Finalmente!

E’ da una vita che vado ripetendo, solitario ed inascoltato dai più, che la solidarietà è parte integrante, anzi più importante, del messaggio di Gesù e che questo discorso non deve rimanere appeso alle nuvole del soprannaturale, ma deve trasformarsi in servizio e strutture. Sono infinite le volte che vado denunciando che nelle nostre parrocchie e diocesi si tende a costruire una Chiesa impostata quasi solamente sul culto e sui riti, mentre si trascura la carità.

Infatti, mentre si sono costruite, giustamente, chiese per il culto e i sacerdoti sono impegnati perché i fedeli le frequentino, ben raramente si riesce a trovare simile riscontro per le opere della carità; mancano quasi sempre strutture di questo genere e purtroppo anche un minimo di organizzazione per la carità. Il rito s’è imposto in maniera determinante, mentre la carità è rimasta la cenerentola che non riesce a liberarsi del povero involucro dell’elemosina.

Ora, già nel primo documento con cui Papa Francesco si rivolge alla Chiesa, c’è l’invito a cambiare registro: “Meno liturgia e più carità”, dice il Pontefice. Ma già, e prima dell’invito formale ad invertire la marcia, il Papa l’ha manifestato fin dai primi istanti del suo servizio alla Chiesa universale. E’ subito balzato agli occhi di tutti che questo Papa ha ridotto all’essenziale lo sfarzoso cerimoniale delle celebrazioni pontificali: sia nei gesti, che nelle vesti.

C’è da augurarsi che questo nuovo stile liturgico si diffonda anche nelle diocesi e nelle parrocchie con una semplificazione che riduca all’essenziale il modo di gestire il culto pubblico, eliminando un’ampollosità ormai insignificante, anzi pressoché incomprensibile all’uomo di oggi.

E’ vero che in questo ultimo mezzo secolo quest’opera di semplificazione ha fatto molta strada; se mi rifaccio alle messe e soprattutto ai pontificali ai quali ho assistito a San Marco da seminarista e da chierico, ho modo di constatare un’evoluzione, ma forse essa è ancor troppo lenta per essere significativa.

Ricordo che a quel tempo il Patriarca era bardato di tuniche, calzari; accanto a lui il cerimoniere, il caudatario per sorreggere la coda di tre quattro metri, un nobile con lo spadino, la guardia della Basilica con un’uniforme del settecento ed un numero notevole di chierici inservienti per la mitra, il pastorale.

Ora sono una ventina d’anni e forse più che non assisto più ai pontificali, però ho visto la messa del Patriarca nella mia “cattedrale tra i cipressi” per la ricorrenza dei morti, e mi è sembrato ancora un po’ di troppo il cava e metti dello zucchetto, della mitra e del pastorale. Penso che ci sia ancora un poco da sfrondare nella liturgia, ma moltissimo da aggiungere nei riguardi della carità e che, per la nostra società, per Papa Francesco e anche per me, l’esistente è ancora fin troppo sobrio ed elementare.

26.11.2013

Don Fausto

Tutte le settimane un mio collaboratore mi porta “La Borromea”, il primo “bollettino settimanale”, in ordine di tempo, che è sorto a Mestre. La storia del periodico l’ho raccontata altre volte, però la ripeto per giustificare il mio particolare interesse per questo settimanale.

Mezzo secolo fa monsignor Vecchi, di cui ero cappellano, mi portò in Francia, Paese che allora era all’avanguardia da un punto di vista pastorale, per aggiornare la nostra attività parrocchiale su quel modello. Scoprimmo in una chiesa un “rudimentale” bollettino, ed appena tornati a casa fondammo “La Borromea”, in ricordo della campana donata alla parrocchia di San Lorenzo da parte di san Carlo Borromeo che, di ritorno da Roma, sostò nella villa di via Carducci, villa che oggi ospita la biblioteca civica.

Al mio interesse per questo motivo s’aggiunge il fatto che della “Borromea” sia oggi responsabile don Fausto Bonini, che io conobbi ragazzino quando, ben sessant’anni fa, fui assegnato alla parrocchia dei Gesuati ove don Fausto abitava con la sua famiglia. In verità leggo ogni settimana questo bollettino parrocchiale perché è un foglio eccellente sotto ogni punto di vista. Don Fausto, già direttore di “Gente Veneta”, è uno dei sacerdoti più preparati in fatto di giornalismo. Seguo poi questo “bollettino” perché posso seguire un tipo di impegno pastorale che io reputo assolutamente all’avanguardia nella nostra città.

Le iniziative pastorali di questo parroco, pur arrivato in tarda età alla parrocchia, dimostrano un intuito piuttosto raro di come oggi deve orientarsi una comunità cristiana che intende dialogare in maniera vera con i fedeli e la città.

Oggi la copertina di questo numero della “Borromea” riporta una bella foto di don Fausto e una sua triste lettera alla parrocchia e a Mestre. Il parroco del duomo informa che a metà maggio, avendo compiuto settantacinque anni, ha dato le dimissioni, che il Patriarca le ha accettate e che l’ha pregato di continuare per ora a svolgere l’attività pastorale con la delega di “amministratore parrocchiale”, un incarico che sa “di parroco azzoppato”, ossia con poteri limitati.

Don Fausto ha accettato di proseguire il suo compito con parole nobili e piene di amore verso la Chiesa veneziana che ha servito per più di cinquant’anni.

Confesso che ho letto La Borromea con tanta amarezza. La Chiesa mestrina perde uno dei suoi pochi leader che ha dimostrato di guardare al futuro e di saper dialogare non solamente con i fedeli del nostro tempo, ma pure con la città.

La Chiesa veneziana, mi pare che anche in passato non abbia mai conferito compiti sostanziali di guida al parroco del duomo di Mestre; sono state, a mio modesto parere, nomine piuttosto formali che reali. Ora non ci sono neppure quelle.

E’ vero che in linea d’aria Venezia è a un tiro di schioppo, in realtà però c’è di mezzo la laguna che per Mestre è poco meno dell’Oceano Pacifico.

25.11.2013

“Obbedisco”

Circa un mese fa s’è diffusa la notizia che don Cristiano Bobbo, il giovane parroco della parrocchia di San Giuseppe di viale San Marco, era stato trasferito ad Oriago, nella comunità di San Pietro. La cosa mi sorprese assai perché, avendo ammirato l’impegno pastorale generoso e intelligente e le realizzazioni che questo giovane sacerdote ha portato a termine nella quindicina di anni che ha trascorso come parroco in quella comunità, pensavo che gli avessero affidato una sede e degli incarichi più importanti ed impegnativi.

So che la parrocchia di San Giuseppe conta poco più di 4500 anime, mentre quella di San Pietro in bosco, a cui è stato destinato, ne ha quasi 6000, ma mentre conosco la vivacità e la ricchezza spirituale di quella che don Cristiano lascia, non conosco punto quella alla quale è stato destinato, ma mi pare che non si sia mai fatta notare per iniziative ed impegno pastorale.

Comunque questi sono problemi marginali che per me rappresentano poco più che una curiosità. Mentre quello che mi ha veramente edificato è stato lo spirito con cui don Cristiano ha affrontato questo – per me – sorprendente trasferimento, senza dolersi più di tanto ed abbandonandosi fiduciosamente alla volontà di Dio attraverso l’obbedienza serena – anche se, penso, sofferta – al superiore.

Un tempo si diceva che i preti sono come i soldati e perciò vanno dove sono comandati. Oggi, per fortuna, non è più così, perché la virtù dell’obbedienza è più consapevole e collaborativa. Il sacerdote è corresponsabile con le decisioni del vescovo e perciò non è più, nello scacchiere della diocesi, una pedina inerte ed irresponsabile. Non sempre mi sono trovato sulla stessa lunghezza d’onda, a livello spirituale, pastorale ed operativo, di don Cristiano, non per questo però, o forse appunto per questo, sono stato edificato dallo spirito con cui ha accettato il trasferimento che pur gli deve essere costato molto.

Ho seguito attentamente questo evento attraverso la lettura del periodico della parrocchia che lascia: talvolta è appena trapelata la sofferenza più che comprensibile, ma mai disappunto e resistenza. Io non conosco le problematiche dei preti e delle parrocchie della Chiesa di Venezia e perciò mi guardo bene dall’esprimere dei giudizi che sarebbero superficiali e non documentati, comunque non posso tacere la mia vera ammirazione per quanto don Cristiano ha fatto per la parrocchia e per come la lascia; soprattutto ho apprezzato la dignità e lo spirito di fede con il quale ha vissuto questo momento. Mi pare che sia doveroso per uno come me che partecipa, seppur da lontano, ma in maniera appassionata, alla vita della sua Chiesa, e che ne denuncia con franchezza le carenze, sottolineare anche i suoi pregi. Mi pare che il comportamento di don Cristiano faccia veramente onore al clero veneziano.

21.11.2013

Quando e perché?

Ho la sensazione, anzi quasi la certezza, che molti miei colleghi e forse anche il mio “governo” non capiscano e non condividano il mio impegno a favore degli anziani poveri. Le insinuazioni che furtivamente mi giungono all’orecchio sono diverse e quasi mai benevole. Qualcuno mi accusa di mania di protagonismo, “mal della pietra”, voglia di emergere ed altro ancora. Qualche altro accampa motivazioni vetero-comuniste, arcaiche, irrazionali e superate, ma ancora superstiti in qualche nostalgico del passato, affermando che a queste cose ci deve pensare lo Stato o il Comune o, comunque, l’ente pubblico, perché questi compiti non sono di pertinenza della Chiesa.

Per le prime insinuazioni neanche tento una difesa: è giusto che anch’io porti la mia croce. Ma per questi ultimi mi è sempre venuto da domandarmi: “Ma che ci sta a fare la carità cristiana e, meglio ancora, il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso”, se poi non si realizza un qualcosa di concreto?

Qualcuno che mi vuol bene pensa che questi giudizi malevoli siano un modo volgare per nascondere il proprio menefreghismo, il proprio desiderio di quieto vivere che viene turbato dall’impegno altrui. Qualche altro pensa che si tratti di invidia o di una reazione per giustificare il proprio disimpegno. Comunque la pensino gli uni e gli altri, è mia convinzione profonda che il comandamento dell’amore reciproco debba essere calato giù dalle nuvole e concretizzarsi in strutture o servizi, anche se questa operazione di concretizzare le scelte e gli ideali sempre si impoveriscono a motivo dei nostri limiti. Io, in questa stagione della mia vita, fra tutto il possibile e il necessario, mi sono ritagliato una piccola fetta: la residenza per gli anziani poveri, pur sapendo che il campo della carità è semplicemente immenso.

Voglio aggiungere che quando un uomo di Chiesa fa una scelta di questo genere, essa debba avere delle caratteristiche ben definite che la qualificano come autentica carità cristiana. Perciò ho eliminato fin da subito i settori che sono già abbondantemente presidiati o dall’ente pubblico o dagli enti di commercio. Ritengo invece che la Chiesa debba intervenire in presenza di queste condizioni:

  1. Quando apre una strada nuova con delle soluzioni innovative e quando, risultando questa sperimentazione collaudata e positiva, lasci pure che altri si occupino del progetto e lo portino avanti in scala più vasta.
  2. Quando l’opera è offerta alle classi più povere e quindi possono accedere a questa struttura o a questo servizio anche i soggetti meno abbienti che non potrebbero mai permettersi di fruire di realtà costose e superiori alla portata delle sue possibilità.
  3. Quando l’opera offre delle soluzioni rispondenti alle attese della povera gente, è rispettosa della persona e permette agli utenti di realizzarsi in maniera compiuta e pure rispondente agli standard del nostro tempo.

Da queste premesse credo che un prete non debba mai fare concorrenza alle strutture esistenti, non debba mai impegnarsi per le classi agiate, non debba puntare al lucro ed offrire soluzioni sgangherate, fuori tempo e non degne di essere destinate ai figli di Dio.

Questa è la mia dottrina e spero di essermi sempre attenuto ad essa nei miei impegni di ordine sociale.

16.11.2013

La richiesta di don Enrico

C’è un antico detto espresso dalla saggezza della cultura di Roma antica, “Le parole volano, mentre gli esempi trascinano”. Io sento un bisogno estremo di esempi e di testimonianze, anche se apparentemente sembrano modeste. Quando riesco a cogliere qualcuna di queste scelte coerenti ad affermazioni e spesso discorsi altisonanti, non solo sono felice, ma veramente mi sento bene.

Credo di aver affermato più volte, in queste mie riflessioni pubbliche, che mi aspetto dai sacerdoti un minimo di coerenza. Forse sarà populismo da prete, ma confesso che i preti che cambiano automobile di frequente, o scelgono macchine potenti e costose, oppure sentono il bisogno di andare in vacanza in capo al mondo, o che si preoccupano di assicurarsi la villetta o un appartamento spazioso per la loro vecchiaia, potranno avere l’eloquenza di Bossuet o Lacordaire, però i loro discorsi non mi turbano affatto, per me sono acqua fresca, anzi finiscono per irritarmi.

Nel contempo confesso pure che quando scopro nei miei colleghi passione per le anime, dedizione, amore per i poveri o ricerca di una pastorale che risponda alle esigenze degli uomini del nostro tempo, questi preti mi edificano e mi mettono positivamente in crisi.

Qualche giorno fa mi raggiunse una telefonata di don Enrico Torta, l’attuale parroco di Dese, quel prete che recentemente si schierò pubblicamente con i poveri, dicendosi disposto a guidare la rivoluzione dei derelitti per ottenere il necessario per vivere e che fece scalpore sulla stampa cittadina per un paio di giorni.

Don Enrico, con quella sua voce calda e serafica, mi disse al telefono: «Don Armando, mi daresti una cameretta al don Vecchi? A fine anno compio 75 anni, quindi dovrei andare in pensione, ma ho promesso al Patriarca di rimanere in parrocchia fino al giugno del 2014. Ti chiedo fin d’ora se posso contare su un minialloggio nel Centro don Vecchi di Campalto».

La richiesta di questo buon prete, mite e intelligente, ha toccato il mio animo come se avessi ricevuto una telefonata da Papa Francesco o, meglio ancora, se avessi incontrato Gesù risorto in persona!

Già venti anni fa avevo messo a disposizione, con dichiarazione formale al patriarca Luciani, sei appartamentini studiati ad hoc per preti anziani, però se fosse stato per le richieste dei preti veneziani, essi sarebbero sfitti da vent’anni. La scelta di condividere la vita dei poveri a chiacchiere è condivisa da tutti, però con i fatti moltissimi. preferiscono quella borghese. Comunque finché si riesce ad incontrare sulla nostra strada preti come don Torta, che sceglie così per la sua sistemazione da pensionato, si può continuare a sperare che la Chiesa veneziana avrà futuro.

07.11.2013

Fede e religione

E’ ormai da molto tempo che vado riflettendo su un argomento che pian piano mi fa intravedere un varco nel grigiore di una nebbia molto spessa in cui tante volte mi trovo avviluppato e in cui sto procedendo con dubbi e molte perplessità ed incertezze. Mi pare che per la stragrande maggioranza dei cristiani del nostro tempo si ritenga che fede e religione siano quasi due sinonimi per esprimere la stessa realtà, mentre questi due termini hanno dei contenuti estremamente diversi, anche se mantengono tra di loro un legame esistenziale.

La fede è fiducia assoluta ed illimitata in un Dio a cui dobbiamo tutto: la vita, il creato, l’oggi e il domani. Per noi cristiani poi questa realtà sublime ed indefinibile è rappresentata dal concetto di Paternità, per cui Dio non è una verità fredda, lontana ed assoluta, ma ha il calore e l’amore di Padre che ha voluto renderci partecipi della sua infinita ricchezza.

François Mauriac, il celebre pensatore e letterato francese, ha affermato infatti che se Gesù, venendo a questo mondo, non ci avesse annunciato altro che “Dio è nostro Padre” e che possiamo rivolgerci a Lui con questo nome, la sua venuta sarebbe più che mai giustificata per questa sola straordinaria notizia. La fede è veramente la pietra preziosa che dobbiamo custodire e difendere ad ogni costo, perché essa sola dà significato alla nostra vita.

Mentre la religione è tutto quell’apparato di pensiero, di riti, di usanze e di tradizioni che hanno come fine di alimentare, custodire e aiutare l’uomo a tradurre in scelte di vita la luce che riceve dalla fede.

Allora, se le cose stanno così, la fede è un assoluto, mentre la religione è condizionata dal tempo, dalla cultura, dall’evoluzione del pensiero umano, dalla stessa scienza e dalla tecnica. Perciò la religione non solo è soggetta alle singole culture dei popoli diversi, dall’evoluzione, dall’emancipazione dell’uomo, dai condizionamenti di mentalità e costumi che si vanno evolvendo; anzi la religione deve essere, per sua natura, una realtà che deve evolversi, adattarsi ai tempi nuovi e trovare modo di esercitare il suo compito in relazione al progresso umano.

Quindi la religione ha un compito sublime, ma nello stesso tempo corre il grosso pericolo di diventare una incrostazione del passato, o di ingessare la fede soffocandola in una morsa mortale. Se mi è lecito fare una osservazione, credo che abbiamo bisogno di una religione sempre più duttile, sempre in una evoluzione più rapida perché la maturazione del pensiero umano è più veloce che nel passato.

Sto leggendo un bel volume di Enzo Bianchi, il fondatore della comunità monastica di Bose, che afferma che la Chiesa “deve sempre convertirsi (cambiare) e sempre riformarsi”. A ben pensare i rapporti di Gesù con la religione sono molto particolari: mentre possiamo affermare senza dubbi che Gesù fu un uomo di fede, non possiamo dire con altrettanta certezza che fu “un uomo di Chiesa”. Si avvalse della religione, ma non ne fu schiavo. Credo che questo sia un problema su cui è bene riflettere.

03.11.2013

La ricchezza del prete

Io sono e resterò, tutto sommato, un uomo di chiesa e della mia Chiesa. Anche se a qualcuno forse posso sembrare talvolta critico, severo e perfino duro nei riguardi di certi fatti, di certi personaggi o comportamenti che si incontrano all’interno di essa e che a mio umile parere non sono coniugabili col messaggio evangelico, amo profondamente la mia Chiesa, l’ammiro appassionatamente e sono deciso a spendermi tutto per essa.

I miei profeti, ai quali sono quanto mai legato – don Mazzolari, don Milani, La Pira, Madre Teresa, padre Turoldo e tanti altri – sono per me, anche a questo riguardo, dei fari e dei punti sicuri di riferimento in questo mondo tempestoso in cui tutti noi, fedeli e preti, siamo bombardati da mille messaggi contrastanti.

La mia preoccupazione però rimane sempre quella, che noi sacerdoti corriamo il pericolo di diventare gestori di piccole comunità di credenti mediante la celebrazione, seppur corretta ed attenta, di riti religiosi, mentre per me – ma credo anche per tantissimi altri – il prete deve diventare il custode e il dispensatore di valori autentici, di una lettura positiva della vita che vinca quel nichilismo oggi imperante che svuota l’esistenza dell’uomo di significato e di perché.

In questi giorni, vedendo tanta gente vivere alla giornata, rassegnata, senza sogni e senza ideali, quasi condannata a vivere, mi sono tornate in mente le parole di due preti che sono esattamente in controcorrente e che danno motivazioni forti ai sacerdoti di oggi che talvolta sembrano dei perdenti come il parroco del villaggio di cartone di Olmi.

Il primo è il prete del romanzo di Bernanos “Il curato di campagna” che afferma: «Poco importa che vesta da beccamorto, ma io posseggo la speranza e ve la donerei per niente se voi me la chiedeste!» Quanta ebbrezza provo quando, nella mia povera chiesa prefabbricata, posso dire ai fedeli che stanno accanto alla bara di un loro caro: «Il vostro caro vive, ha già recuperato tutta la sua ricchezza umana e s’incontra col Padre che, abbracciandolo, gli dice “entra e facciamo festa!”». Sono così felice di poter affermare che la vita ha significato, che c’è una méta, che c’è una risposta a tutte le nostre attese! Sarei un perduto ed un disperato se non potessi donare queste certezze.

Il secondo è don Zega, il direttore di Famiglia Cristiana, morto due anni fa, che in occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio, disse ai suoi fedeli:«Noi preti oggi abbiamo il grande e splendido compito di parlare alla nostra gente della `tenerezza di Dio’».

Il Signore ci parla attraverso la natura, gli incontri, gli eventi, la Bibbia e ci parla col cuore caldo di padre che capisce, perdona ed ama anche, se come il prodigo arrischiamo di sperperare quel magnifico dono che è la vita.

Oggi ci sono pochi giovani che scelgono di fare il prete, però se incontrassero sacerdoti che vivono in maniera entusiasta e radicale il messaggio evangelico, penso che sarebbero molti di più.

10.10.2013

L’incontro

Una delle mie vecchie alunne delle magistrali, conoscendo le mie simpatie e i miei orientamenti pastorali, mi ha regalato il numero di “Repubblica” di due giorni fa. Il quotidiano ha dedicato la prima pagina e gran parte della seconda all’incontro tra Eugenio Scalfari, il fondatore di questo giornale – uomo che non fa mistero del suo ateismo – e Papa Francesco.

Confesso che mi sono letteralmente commosso alla lettura della lunga intervista con cui Scalfari racconta, con impareggiabile maestria ed umanità, il suo dialogo col Papa. Dovrei impiegare tutte le dodici pagine de “L’Incontro” per descrivere la commozione interiore e l’ebbrezza spirituale che ho provato leggendo questo singolare colloquio, così profumato di sincerità e di calore umano, tra due personalità tanto diverse ma, nel contempo, tanto simili.

Mi soffermo soltanto sul motivo, forse più banale, per il quale ho trovato tanto conforto e letizia interiore leggendo l’intervista di Scalfari e le risposte precise, pulite, ma dirompenti di Papa Francesco. Mi vergogno quasi di rivelarlo tanto è intimo e personale, ma confesso che uno dei drammi più amari nei miei quasi sessant’anni di sacerdozio è sempre stata la solitudine ideale all’interno della mia, pur amata, Chiesa. Mi sono sempre sentito solo; poche volte ho avvertito il conforto della condivisione con i fratelli di fede, ma soprattutto con i preti, miei colleghi. Quanto spesso ho penato dentro di me avvertendo che quasi nessuno dei miei confratelli condivideva la mia concezione di libertà di coscienza, del modo di essere obbedienti, di una Chiesa libera e povera, dell’impegno pastorale che privilegiasse i cosiddetti “lontani” e i poveri e non si fermasse alle altisonanti enunciazioni teoriche e soprattutto si sporcasse le mani sulle vicende dell’uomo vero.

Quante volte non ho sofferto in solitudine sentendomi circondato da una religiosità ridotta a cerimonia e a rito o da una comunità dall’impostazione gerarchica che spesso non lasciava quasi trapelare paternità e fraternità vera.

Quante volte ho avuto la sensazione che tanti mi pensassero spericolato e spregiudicato, perché ritenevano che camminassi sul ciglio dello spartiacque tra fedeltà e infedeltà alla comunità cristiana.

Le parole di Papa Francesco a Scalfari mi hanno dato un senso di liberazione, mi hanno offerto una Chiesa dal volto umano, mi hanno fatto sentire che insieme a tutti, ed ognuno con la propria individualità, si deve cercare e camminare verso i valori più alti della vita, che costituiscono per tutti la porta per entrare nel Regno.

01.10.2013

Le pecorelle smarrite

Domenica scorsa ho predicato, come tutti i preti cattolici di questo mondo, sulla pecorella smarrita. Interpretando ed analizzando il brano evangelico secondo la mia sensibilità (e cosa avrei potuto fare diversamente?). Credo però di non essermi discostato di molto da quello che han detto e dicono tutti i preti a proposito di questa parabola. Ho affermato alcune cose che oggi sono ovvie, ma che la gran parte dei preti non dicono. Ad esempio oggi non avviene più quanto ho letto sul volume che riporta la relazione della visita pastorale del Patriarca cardinal Flangini. Riguardo questa visita, fatta intorno alla metà dell’ottocento, si legge che i parrocchiani di San Marcuola o dei Carmini che non adempivano al precetto pasquale della confessione erano sette e quelli che non si comunicavano erano dodici.

Potrei sbagliarmi di qualche unità, ma non di molto, mentre nell’ultimo numero di “Gente Veneta”, in prima pagina, un titolo a cinque colonne apre un approfondito servizio sulla pratica religiosa nel nostro patriarcato dal tono “Sposarsi si (ma non in chiesa)”, con l’occhiello che specifica “meno di un matrimonio su due si celebra all’altare”. Ed io aggiungo “senza contare le convivenze”.

La scorsa settimana si scrisse, sullo stesso periodico, che su ogni dieci nati, due non sono battezzati. E qualche tempo fa si scriveva pure che la frequenza al precetto festivo superava di poco il 15 per cento, ossia su cento “credenti” 85 non vanno a messa tutte le domeniche. Di fronte a queste cifre, credo che anche il nostro Patriarca potrebbe, o forse meglio dovrebbe scrivere – come fece il cardinal Suar, arcivescovo di Parigi cinquant’anni fa – ai suoi preti e ai suoi quattrocentomila fedeli: “Venezia, Mestre, Mira, Jesolo, Caorle, Quarto d’Altino sono ormai terra di missione! Da rievangelizzare!”.

Ma, a differenza delle sessanta volte che nei miei sessant’anni di sacerdozio commentai questa parabola, ho aggiunto: «Come mai tanto zelo per recuperare l’unica pecora smarrita e tanta tranquillità nell’abbandonare le 99 rimaste sole? Questo comportamento può sembrare del tutto irrazionale? Che non sia che quella che se ne va è la migliore in assoluto? E che quelle che sono rimaste nel gregge siano state solamente apparentemente buone, fedeli e affezionate al pastore?».

Se osservo il comportamento e le scelte pastorali di Papa Francesco, il pastore delle periferie, dei profughi, dei “peccatori” o semplicemente di Scalfari, debbo concludere che egli pensa e si comporta non come noi pastori siamo abituati, ma come quello sconsiderato, imprudente ed irrazionale pastore descritto dal Vangelo.

Leggendo bene la Bibbia si possono fare anche delle scoperte: che i “vicini” potrebbero essere veri “lontani”. Così la pensava forse anche sant’Agostino quando disse: «Ci sono uomini che Dio possiede, ma la Chiesa non possiede ed altri che la Chiesa possiede, ma Dio non possiede!».

22.09.2013

“Avanti tutta!”

E’ nota la favola, o la leggenda, intitolata “Aspettando Godot”. In sintesi si tratta di qualcuno, comunità o singolo individuo, che passa il tempo e consuma la vita aspettando un “non si sa chi” che dovrebbe arrivare a risolvere problemi incombenti. L’attesa però non è espressa da un momento particolare della vita o da una situazione congettuale, ma da un atteggiamento o da uno stato d’animo senza motivazioni razionali, solamente da una forma di inerzia, di paura di prendere posizione e di misurarsi, o forse solamente per quieto vivere, per non aver fastidi, e quindi per “tirare a campare”, senza fatica e senza rischi.

Più volte, e forse troppe, per i gusti di certi miei colleghi, ho denunciato l’immobilismo, la “pavidità”, l’inerzia, la mancanza di tentativi di un nuovo annuncio evangelico, di un tentativo della tanto declamata “nuova evangelizzazione”. E con questo non dico che per tutti sia così; vi sono parrocchie che sperimentano, che tentano e soprattutto che danno testimonianza di impegno in questo o in quel settore della pastorale, ma purtroppo ce ne sono tante, tantissime altre, che vivono nell’ormai consunta poltrona della tradizione, sonnecchiando e sperando, più o meno inconsciamente, l’arrivo di “Godot” che “faccia il miracolo” di risolvere, con un tocco di bacchetta magica, il costante arretramento e la fuga sempre più numerosa di “pecorelle smarrite” o deluse, o perfino in rivolta, insoddisfatte dell’offerta religiosa povera e stantia che vien proposta dalla loro comunità cristiana.

Ogni volta che scorgo nella seppur minima iniziativa, un atteggiamento nuovo, un tentativo di rompere “il guscio”, provo ebbrezza nel volerlo far conoscere, perché diventi traccia da seguire per chi è meno dotato di spirito di iniziativa, però ho la sensazione che siano ancor troppo rare queste testimonianze profetiche. Ora poi, con l’esempio discreto, ma deciso, continuato, di Papa Francesco, cade anche la scusa che certe prese di posizione siano contrarie alla tradizione, ai codici, ai sinodi o all’insegnamento apostolico, perché Papa Francesco ogni settimana fa saltare gli “steccati” e gioca sempre più, anzi sempre, “all’attacco” ignorando quasi la “difesa”.

Sono profondamente convinto che il cristianesimo e la Nostra Chiesa dispongano ancora di immense potenzialità e potrebbero vivere un momento “magico” estremamente favorevole alla proposta cristiana, forse non intesa come “conquista formale di territori, ma come “lievito” nei riguardi di una società che, come non mai, chiede speranza, valori e certezze. Mi verrebbe da adoperare il linguaggio marinaresco per dire a parroci e cristiani di ogni livello: “Avanti tutta!”.

20.09.2013

Gli italiani alla scuola di Barbiana

Monsignor Vecchi è stato un insegnante di storia della filosofia, ma soprattutto di filosofia scolastica. La scolastica è la filosofia che ha come pilastro portante Tommaso d’Aquino e come teorema di fondo che l’uomo non solo tende, ma può raggiungere la verità e quindi arrivare alla scoperta dell’esistenza di Dio, che fede e ragione sono complementari e soprattutto che vi sono delle verità certe ed assolute.

Il mio vecchio insegnante, durante le lezioni di questa materia, che è rimasta l’ossatura di tutto il mio impianto di pensiero, spesso insisteva sul nominalismo, ossia sull’uso di termini e di affermazioni teoriche che denunciano una certa verità, ma che dietro hanno invece sostanza ben diversa. E’ stato questo un concetto che mi ha aiutato molto a non lasciarmi incantare da certe parole “magiche” le quali, in realtà, hanno dei contenuti ben diversi da quello che il termine fa apparire.

Pittigrilli, un autore ora dimenticato, ma che a me ha fatto del bene, diceva con un’altra immagine: “Vi sono dei paraventi pieni di fascino, che però nascondono la peggior specie di sozzure e quanto più questi paraventi sono sublimi, tanto più sono tristi, deludenti e spesso infami le realtà che nascondono”. Quanto sono belle e piene di fascino le parole: amore, giustizia, democrazia, Patria, libertà ed altre ancora, e quanti delitti, soprusi, soperchierie, egoismi, sopraffazioni, arroganze esse hanno nascosto dietro di loro.

I peggiori figuri dell’umanità da sempre si sono serviti di queste parole per nascondere la loro brama di potere, il loro despotismo. Perfino nella Chiesa vi sono ancora parole-paravento, come ad esempio: obbedienza, sacralità, proselitismo, autorità, che però nascondono qualcosa di certamente meno nobile e meno evangelico.

Sto rileggendo, dopo molti anni, “La lettera ai giudici” di don Lorenzo Milani, a difesa dell’obiezione di coscienza, ma soprattutto tutta tesa a mettere a nudo certe posizioni ufficiali recepite dalla tradizione come valori sublimi ed assoluti, mentre in realtà sono bolle iridate che alla puntura di uno spillo di un prete intelligente e libero si dissolvono nel nulla.

Mentre leggo, con una certa voluttà, le argomentazioni che don Milani fa ai giudici, mi ripeto, quasi ad ogni riga: “L’Italia avrebbe assoluta necessità del `maestro di Barbiana’, che insegnava 14 ore al giorno facendo riferimento alla Bibbia, alla costituzione, ma soprattutto alla coscienza.

02.09.2013

Scalfari

Non leggo “Repubblica”, ma tre giorni fa, appena il quotidiano è arrivato in edicola, qualcuno s’è premurato di farmelo avere per indicarmi la “corrispondenza” tra Eugenio Scalfari e Papa Francesco.

Ho letto le due pagine che questo giornale di impronta laico-socialista vi ha dedicato con grande rilievo. Non sapevo dei due articoli con i quali Scalfari aveva interpellato il nuovo Papa ed ho letto prima il sunto che il giornale fa perché i lettori possano capire le risposte del Papa. Poi qualcuno me li ha tirati fuori da Internet, quindi ho avuto modo di conoscerli per intero.

Scalfari è stato il brillante giornalista di sempre e il laico che ne ostenta immancabilmente il distintivo. Non voglio qui soffermarmi sui contenuti delle due lettere di Scalfari e la risposta del Papa. Essi sono impregnati di cortesia, rispetto e soprattutto di affettuosa cordialità. Voglio soffermarmi invece su questo evento in linea con l’indirizzo pastorale del nuovo Papa che privilegia le persone ai princìpi e alle istituzioni, e di Scalfari che, nonostante le sue dichiarazioni formali, è un uomo in ricerca e, a parer mio, almeno con un piede, è quasi approdato sulla sponda della fede.

Già avevo capito, dalla lettura del volume che riporta i suoi dialoghi col cardinal Martini, questo suo bisogno di assoluto, ora ha avvertito che poteva continuarlo con Papa Francesco, perché lui è un uomo da Vangelo, che non solamente ha letto le parabole della pecora smarrita e del figliol prodigo, ma le vive nel suo quotidiano.

Di certo anche il vecchio Scalfari, pur impregnato di una cultura illuminista, arriverà alla casa del Padre perché è troppo intelligente e troppo onesto per non farlo.

Tantissimi anni fa ho conosciuto la vicenda simile di un altro brillante ed acuto giornalista che scriveva su “Epoca”, Augusto Guerriero, che si firmava con lo pseudonimo di Ricciardetto. Ricciardetto scriveva di politica, di costume, di cultura, ma spesso sembrava attratto profondamente, come Scalfari, dalle tematiche religiose. Ricordo un suo splendido articolo intitolato “Quesivi et non inveni”, ho cercato Dio, ma non l’ho trovato. Però venni a sapere che alla fine era approdato, anche formalmente, alla fede.

Scalfari, pur dichiarandosi ateo, già confessa che è fortemente interessato da Gesù di Nazaret e dal suo messaggio. Questi spiriti liberi, ma amanti della verità, a mio umile parere, fan già parte “dell’anima della Chiesa”, come si diceva un tempo, perché i contenuti profondi del loro pensiero sono del tutto conformi alla sostanza del messaggio di Gesù.

Per fortuna loro e nostra vi sono ancora nella Chiesa preti che la pensano come “il pastore della pecorella smarrita” o del padre del prodigo.

17.09.2013

Non basta più l’innocenza

Io devo fare uno sforzo in più dei nostri giovani preti perché ho ricevuto un’educazione ormai datata che di certo aveva i suoi pregi, ma altrettanto certamente, aveva i suoi limiti.

Qualche giorno fa ho avuto un incontro, assieme ad alcuni amici collaboratori, con l’assessore della Regione Remo Sernagiotto. Il motivo dell’incontro era il desiderio e il bisogno di un franco confronto sul progetto della Fondazione di dar vita ad una struttura che risponda alle problematiche del disagio abitativo per certe categorie di persone; ad esempio padri o madri separati, disabili desiderosi di indipendenza, giovani fidanzati che non possono sposarsi per difficoltà finanziarie, lavoratori fuori sede, famigliari dei degenti in ospedale, vecchi preti ed altri ancora. Il nostro sogno è quello di creare una soluzione assolutamente innovativa, perché diventi provocazione per l’ente pubblico e per la società e crei una nuova e più avanzata cultura in questo settore.

Assessore, architetti, collaboratori hanno aperto il confronto dandosi immediatamente del tu. Io sono rimasto imbarazzato quanto mai, tanto che Sernagiotto dovette provocarmi dicendomi: «Se non mi dai del tu, anch’io sono costretto a darti del lei!». Oggi ho capito che il confronto deve avvenire a tutto campo, deve avvenire un po’ alla pari, senza reticenze e con estrema franchezza.

Ci trovammo subito d’accordo nel constatare che i vecchi schemi abitativi sono ormai del tutto sorpassati e che si devono trovare strade nuove per socializzare e per creare supporti umani più autentici. Una volta ancora il confronto apre le porte al dialogo e ad una sinergia oggi assolutamente necessaria.

Mentre il discorso procedeva spedito, scorrevole, collaborativo e franco, mi veniva da pensare alle nostre parrocchiette arroccate dietro i loro confini, il loro linguaggio, i loro schemi mentali e ai relativi parroci; anche i più pii e i più zelanti sono chiusi nelle loro chiese, nei loro patronati e nelle loro canoniche, con una forma di spiritualità, devota si, ma anche avulsa dalla vita, una realtà nebulosa con un’idea di dottrina sociale della Chiesa, tagliata fuori dal mondo. Questo tipo di cristianesimo sa ormai di muffa, s’avvia alla sterilità, sia da un punto di vista umano che sociale e pure religioso. Il cristianesimo che si arrocca dietro lo steccato, che non osa uscire dalla trincea, che non si sporca le mani con le nuove idee, la nuova sensibilità, lo stile di vita e cultura d’oggi è destinato all’asfissia o comunque a non crescere e a non contribuire affatto al domani.

Don Milani ebbe a questo riguardo una frase fulminante: “a che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca?” E Gaber, che sta su una sponda opposta, ma altrettanto significativa e provocatoria: “Vivere è partecipare!”.

Sono tanto vecchio, ma per fortuna sento ancora il desiderio e il bisogno di stare sulle barricate!

16.09.2013

Un’appendice necessaria

Cinque, sei anni fa, entrando in una chiesa di Mestre, dopo aver riverito nostro Signore, andai come faccio sempre, a curiosare sul banco stampa, almeno quando c’è. Chi ha un pizzico di esperienza sulle cose delle parrocchie, guardando quello che c’è su quel banco, si rende immediatamente conto dello spessore pastorale di quella comunità. Sono convinto che uno sguardo, benché rapido e sommario, fa capire meglio di una visita pastorale del vescovo, il tenore pastorale di una parrocchia.

In quella occasione, non trovai il bollettino – così sono comunemente chiamati i periodici delle comunità cristiane; trovai invece un opuscolo che riportava le preghiere del mattino e della sera. In verità era povero il contenuto e più povero il contenitore. Comunque quel libriccino mi riconfermò nella mia convinzione che i fedeli dai 30, 40 anni in giù non pregano più, anche perché non conoscono più alcuna formula di preghiera. Oggi al catechismo spesso si disegnano cartelloni o si fanno recite, ma spesso non si imparano più neanche le preghiere più elementari.

Partendo da quel reperto, memore del catechismo di san Pio X, che fu il testo della mia prima formazione religiosa, raccolsi le preghiere del mattino e della sera, e delle nozioni fondamentali della nostra religione, in un opuscolo. Gli misi in copertina un’immagine sacra con sotto il titolo “Libro delle preghiere e delle fondamentali regole morali per i cristiani”. Stilai una brevissima prefazione e in 18 paginette offrii il libretto ai cristiani di Mestre come “la scatoletta viveri per la sopravvivenza spirituale”. La cosa, insperatamente, ebbe un enorme successo. Attualmente siamo arrivati alla ventesima edizione ed avremo stampato finora venti-trentamila copie.

Da qualche tempo però mi pare di aver capito che sarebbe opportuno e doveroso stampare anche un’appendice a questo libro di preghiere e di verità cristiane, aggiungendo ai comandamenti, ai precetti, ai sacramenti, alle virtù teologali e cardinali e a tutto il resto, una serie di virtù e di valori umani che sono maturati pian piano nella nostra società, forse figliando dalla radice cristiana. Sono valori e virtù di cui il cristiano d’oggi non può assolutamente fare a meno, perché si metterebbe in un binario morto, abbandonato, su cui non passa il grande traffico umano, senza il quale il cristiano d’oggi non sarebbe compreso.

Purtroppo queste nuove virtù e valori non sono reperibili nei testi oggi in commercio; di certo non nei testi di teologia su cui ho studiato io mezzo secolo fa. Perciò tento di buttar giù una prima bozza in attesa di passare ad una sistemazione più seria di questi valori e di queste virtù.

Oggi certamente l’uomo religioso deve tener conto di realtà come queste: la lealtà, la veridicità, l’indole democratica, la fierezza dei convincimenti, il ripudio dei paternalismi, la fiducia nella ragione, lo spirito critico, la spontaneità affettiva, il primato della coscienza, l’anelito assoluto alla libertà, la partecipazione alla costruzione della società, la non violenza, la solidarietà, la tolleranza, l’accettazione del diverso, la coscienza del limite, un certo spirito laico.

Mi auguro di trovare qualcuno che mi aiuti a dare sistemazione a quest’amalgama di cui si nutre e di cui ha bisogno l’uomo d’oggi.

16.09.20113

I buoni nemici del prete

Un mio amico, che conosce il mio modo di pensare e di agire, ma soprattutto le mie pene segrete per l’isolamento sacerdotale in cui vivo da sempre, mi ha portato, a titolo di conforto e di sostegno, un trafiletto del cardinal Ravasi apparso recentemente su “Il sole 24 ore” che riporto per intero e sul quale sento il bisogno di fare un paio di considerazioni.

Eccovi il trafiletto di Ravasi, l’illustre e intelligente “ministro della cultura del Vaticano”.

Il Prete
Dove è scritto che il prete debba farsi voler bene? A Gesù o non gli è riuscito o non è importato.
Questa volta parlerò un po’ della mia appartenenza personale. Lo faccio con queste parole tratte dalle Esperienze pastorali dell’indimenticato don Lorenzo Milani. Parole che egli testimoniò senza “se” e senza “ma”, a costo di inimicarsi la stessa gerarchia ecclesiastica e la società civile. Effettivamente a Cristo importava poco di stare in cattiva compagnia, agli occhi superciliosi dei benpensanti, pur di liberare, salvare, amare e sperare. Non aveva esitato a dire di essere venuto a portare una spada e la divisione. Poco prima di morire, Nuto Revelli mi inviò il suo libro “II prete giusto”, storia di un sacerdote sincero e generoso. Mi aveva sottolineato a penna queste parole pronunciate dal protagonista: «Se un prete, non ha nemici, non è un prete. Gesù crea una rottura tale che lo chiamano “segno di contraddizione”».

E queste sono le mie considerazioni.

Primo: queste parole mi riconfermano nella mia tribolata convinzione che il prete non deve essere succube delle mode mutevoli ed effimere dell’opinione pubblica civile ed ecclesiastica, ma deve rifarsi al messaggio di Gesù letto e filtrato dalla propria coscienza, disposto a pagare il prezzo elevato dell’isolamento, non solo, ma spesso del giudizio sprezzante di chi s’accoda al comodo indirizzo dei più.
Il prete, a mio parere, deve rappresentare un punto fermo che si può accettare o rifiutare, ma comunque non può ridursi ad un giunco che si piega dove soffia il vento. A questo riguardo mi pare che i discorsi, e soprattutto la vita di Gesù, siano un esempio quanto mai evidente.
Vorrei anche chiarire che l’opinione pubblica, che orienta il modo di pensare e di agire, non è un condizionamento esclusivo del mondo laico, ma pure la vita della Chiesa soggiace a questa mutevolezza di orientamenti. Da sempre apprezzo il prete che trova il coraggio anche di essere solo, di navigare controcorrente pur di non tradire la sua coscienza,

Secondo. Sono pure convinto che l’esporsi, il misurarsi e il confrontarsi con ogni tipo di pensiero dei “lontani”, rafforza e purifica la testimonianza del sacerdote. Il prete che sta al riparo della “santa obbedienza”, dell’ombra del suo campanile, del giornale cattolico e dei documenti ufficiali della gerarchia, deve pur tenere in debito conto questi documenti, deve “leggerli” con attenzione, rispetto; scelte queste che almeno all’interno del suo “mondo” lo mettono apparentemente al riparo da errori e giudizi dall’alto, ma non è che per tutto questo possa ritenersi un vero uomo di Dio. A questo riguardo torna eloquente la massima sapienziale: “Amicus Plato sed magis amica veritas”, ammiro la saggezza della comunità ecclesiale e della tradizione, ma ammiro e seguo ancor più Dio, verità e sapienza assoluta.

Ed aggiungo ancora, con sant’Agostino, che il sacerdote deve essere più preoccupato d’esser in assonanza con Dio che di esserlo con la Chiesa.

14.09.2013