di indumenti, gonne, pantaloni, giacche, foulard, ho cominciato a riflettere, certamente in maniera meno romantica e poetica del giovane francese, ma altrettanto sentita: “Da dove arriva tutto questo ben di Dio? Chi l’ha cucita? Com’è stato pagato? Come ricambia di questo lavoro la gente che indosserà questi panni? Come riconosce la gente la fatica, i sacrifici, di uomini e donne dell’India, della Cina o di qualche altro paese dell’Estremo Oriente, che per pochi scellini hanno lavorato giorno e notte perché io e tanti altri in Occidente stessimo al caldo o avessimo un abito elegante?

Anch’io per la prima volta ho guardato il maglione caldo, il vestito soffice ed ho cominciato a domandarmi: “Chi ha lavorato, si è sacrificato per me?” Sentendomi in colpa per non aver mai pensato a lui, non averlo idealmente ringraziato, infine ho sentito anch’io il bisogno di mandare al mio benefattore ignoto dell’Estremo Oriente almeno una preghiera.

Per gli artigiani non c’è ormai più un domani

Mio fratello ha ereditato la piccola falegnameria in cui mio padre ha lavorato fino alla mattina in cui è morto, sulla scia del nonno che aveva lavorato a sua volta tutta la vita come carraio.

Mio fratello, lavorando sodo e aiutato da mia cognata che non si è mai vergognata di scendere in bottega per dargli una mano, ha cresciuto quattro figli facendoli tutti laureare.

Purtroppo nessuno di questi figli, avendo conosciuto direttamente quanti sacrifici deve affrontare un piccolo artigiano, l’ha seguito ma essi hanno preso strade diverse diventando dei bravi professionisti.

La bottega prima o poi è destinata a chiudere perché il tempo passa per tutti, anche per gli artigiani i cui capelli sono diventati grigi e bianchi tra i trucioli e la segatura.

Mio fratello non ama parlare di questo argomento, è troppo innamorato del suo lavoro e delle soddisfazioni che esso gli procura anche se diventa sempre più difficile ricavarne un guadagno adeguato sia per la concorrenza delle grosse industrie specializzate, che per la ragnatela di norme e di leggi fiscali, per cui un artigiano dovrebbe avere alle spalle, giorno e notte, un commercialista.

Per gli artigiani non c’è ormai più un domani, lo Stato li tratta fiscalmente peggio della Fiat e la società non gli fornisce più garzoni. Oggi questo tipo di lavoratore rinuncia alle vacanze, trema per il poco o il troppo lavoro,  preoccupato per i clienti che tentano di non pagare e le cui giornate non sono segnate neppure dall’alba e dal tramonto!

Ora poi una banale caduta lo costringe all’inerzia per almeno tre mesi per una frattura al piede.

In questi giorni ho pensato tanto spesso a mio fratello artigiano e alla sua piccola azienda, in cui ho lavorato anch’io durante le vacanze, che ha dato alla sua famiglia ed ha offerto alla società quattro figli con laurea.

Temo che presto diventerà una di quelle migliaia e migliaia di aziende che chiudono per la crisi finanziaria che ha investito anche l’Italia.

Sarà comunque una sconfitta per tutti, se si rompe una cerniera dovremo acquistare un nuovo balcone, ma soprattutto il Paese perderà una categoria di persone industriose, competenti, amanti del lavoro che nonostante la persecuzione dello Stato hanno costruito ricchezza e buon gusto!

Venezia è lontana

Uno dei miei limiti è certamente anche quello di non sapermi rassegnare a situazioni più grandi delle mie possibilità o per le quali io non ho potere per affrontarle.

Penso che dovrebbe essere pacifico che, qualora non abbia le risorse per affrontare un problema di ordine pastorale o non abbia l’autorità per potermene occupare, dovrei starmene in pace perché “nessuno è tenuto a risolvere le cose impossibili” come dice una sentenza dell’antica Roma,  perché dovrei rappacificarmi al pensiero che qualcuno ha già l’incarico di affrontare quel problema e se non l’affronta o tenta di risolverlo è colpa sua!

Invece no, mi struggo e perdo la pace al pensiero che ci sarebbero problemi pastorali che andrebbero affrontati con coraggio e con determinazione mentre spesso li vedi languire a lungo.

Il guaio che 54 anni di sacerdozio ed impegno in parrocchia mi hanno fornito una conoscenza tale per cui nasce istantanea una progettualità ogni volta che mi imbatto in qualche problematica del genere.

C’è certamente da dire che altro è progettare problemi a tavolino, altro è impegnare uomini, convincerli ad impegnarsi in soluzioni che non hanno prodotto loro, trovare talora mezzi economici adeguati e soprattutto avere a disposizione personale in un tempo in cui la coperta diventa sempre più corta, ed ognuno la tira dalla propria parte.

Ciò detto, rimane il fatto che Venezia è lontana, al di là del ponte, che nella città secolare tutto arriva ovattato e il tempo continua ad essere segnato più dai secoli che dai giorni e gli uomini che vi sono impegnati, spesso hanno fatto percorsi diversi e sono assorbiti da riti, rappresentanze e la vita cammina a piedi piuttosto che su auto veloci.

Fortunatamente però il buon Dio quasi sempre scrive dritto anche su righe storte!

La santa obbedienza

Fin dai tempi del seminario ho sentito parlare di una virtù particolare: l’obbedienza. Non so perché, ma per le altre virtù morali si adoperava semplicemente il nome della virtù: fortezza, temperanza, ecc., per l’obbedienza si premetteva sempre un “santa”, la santa obbedienza. Talvolta mi è venuto perfino il dubbio che i capi suggerissero questo aggettivo non tanto per sottolineare l’importanza di questa virtù, ma per governare più facilmente.

Da una ventina di anni, anche la santa obbedienza, ha avuto i suoi contestatori e contestatori di spessore, da don Mazzolari, a don Milani, per non parlare che dei più noti.

In realtà questi obiettori di coscienza si sono dimostrati tra i cattolici più obbedienti, ma obbedienti criticamente. Non so se sia stato uno di loro a parlare della “virtù della santa obbedienza”, non credo, ma comunque c’è stato un movimento di contestazione verso l’obbedienza, pronta ed assoluta, alla Sant’Ignazio “Perinde ad cadaverem!” “fino alla morte”.

Papa Giovanni XXIII con la sua saggezza, usava spesso una frase a questo proposito: “Miles pro duce et dux pro victoria”, “il soldato deve obbedire al comandante che a sua volta deve puntare alla vittoria!”

Io sono totalmente d’accordo con Papa Roncalli, però l’obbedienza deve diventare un atto intelligente, razionale, collaborativo, ma anche positivamente critico.

Una volta si diceva che il superiore aveva “la grazia di stato” ossia il Signore lo illuminava particolarmente per il buon Governo.

E sia pure!
Però lo Spirito Santo, che credo per donare questa grazia ai capi, possa abbastanza facilmente adoperare anche l’intelligenza, la saggezza e l’esperienza dei sudditi.

Ho l’impressione che molti, forse troppi capi, sia nell’organizzazione civile come in quella religiosa presumono troppo sulla validità dei loro gradi, sulla grazia di stato e troppi sudditi per non aver rogne o per quieto vivere obbediscano formalmente, danneggiando i loro superiori.

Mi ritrovo ora come un osservatore, fuori della mischia per cui è perfino troppo facile scorgere inadeguatezze, errori, negligenze che nascono dalla mancata consultazione o dal mancato apporto dei combattenti!

Il linguaggio dei preti

Il problema del linguaggio è sempre stato un grosso problema per gli intellettuali e la gente affine. Da sempre ho sognato e desiderato di parlare dei problemi religiosi con la lingua con la quale si parla al bar, al supermercato o in filovia, confesso che non ci riesco ancora.

Mi pare siano ben pochi i preti e meno ancora i vescovi che sappiano parlare la lingua parlata e non una lingua morta che ormai quasi nessuno capisce.

Fino al 1200, ai tempi di San Francesco, gli intellettuali parlavano latino, mentre già, non da decenni ma da qualche secolo, il popolo parlava un dialetto adottato pure dal poverello d’Assisi, che pian piano sarebbe diventato la nostra lingua, l’italiano.

Ci vollero secoli e secoli perché i preti mollassero la lingua nobile per adottare il linguaggio del popolo. Ancor oggi c’è qualche ecclesiastico nostalgico, che sarebbe tentato di suggerire al Papa o agli esperti dei dicasteri ecclesiastici di usare il latino, a parer loro, la lingua della chiesa. Io però non so di quale chiesa!

Quando cinquant’anni fa studiavo teologia ancora allora molti testi erano scritti in un “latinorum” che avrebbe fatto sdegnare Cicerone o lo stesso Cesare tanto era imbastardito. Però credo che il pericolo grosso per noi preti, che predichiamo da mane a sera, non è il latino, ma il linguaggio astruso, fuori commercio, di cui la gente fatica al massimo di capirne il significato vero, ma lo accetta supinamente, perché ormai ci ha fatto l’orecchio, senza coglierne i contenuti.

Qualche settimana fa mi è capitato di sentire, da un’emittente televisiva, una conversazione di un importante prelato. Non ci ho capito nulla! Un linguaggio formale e dai concetti astrusi e fuori corso!

Qualche giorno dopo, due tre persone, cattolici praticanti di diversa estrazione sociale e culturale, mi chiesero: “Ha sentito don Armando la conferenza del tal dei tali?” – “Perchè?” – ed ognuno confessava di non aver capito assolutamente niente!

Su “Famiglia Cristiana” scrivono grosse personalità dell’intellighentia cattolica, ma credo che l’unico che si fa intendere è don Mazzi, anche se talora non va proprio per il sottile con le parole.

S. Girolamo tradusse la Bibbia nella vulgatia, il latino del popolo, ora credo che dobbiamo fare un altro passo avanti scoprendo la “vulgatia” d’oggi!

Il consumismo e il lassimo, grandi nemici della fede

Un mio amico d’infanzia, tanti anni fa, tentava di convincermi che la religione aveva meno presa sulla coscienza dei fedeli, da quando si era abolito il latino e da quando il prete era uscito dal suo isolamento e aveva socializzato con la gente.

Mi pare di capire che volesse dirmi che quando la religione aveva abbandonato la sfera del mistero e la disciplina dell’arcano, andava a perdere la sua presa sul cuore del popolo.

Evidentemente, pur constatando che la partecipazione religiosa stava progressivamente diminuendo col passare degli anni, non potevo e non riuscivo a condividere questa lettura del fenomeno della secolarizzazione, anzi ritenevo e ritengo che il fenomeno religioso deve innervare, illuminare e dare ricchezza interiore all’attività dell’uomo e quindi sacerdoti e cristiani devono impegnarsi più a fondo per passare la fede attraverso modalità più compatibili e più affini alla cultura e alla mentalità del mondo moderno.

Detto questo però mi rimane nell’animo ancora qualche perplessità e qualche dubbio notando come gruppi religiosi minoritari o più conservatori riescono ancora a mantenere più viva e pregnante la sensibilità e il sentire religioso di quanto non riusciamo noi cattolici.

Qualche giorno fa ho invitato due giovani ortodossi, che lavoravano al don Vecchi, a pranzare con noi dato che era mezzogiorno. Il più giovane, un trentenne, mi ringraziò dicendomi, anche con candore, che gli ortodossi osservano quattro tempi di digiuno, uno dei quali cadeva proprio in quei giorni e loro si astenevano dalla carne, dai latticini e praticamente facevano “quaresima” come noi cattolici facevamo cinquant’anni fa.

Il consumismo, più nemico della fede che il marxismo, e il lassismo mi pare stiano pian piano svuotando la fede di contenuti forti per ridurla a qualcosa di formale, credo che dovrò riflettere a fondo su queste problematiche!

I preti di una volta

Io ho un’età in cui abbastanza di frequente, di fronte a comportamenti, modi di pensare, scelte che non condivido, mi verrebbe da dire la famosissima e deprecata frase: “Ai miei tempi le cose non stavano così!”

Tento di dire il meno possibile questa frase, però, anche se non la dico, la penso decisamente e molto convinto.

Noi tutti vecchi siamo frutto di un certo mondo e di una certa educazione; non potremo mai cambiare!

Credo che siano pochi gli uomini e i preti che riescono ad accettare serenamente modi di pensare, comportamenti, mentalità e scelte che oggi sono pacifici!

Pur convinto che il mondo si evolve, ed oggi molto più rapidamente del passato, mi è molto diffide accettare certi comportamenti che mi sembrano assurdi e non condivisibili specie in certe categorie di persone.

Qualche giorno fa una persona religiosa, parlando del “lavoro” in cui è coinvolta, mi diceva, come fosse la cosa più limpida e più normale, che un altro religioso aveva in un certo giorno la sua giornata di libertà, un altro ancora in un giorno diverso.

Ai miei tempi (ed ecco che mi scappa la frase da vecchi) il padre spirituale del seminario diceva che dovevamo da preti lasciarci “mangiare” dai fedeli, tanto dovevamo essere disponibili alle loro attese. Come volete che mi sia possibile condividere il nuovo modo di pensare?

Da giovane prete le mie vacanze erano costituite da un campo estivo con un centinaio e forse più di scout, dormendo dentro una piccola tenda e per terra, mangiando i menù che i ragazzini cucinavano tra mille lazzi!

Come volete che con questo passato possa accettare che i miei colleghi passino le vacanze un anno in Thailandia ed un altro in India?

A San Lorenzo confessavamo dalle 14 alle 20 di continuo e alle 21 tornavamo in chiesa per i ritardatari. Come volete allora che possa comprendere che il tal parroco riceva il mercoledì dalle 10 alle 11 e il venerdì dalle 16 alle 17?

Se fosse giusto questa nuova prassi di vita dovrei dire a Gesù in croce “Guarda che hai sbagliato tutto!”

Il ricordo dei fratelli Fiozzo

La signora Fiozzo, moglie del carissimo ed indimenticabile “Checco”, il parrocchiano che mi voleva un bene del mondo, che si mostrava entusiasta per ogni mia iniziativa e che approvava con candore e letizia le mie scelte, mi ha chiesto di celebrare la messa per i quattro fratelli che ora con i loro papà e mamma sono una delle più belle famiglie di Carpenedo che ora abitano in cielo.

Ho aderito immediatamente alla sua richiesta; mi fa immensamente piacere passare un’oretta con Francesco, il consigliere del Piavento, di Piergiorgio, l’Achela dei lupetti, di Paolo, il componente soave e silenzioso della Corale Carpinetum e di Raffaella, che spese una gran parte della sua eredità per comperare i cani pastore per i ciechi.

Parlare di messa di suffragio o di esequie mi è parso fin da subito un’espressione inadeguata e formale.

Mi è parso subito bello di pensare ad una riunione di famiglia, ad un incontro tra amici.

I Fiozzo sono venuti tutti, dal più piccolo alla moglie di Francesco, di Paolo e Piergiorgio, già suocere da parecchi anni. C’era nella cappella del don Vecchi un gran ventaglio di volti, di età, di professioni, ma s’avvertiva che il denominatore comune era evidente, il calore umano, la simpatia, la fraternità dei Fiozzo, ereditata da papà Attilio, parroco laico di Carpenedo e da sua moglie, la maestra per antonomasia.

Queste celebrazioni domestiche in cui lo spirito e l’umanità si fondono, si completano e si arricchiscono sono l’espressione più alta, più vera e più nobile della liturgia.