La Prima Comunione dei bambini è un momento prezioso!

Qualche giorno fa mio fratello don Roberto, mi telefonò per accertarsi sulla mie condizioni di salute, scusandosi di non venire a trovarmi di persona perché tanto impegnato, come sempre, nella sua parrocchia grande e numerosa, ma soprattutto perché le prime comunioni l’avevano assorbito quanto mai.

I problemi pastorali mi hanno sempre interessato, e sebbene ora sia fuori del circuito, non sono venuti meno la mia curiosità e il mio interesse e perciò chiesi a don Roberto quale fosse la sua situazione nella sua parrocchia e quale dottrina e prassi segue in questo settore.

Quest’anno nella parrocchia di Chirignago, che è appunto la comunità cristiana di cui mio fratello è parroco, sono stati ammessi 60 ragazzi della terza elementare, che egli ha preparato personalmente per questo grande evento.

Per la prima comunione ha diviso questi ragazzi in due turni perché la chiesa non riusciva a contenere genitori, nonni e familiari.

Mio fratello, commosso e felice mi raccontava l’evento descrivendomi l’ebbrezza sua, quella dei bambini e di tutta la comunità, che ogni anno vive come un’esperienza fortissima ed indimenticabile questo momento di autentica e vera spiritualità; l’innocenza dei piccoli, il loro entusiasmo e la loro fede fresca e pulita e il riflesso di tutto questo nel cuore degli adulti che almeno in quell’occasione recuperano qualcosa di bello e di vero presente nella loro coscienza, magari sotto la cenere, ma presente, è veramente qualcosa di meraviglioso.

Questo racconto ha fatto emergere nel mio animo questo splendido evento che ogni anno, nel cuore della primavera e della vita, io ho vissuto per più di 50 anni come un’esperienza spirituale somma ed irripetibile.

Credo che chi ha partecipato e vissuto momenti del genere non li potrà mai dimenticare anche se sopra di essi il terremoto delle esperienze umane li avesse coperti di cumuli di macerie.

Quando io condussi questa splendida realtà ricordo con quanto vigore e convinzione dicevo ai piccoli che si accostavano alla tavola del Signore e ai loro cari: “Ricordate che il vostro posto nessuno lo occuperà, rimarrà sempre per voi, ricordatevi che la vostra chiesa rimarrà sempre con le porte aperte per il vostro ritorno, ricordatevi che qui ci sono i valori più alti, si dicono le parole più vere, che qui potrete incontrare il Padre e i fratelli, ricordatevi che qui avete vissuto uno dei momenti più belli della vostra vita”.

Privare i bambini e la comunità di un’esperienza del genere sarebbe un vero sacrilegio! Mi verrebbe voglia si offrire una nuova massima sapienziale per la chiesa: “Quanto è saggio il sacerdote che semina sul terreno vergine altrettanto è sciocco chi vuol seminare sul terreno già occupato dalle erbacce!”

Il cambio di mentalità che da 20 secoli ci chiede Gesù

Nel pomeriggio di quest’oggi saranno stati dai 30 ai 40 i fedeli che han partecipato all’Eucarestia che celebro ogni giorno nella nuova cara chiesa del camposanto, l’ultimo amore della mia vita di prete.

In questi giorni, la liturgia ci fa riflettere sulle pagine dell’evangelista San Giovanni, scrittore sacro con cui non mi trovo in sintonia, perché prediligo la concretezza di Marco, Luca e Matteo, ai voli mistici del più giovane degli apostoli, la pagina del Vangelo verteva sul colloquio notturno di Nicodemo, il simpatizzante di Gesù che lo ascoltava volentieri nonostante facesse parte della giunta del governo ebraico che era decisamente contraria al messaggio del profeta teoricamente tanto atteso ma concretamente altrettanto rifiutato. Il potere è fisiologicamente contrario ad ogni innovazione perché è la conservazione che gli garantisce continuità. Cristo dice a Nicodemo che Egli chiede una vera “rinascita” ai suoi discepoli, ossia una nuova mentalità, un modo nuovo di giudicare gli eventi e di vivere la vita. Nicodemo non capisce ed obbietta che una rinascita fisica è impossibile per l’uomo.

Sono passati 20 secoli da questo incontro e dalla chiarificazione di Cristo su che cosa si aspetta dai suoi discepoli, ma pare che la sua lezione non sia ancora recepita nella coscienza dei cristiani d’oggi.

La stragrande maggioranza dei fedeli è convinta che l’essere cristiani consista nel dire qualche preghiera o partecipare più o meno frequentemente a qualche rito religioso.
Tutto questo però rimane in superficie, sopra la pelle ma non modifica non rinnova e sublima la vita.

Il fondatore degli scout, da grande pedagogo quale fu, avendo capito tutto questo aveva suggerito ai ragazzi: “chiedetevi come penserebbe Gesù, cosa deciderebbe, cosa farebbe se fosse al tuo posto e poi comportatevi in merito”.

Credo che questo suggerimento può andar bene anche per i cristiani del nostro tempo, il cambio di mentalità può avvenire solamente per questa strada, questa è la vera rinascita!

I miei rapporti con le anime di Dio

Durante i miei ultimi due ricoveri in ospedale, mi sono portato via, tra gli altri, un volume regalatomi lo scorso anno da una signorina che ai tempi di monsignor Vecchi ha svolto un ruolo notevole nella vita pastorale della parrocchia di San Lorenzo, la dottoressa Mirella Sambo, impegnata su molti fronti, quali la cultura, la gioventù e gli zingari.

Avevo citato, in uno degli editoriali de “L’incontro”, una corrispondenza e forse una visita di Gandhi ad una piccola comunità monastica che si rifà allo spirito del poverello di Assisi, comunità guidata da una badessa di grande levatura mistica. Questa anima di Dio manteneva un fitto ed intenso rapporto spirituale con le anime di preti, frati e uomini e donne di Dio del nostro tempo, incontrandoli spiritualmente al livello più alto ove il cielo è libero e limpido e non risente delle marette e dei contrasti che avvengono alle quote più basse.

Ora, il volume di cui parlavo, curato dal monaco Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, riporta in maniera puntuale e perfino pignola, tutta la corrispondenza intercorsa tra don Primo Mazzolari e questo piccolo mondo monastico, diventando quasi il “salotto” degli spiriti nobili della fede.

Mai avrei immaginato che don Mazzolari, profeta del nostro tempo ed anticipatore della Chiesa dei tempi nuovi, avesse una tale sensibilità religiosa ed una finezza spirituale da mantenere aperto un dialogo di un misticismo di prima grandezza. Da questa scoperta sono stato veramente colpito ed ammirato. Le anime di Dio trovano sempre modo di incontrarsi, di comprendersi e di aiutarsi nonostante vivano in luoghi diversi e si occupino di realtà tanto lontane tra loro.

Mi sono chiesto quasi per necessità: “I miei rapporti spirituali con le anime di Dio come si sono svolti e si sono realizzati? Per grazia di Dio ho incontrato nella mia vita sacerdotale anime veramente eccelse e meravigliose, purtroppo non ho mai coltivato queste “amicizie spirituali”, sempre condizionato ed assorbito dalla mia vita di “manovale della Chiesa”.

Ora, saltuariamente, mi scrive la superiora di un convento di carmelitane scalze di Venezia, che credo sia un’anima bella; mi fa piacere sapere che ci sono queste creature, interamente donate al Signore, che mi stimano e mi vogliono bene, ma purtroppo il rapporto si ferma sulla soglia del convento e delle mie occupazioni quotidiane!

Il testamento spirituale

Prima che io entrassi in ospedale è venuto a farmi visita, nel mio piccolo alloggio al “Don Vecchi”, don Roberto, mio fratello minore, parroco di Chirignago. Io sono il primo e lui è l’ultimo di sette fratelli che, tutto sommato, si vogliono bene e condividono i valori fondamentali della vita che i nostri genitori ci hanno trasmesso.

Più volte ho confessato la mia stima e la mia profonda ammirazione per questo mio fratello parroco. Don Roberto è intelligente, generoso, seriamente impegnato a condurre la sua parrocchia e credo che stia ottenendo degli splendidi risultati, soprattutto a livello dei ragazzi e della gioventù. Tanto che credo che egli abbia una comunità cristiana così bella come poche parrocchie, o forse nessuna, in questo momento così difficile nella vita pastorale del nostro patriarcato e della Chiesa che in genere possiede!

Don Roberto è un idolo a livello parrocchiale, ma per scelta e per indole, dialoga poco, forse troppo poco, con la città e la Chiesa veneziana, mentre io sono convinto che oggi anche nell’ambito della Chiesa, dobbiamo assumere una mentalità ed uno stile globale che parli ad ogni ceto e ad ogni componente della vita cristiana.

Chiacchierando con don Roberto, gli accennai al testamento, che in altro momento cruciale gli ho affidato, dicendogli che i tempi passano veloci, le situazioni mutano e perciò si senta totalmente libero di disporre come crede delle mie pochissime cose.

Mi ricordai che nelle mie ultime volontà non ho neppure accennato a quello che tanti chiamano ancora il “testamento spirituale”. La mia vita rappresenta in maniera fedele ciò in cui credo e che ritengo importante, se ho qualcosa da dire al mondo in cui sono vissuto, lascio a ciò che ho fatto, che ho sognato, e a ciò per cui mi sono battuto di dirlo. Se dovessi però scendere al concreto, confesso che avrei veramente delle difficoltà ad indicare il nome di un prete a cui riterrei opportuno lasciare in eredità il mio amore per i poveri, per gli ultimi, per quelli che non contano, per gli anziani. Tutto questo però non mi amareggia più di tanto perché al buon Dio non manca la capacità e la volontà di trovare gli uomini giusti per le cause giuste.

Ho dispensato quindi don Roberto dal preoccuparsi del “Don Vecchi” e del polo della solidarietà che vive in simbiosi con esso.

Gratitudine ai patriarchi della mia vita sacerdotale

I miei rapporti con i miei superiori della Chiesa veneziana non sono mai stati idilliaci, ma neppure burrascosi. Credo che questa convivenza, tutto sommato serena e costruttiva, sia merito più della altrui intelligenza e virtù, piuttosto che della mia saggezza e capacità di dialogo.

Non sono mai stato un gran frequentatore della curia o del palazzo patriarcale, non certamente a motivo di un rifiuto preconcetto, ma per la mia sensibilità umana e religiosa più propensa ad un servizio serio ed impegnato che ad una partecipazione assidua a riti e cerimonie. Non sono mai stato amante dei discorsi spesso inconsistenti ed in linea con la moda ecclesiastica del momento, perché convinto della necessità di un servizio attento, costante e generoso al Popolo del Signore.

Ho vissuto la mia vita da chierico e da sacerdote sotto i Patriarchi Agostini, Roncalli, Urbani, Luciani, Cè, ed ora Scola: figure splendide di vescovi intelligenti, dalla fede profonda e di grande sapienza pastorale.

Io sono veramente orgoglioso dei Patriarchi che ho conosciuto e che hanno guidato il mio servizio pastorale. Porto un ricordo alto del Cardinale Agostini, un Patriarca che sapeva bene il suo mestiere di vescovo e l’ha svolto con rigore e coerenza; del Cardinale Roncalli, futuro Papa, per la sua sapienza e la sua calda umanità; del Cardinale Urbani per la sua venezianità e per la capacità di rimanere a galla nonostante i tempi difficili della contestazione. Ricordo con stima e devozione il Cardinale Luciani per la sua umiltà e per il coraggio nel guidare un clero ed una Chiesa irrequieta; il Cardinale Cè per la sua pazienza illimitata, la sua spiritualità e paternità sofferta, e il Cardinale Scola per l’intelligenza, la ricerca e il dialogo con questa società secolarizzata.

Ho amato profondamente i miei vescovi, ho sempre tentato di viverne il messaggio sostanziale, ho dialogato con la parola e con le opere in maniera onesta, rispettando ognuno e manifestando sempre con franchezza il mio parere nel desiderio di contribuire al loro difficile ed importante ministero. Spero di essere stato, come mi sono sempre proposto, un prete “libero e fedele”. Sono loro riconoscente di avermelo permesso, senza strappi o diatribe inutili e dannose.

Laici e clericali

Io sono sempre stato avido di leggere, sia per conoscere la cronaca della vita che per indagare sugli indirizzi del pensiero, sugli orientamenti della cultura e sui “segni dei tempi”, ossia sulle direzioni, che per motivi profondi ed occulti, guidano l’orientarsi della società. In questa presa di contatto con la vita, soprattutto quella del mio Paese, della Chiesa, mi imbatto assai di frequente in due modi di pensare che da un lato capisco quanto siano importanti, e da un altro lato mi appaiono settari, odiosi e fuorvianti. Questi modi opposti, o almeno diversi di approcciarsi alla vita sociale, sono riassunti in due aggettivi i cui contenuti sono sempre stati presenti nella storia degli uomini, ma che oggi m’appaiono come due bandiere diverse ed opposte: laico e clericale. Questi due distintivi di due mentalità, due stili di vita e due valutazioni, da un lato mi interessano perché diventano strumenti preziosi di lettura e di interpretazione della vita e della società, e dall’altra sarei tentato di rifiutarli in maniera radicale perché sempre tendenzialmente faziosi e preconcetti, tanto da portare spesso all’incomprensione e allo scontro.

Comincio col mettere a fuoco il volto, la ricchezza e i limiti del termine “clericale”. Esso mi appare come la deformazione del termine “religioso”, come sinonimo di bigotto, di chi utilizza la fede per scopi impropri, di chi rinuncia a pensare con la sua testa e delega totalmente la gerarchia ecclesiastica a scegliere e prendere decisione, di chi non pare convinto e responsabile delle scelte che devono derivare dalla sua fede. Ciò mi delude e mi porta al rifiuto di questa mentalità.

Al contrario il termine “laico” (sarebbe forse meglio quello “laicista”) mi suona sempre con un timbro di arroganza, di poco o nessun rispetto per il credente, di interiorità morale ed intellettuale gratuita e di lettura dissacrante del fenomeno religioso e ciò mi appare sempre come fazioso, intollerante e preconcetto. D’altronde sono altresì convinto che ambedue le posizioni posseggono qualcosa di importante e di necessario per leggere e interpretare i fenomeni sociali.

Come vorrei impossessarmi del meglio di questi due modi di valutare, spogliandoli dai limiti pesanti ed ingombranti che essi oggi hanno. Ho fatto quindi il proposito di non essere mai clericale o laico e nello stesso tempo di essere nel contenuto laico e clericale.

Pensieri dopo la battaglia

Sto vivendo con un po’ di pena e con molta insofferenza, per una vita non piena e libera, la mia convalescenza. L’intervento chirurgico ha certamente menomato le mie forze fisiche, ma non la mia razionalità, il mio spirito. I primi giorni dopo l’intervento mi si era offuscata anche la lucidità e la capacità di valutare pensieri e giudizi, ma questo è passato assai presto, mentre il mio fisico è rimasto greve e tardo nel realizzare le tensioni della mia volontà.

In questi giorni, in cui sono costretto a rallentare le mie attività che esigono movimento e parola, lo spirito ha preso il sopravvento, rompendo il vecchio e consueto equilibrio che s’era instaurato dentro di me e perciò, non potendo muovermi ed agire, ho finito per pensare molto di più, e non di frequente mi capita di lasciarmi aggrovigliare da ragionamenti che risultano perfino oziosi e che finiscono per non portare da nessuna parte.

Mi dicevo, in questi ultimi giorni: “Devo prepararmi a vivere o a morire?” Si, forse ho vinto, a caro prezzo, anche questa battaglia, ma all’orizzonte m’accorgo che c’è un “nemico” sempre più forte e agguerrito, mentre avverto che le mie risorse, sia fisiche che morali, stanno venendo meno. Mi domando, sempre più di frequente, se vale la pena di impegnarsi in questa lotta impari e faticosa.

Ultimamente si è affacciata alla mente una vecchia sentenza che ora mi pare saggia e provvidenziale: “Vivi come se dovessi morire domani e nello stesso tempo vivi come se la tua vita dovesse durare un’eternità”. Scelgo di vivere alla giornata, riempiendo i miei giorni ed impegnandomi a realizzare un mondo nuovo, ma nello stesso tempo voglio essere onesto con me stesso, e perciò voglio impegnarmi a fare la mia parte, non preoccupandomi più di tanto dei risultati e di come andrà domani.

La bella intervista del nostro patriarca Angelo Scola

Nelle prime ore del pomeriggio della domenica normalmente sto a casa e mi con concedo la visione di due rubriche televisive che mi interessano alquanto: “L’arena”, condotta dal giovane e brillante Giulietti, un cristiano coerente, disinvolto e brillante, che dialoga con i protagonisti e sugli avvenimenti del nostro tempo, senza complessi e in maniera spigliata e disinvolta. Come seguo con uguale interesse la rubrica tenuta dall’Annunziata, che ogni settimana dialoga con un personaggio del nostro Paese e su argomenti di palpitante attualità.

L’Annunziata, da quanto mi è dato di sapere, è cresciuta alla scuola delle Botteghe Oscure, è di sinistra e molto spesso si mostra, con i suoi intervistati, impertinente e quanto mai faziosa. Ricordo che in una trasmissione è stata talmente critica col capo di governo Berlusconi, che egli perse la pazienza e lasciò di tronco l’intervista. Detto questo però, debbo aggiungere che questa donna è estremamente intelligente, preparata, per cui va sempre al cuore del problema che vuol trattare e non molla mai l’osso, costi quello che costi.

Il giorno di Pasqua sono stato a casa perché convalescente e perché non avrei potuto fare alcunché d’altro. Con mia sorpresa, dato il sovrapporsi, seppur parziale delle due rubriche, ho scoperto che l’Annunziata stava dialogando col nostro Patriarca. Mi sono piaciuti l’uno e l’altra; le parole del Patriarca, le sue argomentazioni e l’atteggiamento della conduttrice. Lei mi è parsa persino bella, cortese, rispettosa, attenta ed in ascolto, pur ponendo sul tavolo argomenti quanto mai spinosi, che fanno fremere l’opinione pubblica. Il nostro Vescovo pacato, umano, disponibile. Quel Patriarca che nei discorsi a livello personale è ricco di una straordinaria e calda umanità, ma che non sempre emerge quando si imbarca in discorsi ufficiali.

Il Patriarca ha offerto all’opinione pubblica del nostro Paese il volto più nobile, più vero e più alto della nostra Chiesa e questo non è proprio poco in questi nostri tempi.

Il Quinto Vangelo, secondo De André

Io deliberatamente mi lascio coinvolgere dal messaggio che emerge dalle letture che vado facendo. Mi turba e mi sconvolge tutto quello che fa traballare la sistemazione ideale che mi sono fatto delle cose della vita, dell’oggi, del domani e di Dio, però ritengo onesto non conservare come un tesoro certe visioni che col tempo sono state superate, ormai fuori corso o sono strumentazioni ideologiche arcaiche.

Ho già confessato le mie grosse riserve nei riguardi di don Gallo, il prete genovese di cui, in questi giorni, sto leggendo un volume, però ci sono delle affermazioni, forse esagerate, guascone, ma che mi offrono la lettura, il recupero di strumenti ideali per comprendere una religiosità reale, difforme e forse opposta a quella formale, fasulla e di comodo.

Nel passato ho più di una volta scritto il mio entusiasmo e la mia profonda attenzione a quello che Pomilio ha chiamato “il quinto Vangelo”, ossia il messaggio che il buon Dio ci fa pervenire mediante i segni dei tempi, gli eventi ed anche la cronaca quotidiana; si tratta sempre di un messaggio semplice, immediato, comprensibile e soprattutto vero ed attuale.

Riporto alcune righe stupende di don Gallo, amico del cantautore Fabrizio De André, con le quali questo prete protestatorio ci fa comprendere come anche le parole e le note talora sarcastiche e talora tenere del novelliere ligure seducano e mettano in luce la solidarietà, il riscatto e la liberazione delle quali il Vangelo di Gesù è fonte fresca ed inesauribile.

Scrive don Gallo:
“Ad un rinfresco incontrai un cardinale, il quale colse subito l’occasione per insinuare: «Tu sei sempre in giro per l’Italia, ma li studi i Vangeli?» «E certo!» «E quanti sono?» «Cinque: Marco, Luca, Matteo, Giovanni…» «E il quinto?» incalzò preoccupato. «Il Vangelo secondo De André.»
In fondo, “in direzione ostinata e contraria”, non è la sintesi del Vangelo di Gesù? La poesia musicale diventa coscienza civile, comprensione umana, preghiera smisurata, guerra alle ipocrisie, amore per i perdenti e i derelitti, quelli che la gente perbene lascia a terra nella sua inarrestabile corsa verso il trionfo materiale. Ecco che il poeta con il suo genio trova ispirazione indagando nei bassifondi, nei vicoli ombrosi, tra i viados, barboni, rom, artisti libertari, e da lì scatta la sua insofferenza verso il potere, verso il clero moralista, verso l’intolleranza. Tutta la sua opera si libera negli anfratti, corre su due binari: ansia per la giustizia sociale e speranza di un mondo nuovo. Nell’affresco di anime salve Fabrizio tornava a sfidare un mondo dove, coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie, sta la maggioranza. E sotto, o ai margini, le minoranze, disobbedienti alle leggi del branco, stanno come una svista, come un’anomalia, una distrazione.”

Don Gallo

Per Pasqua i volontari che si occupano della raccolta e della distribuzione degli indumenti per chi ne ha bisogno, mi hanno donato un volume di un prete genovese. Sto leggendo questo libro con estremo interesse, perché sono avido di conoscere le testimonianze degli uomini della Chiesa e perché mi interessa quanto mai tutta la lettura delle cose della religione. Già più volte avevo sentito parlare di questo don Gallo, e non sempre bene! Si tratta di un salesiano, mio coetaneo, in costante rotta di collisione con la gerarchia ecclesiastica, che si occupa di drogati, prostitute, viados, extracomunitari, no-globals e via dicendo.

Don Gallo è uno di quei preti che certamente non sono mai in riga né, temo, sopra le righe, ma anzi, sempre, sotto le righe suggerite e ordinate dalla Chiesa ufficiale. Tutto sommato non condivido il suo pensiero e la sua condotta; eppure riscontro in questo prete un sano e forte amore per l’uomo, una vera solidarietà per i più fragili, i dissenzienti cronici su tutti i fronti, una capacità di dialogo con quel mondo al limite di ogni legalità, sia civile che religiosa.

Confesso che sono contento che vi siano al mondo dei don Gallo e confesso ancora che li preferisco a certi abatini ordinati ed incolori, o a certi prelati di piccolo, medio o grande rango, che sono insignificanti, non rappresentano nulla dell’ineffabile mistero di Dio. Questi preti, alla don Gallo, sanno leggere nella parte in penombra della vita della Chiesa e sanno raccogliere quella religiosità difforme dalle regole ufficiali, ma che pure si confronta in modo vero nel rapporto con un Dio che non è un teorema semplice, ma un mistero profondo e complesso.

“Noi preti dobbiamo essere testimoni della tenerezza di Dio!”

Qualche settimana fa è morto don Zega, il sacerdote della congregazione di don Alberione, fondatore dei Paolini. Don Alberione fu il sacerdote che intuì, in maniera lucida e intelligente, il ruolo decisivo che i mass-media avrebbero svolto nella società attuale. In relazione a questa intuizione don Alberione ebbe la forza e la capacità di dar vita ad un movimento di persone e di strutture veramente imponente. Sono numerose le “famiglie religiose” fatte nascere da don Alberione, più numerose le testate giornalistiche, tanto da arrivare perfino alle produzioni cinematografiche. Ma fra le testate più famose e più diffuse tra quelle promosse dai Padri Paolini, la più nota è certamente il settimanale “Famiglia Cristiana”, periodico che fino a qualche anno fa aveva una delle tirature più alte in assoluto nel mondo della stampa del nostro Paese. Don Zega fu per alcuni anni il direttore di “Famiglia Cristiana” ed ultimamente curava invece l’importantissima rubrica “Colloqui con i lettori”.

Don Zega fu uomo e sacerdote intelligente, libero, ricco di una religiosità autentica ed attuale. “Famiglia Cristiana” in quest’ultimo mese ha dedicato parecchi articoli alla testimonianza pregnante di questo sacerdote che si è fatto messaggero del sacro mediante i mezzi di comunicazione sociale.

Sono stato particolarmente colpito da una frase pronunciata da don Zega nella chiesa del suo paese natìo in occasione della celebrazione del suo cinquantesimo di sacerdozio: «Noi preti dobbiamo essere testimoni della tenerezza di Dio!» Che obiettivo meraviglioso! Che proposta alta e comprensibile per tutti!

Sono ormai molti anni che ho cominciato ad essere disaffezionato del Dio ufficiale, ossia da quello teologico e da quello dei preti, dal Dio incomprensibile, rigido e geloso. Mi sono ormai innamorato del Dio della parabola del Figliol Prodigo ed ascolto tanto volentieri gli uomini che parlano e credono, comunque, nella tenerezza di Dio!

Che tristezza vedere delle radici al sole!

Prima che entrassi in ospedale ci fu una burrascata anticipatrice dei temporali estivi. Una notte è soffiato così forte il vento del nord da ammucchiare, contro le mura del cimitero, una quantità sconfinata dei vecchi fiori di plastica collocati sulle tombe, quei fiori che rendono più desolante e povero l’amore della nostra gente verso i propri defunti. I fiori veri sopravvivono nella loro bellezza, si e no un paio di giorni, poi sembrano materiale da pattumiera. Dopo qualche tempo il biroccio dei becchini porta il tutto nella discarica. E’ diventata prassi seguita quasi da tutti che quando i congiunti ritornano per la prima visita dopo la sepoltura, comperino un mazzo di fiori di plastica, sempre troppo belli per essere veri, ma che presto, con l’alternarsi della pioggia e del sole, sbiadiscono e svuotano quel ricordo e quell’amore dei quali si pretenderebbe che essi fossero segno.

La burrascata di qualche settimana fa, non ha solamente spazzato via i fiori di plastica, divelto qualche grosso ramo, ma ha anche letteralmente sradicato due cipressi centenari, uno nel campo presso il porticato a sud prospiciente la vecchia chiesa ed un altro nel campo presso il vecchio ingresso del camposanto. Ho visto questi grandi fusti lunghi una ventina di metri, con le radici al sole e tutta la ramaglia appoggiata sulle tombe. I cipressi hanno poco radicamento e per di più la terra attorno era stata mossa per lo scavo delle fosse.

E’ triste e desolante l’immagine di questa pianta che normalmente accarezza, dolce e superba, il cielo, desolatamente accasciata per terra. Questa immagine, non so per quale associazione di idee, m’è venuto da collegarla con le convinzioni, gli ideali, i valori e le utopie dell’uomo. Guai se le nostre convinzioni vengono a mancare di un forte radicamento con la cultura e la coscienza dell’uomo, è quanto mai triste incontrare uomini con le radici al sole, con radici che non affondano più su verità forti e sicure, ma sono esposte agli eventi e allo sguardo impietoso e deluso dei passanti.

Le parole non dette

Qualche tempo fa, non so chi, mi ha presentato una serie di frasi di un poeta di cultura ispanica: Gabriel Garcia. Sono stato colpito molto profondamente da queste frasi così intense e pregne di calore umano e di poesia. I poeti hanno la capacità di mettere a nuovo il contenuto delle parole e di renderle cariche di fascino, tanto da farti scoprire che quel mondo che talvolta pare banale, scontato e pressoché insignificante, è invece affascinante e meraviglioso.

Un tempo, quando celebravo l’amore dei giovani che si presentavano all’altare, spinto anche da un certo romanticismo insito nella mia persona – sentimento di cui non mi sono mai vergognato e del quale mai mi sono voluto disfare – arrivavo a dir loro che solo i poeti, gli innamorati e i santi sanno veramente cogliere la bellezza della vita.

Garcia, ammalato e morente, affermava, partendo da questa sua situazione esistenziale: «Se questi fossero gli ultimi giorni della mia vita, direi, senza un momento di esitazione e con tutta la ricchezza del mio spirito “ti voglio bene”.»

Mi venne in mente questa lettura e questi sentimenti quando, dopo un intervento chirurgico durato molte e molte ore, mi sono riscoperto solo, indifeso ed impotente, in una linda camera di rianimazione con le pareti tutte piene di luci che segnavano diagrammi multicolori, manometri e ticchettio di battiti cardiaci. Nel mio animo s’affacciarono lucide ed insinuanti le parole “Se queste fossero le mie ultime ore” e mai, come in quei momenti, sono stato cosciente delle parole belle non dette, dei sentimenti non espressi, degli incontri perduti, della bellezza, della verità e dell’amore non realizzato. Mi è sembrato che una fila interminabile di persone care attendessero il turno perché io dicessi loro quelle parole care che, per superficialità ed insipienza, non avevo detto loro.

Un libro che mi è stato utile

Pensando di dover rimanere per parecchi giorni in ospedale, ho portato con me due volumi.

Il primo profondamente mistico: “L’ineffabile fraternità” il carteggio (1925-1959) tra don Mazzolari, ed un piccolissimo eremo francescano di Campello sul Clitunno.

Tempo fa ho pubblicato due o tre editoriali su “L’incontro” tra questa piccola ed umile comunità monastica e Gandhi, in cui scrivevo che all’apice la spiritualità cristiana e quella dell’induista Gandhi, si incontravano e si compenetravano con assoluta facilità.

Il secondo volume porta sulla copertina l’etichetta “Novità” dal titolo: “Vita, morte miracoli” di Stefano Lorenzetto e prefazione di Giuliano Ferrara. Probabilmente qualcuno mi ha regalato il volume in occasione del Natale. Il libro porta come sottotitolo: “Dialoghi sui temi ultimi”.

La prefazione di Giuliano Ferrara, il direttore de “Il foglio”, è come sempre brillante, tagliente, esagerata, il contenuto mi pare però molto più modesto di quanto Ferrara dica del suo giornalista.

Sinceramente non è un libro da consigliare ad uno che entra in ospedale per un intervento notevole perché tratta di personaggi del nostro tempo che per un motivo o per l’altro hanno avuto a che fare con il dolore, la malattia e la morte; 269 pagine di disgrazie di sofferenze di ogni tipo. Nel volume ci sono pure sprazzi di luce, di speranza, però in definitiva si tratta di una numerosa galleria di persone colpite dal destino che hanno raggiunto la fine attraverso le strade più impervie ed amare.

Tutto sommato non mi ha fatto male anche se tutti quelli che sono venuti a trovarmi pensarono di cattivo gusto questa scelta.

Il pensiero che tanta gente ha sofferto più di me, è stata più sfortunata, mi sta aiutando a non voler essere un privilegiato e ad accettare tutto quello che il buon Dio pensa bene di mandare.

Capire il tempo nel quale la Bibbia è stata scritta per comprenderne appieno il messaggio

Quando al liceo abbiamo affrontato il problema della creazione del mondo e dell’uomo, l’insegnante di biblica, che non era certamente un esperto e che molto probabilmente insegnava questa materia solamente perché i superiori glielo avevano imposto, si arrabattava come meglio poteva, talvolta parlandoci di cinema, materia in cui era più preparato, e talvolta ponendoci i problemi che la Bibbia pone senza però tanta convinzione e soprattutto senza la capacità di risposte veramente convincenti.

Quando trattò il libro della Genesi pose sul tavolo le due soluzioni possibili: L’evoluzionismo e il fissismo.

Io studiai questi argomenti sessant’anni fa e la chiesa a quel tempo propendeva al fissismo, magari un po’ corretto, ossia la creazione avvenne com’è descritta nella Bibbia cioè nei sette giorni. I miei amici di classe, specie i più devoti, accettavano questa soluzione. L’altra soluzione consisteva nell’evoluzionismo cattolico, cioè la creazione viene da Dio, ma si realizza nel tempo secondo leggi che Dio aveva inserito nella materia.

Io propendevo per questa soluzione, che secondo me non confligge assolutamente col principio di Dio creatore.

Questo discorso implicava una ricerca ed una lettura della Bibbia intelligente. La Bibbia è certamente un testo sublime e saggio, però è nato in un determinato ambiente e in una cultura lontana anni luce dal nostro tempo.

Per una lettura possibile e feconda c’è assoluta necessità di decodificare i testi, di interpretarli e di liberarli dalle scorie di una cultura primitiva.

Il Dio degli ebrei, se preso com’è presentato dalla Bibbia, è un povero Dio geloso, vendicativo, in costante lite con gli altri dei, preoccupato di aver seguaci. Un tempo questo mi metteva in crisi, mentre oggi mi pare di comprendere che è normale che ci sia questo cammino di purificazione e di crescita intelligente, il Dio d’oggi non avrebbe mai e poi mai potuto essere compreso dagli ebrei della Bibbia e l’evoluzione è il solo metodo di lettura che ti permette di accettare Dio. Froid ha certamente un posto in paradiso.