La veglia

Ieri sera, dopo aver assistito, comodamente seduto su una poltrona davanti ad un televisore di non so quanti pollici – ma grande – alla veglia per la pace, ho deciso (però fin da subito) di chiedere a Papa Francesco che dopo aver risolto il problema dello IOR, metta subito mano allo smantellamento dell’apparato liturgico e del cerimoniale del Vaticano.

Avevo concluso le pratiche di pietà con i miei anziani per chiedere assieme al Papa e a tutto il mondo pace per la Siria, quando, accendendo il televisore per un momento di relax di fine giornata, mi sono imbattuto, sul canale 28, nella trasmissione del Vaticano che metteva in onda questa veglia.

Almeno venti volte sono stato tentato di girare la manopola perché la veglia era talmente bibbiosa da non poterne più! Sono stato davanti al televisore solamente per solidarietà nei riguardi di quei poveri centomila fedeli che sono rimasti in piedi per almeno tre ore ad ascoltare discorsi veramente dell’altro mondo perché hanno tirato in ballo Michea, Isaia, ed altri profeti ancora, morti due, tremila anni fa, i salmi del poco compianto re David, che in realtà è stato un guerrafondaio di prim’ordine. Per non parlare poi del maestro del coro che si dimenava come un’anguilla davanti ai suoi coristi vestiti tutti di rosso, i quali miagolavano per conto loro con canti polifonici che si usavano due, trecento anni fa, o perlomeno sono stati cantati alla stessa maniera.

Nonostante l’operatore della macchina da presa abbia tentato disperatamente di sollevarci dal tedio cambiando inquadrature, nonostante la sua abilità di evitare chi sbadigliava o chi se n’andava, la veglia è continuata

Penso quanto mai faticose siano state queste ore per i fedeli provenienti da tutto il mondo ed abituati al tipo di discorsi e di immagini che ci sono offerte oggi. Di veglie ne abbiamo preparate e vissute in parrocchia, ma se si vuole che non siano soporifere e irritanti bisogna scegliere “pezzi appropriati”, della Bibbia, si, ma anche di autori contemporanei – e ce ne sono di molto incisivi e veramente meravigliosi – oppure testimonianze dal vivo o canti per la gente o per i solisti che siano capaci di toccare le corde più profonde del cuore e della ragione con linguaggi “parlati” oggi.

Carissimo ed amato Papa Francesco, la tua scelta della veglia è stata veramente opportuna, tanto che il mondo intero l’ha accolta, ma l’apparato del tuo Vaticano non solamente l’ha sciupata, ma anche ha offerto una immagine di una Chiesa ancora una volta vecchia ed ammuffita.

Oggi ho letto la stampa ma, nonostante il consenso all’iniziativa – e non poteva andare che così – ho capito che soltanto per il bene che la gente ti vuole non ha stroncato questa veglia.

Poi, Papa Francesco, permetti che ti dica, pur con infinito affetto, una cosa ancora: «Non farti fare i discorsi dai teologi, parla a braccio come sai fare così bene, perché il solo passaggio che ha strappato applausi è stato il tuo “Buonanotte e buon riposo!”. Non superare i dieci, dodici minuti, faccio anch’io così, pur essendo vecchio. Fallo anche tu e avrai tutto da guadagnare!

08.09.2013

“La semina del mattino”

Quando nell’ottobre del 2005 ho lasciato la mia vecchia parrocchia per “limiti di età”, ho regalato ai parrocchiani un volumetto che avevo portato a termine qualche mese prima. Era mia intenzione lasciare un ricordo alla gente che ho amato e tentato di “servire” da parroco per ben 35 anni.

Il volume di ben 230 pagine, portava come titolo “La semina della sera”, con una specie di “occhiello” esplicativo: “Piccolo catechismo per i cristiani non praticanti della mia parrocchia. Riflessioni a voce alta di un vecchio parroco sulla fede e la religione”. Ho sempre avuto la grande preoccupazione di “parlare” anche ai non praticanti che, in parrocchia, erano poco più della metà dei battezzati.

Il volume contiene una serie di articoli su problematiche di attualità religiosa, che io avevo già pubblicato sui vari numeri del mensile parrocchiale “Carpinetum”. In quella occasione ho recuperato questi articoli ed ho premesso ad ognuno qualche nota che inquadrava ulteriormente il problema trattato. Nella mia intenzione c’era il desiderio di recuperare e di riseminare la semente già buttata nei solchi, nella speranza che potesse attecchire. Inoltre speravo di essere ricordato per quelle tensioni che mi hanno sorretto per tanto tempo. Mi pareva, andandomene, di compiere il mio dovere di pastore con quest’ultima semina.

Qualche tempo fa qualcuno mi ha chiamato al capezzale di una persona anziana che, alla fine della vita, volle riconciliarsi col Signore. La cosa mi trovò prontamente disponibile.

Sulla soglia dell’eternità fu quasi naturale gettare un ponte sull’educazione religiosa che ella aveva ricevuta da giovane. Ho avuto la netta sensazione che il seme posto nella sua coscienza decenni e decenni prima, germogliasse e fiorisse improvvisamente ed in maniera imprevista ed inaspettata.

Fui tanto felice che questa donna si spegnesse in pace avendo la percezione che, una volta ancora, si avverasse quanto è scritto nella Bibbia: “C’è chi semina nel pianto e chi raccoglie nella gioia”. In questa occasione io ho raccolto “la semina del mattino” di un prete sconosciuto e questa sensazione mi ha ravvivato la speranza che anche la mia semente, sparsa con tanta larghezza, prima o poi potrà fiorire e ravvivare il cuore e la speranza di un altro prete: possa lui provare la stessa gioia che io ho provato in questi giorni.

07.09.2013

Volontariato zoppo

La mia vita ha molto a che fare con il volontariato. Molte volte sono intervenuto a dire le mie preoccupazioni perché esso tende a diminuire numericamente e ad impoverirsi a livello ideale, correndo il pericolo che quella del volontariato sia una scelta per risolvere i propri problemi esistenziali piuttosto che per aiutare il prossimo.

Molte altre volte però ho affermato convinto che il volontariato è una vera ricchezza per la nostra società e in particolare per la Chiesa. La realtà dei Centri don Vecchi, e soprattutto del polo solidale che ruota attorno ad essi, è merito quasi esclusivo di concittadini che dedicano, o han dedicato, il loro tempo e le loro capacità professionali a quest’opera umanitaria che s’è imposta non solamente all’attenzione della città, ma di buona parte del nostro Paese. I duecentocinquanta volontari che prestano servizio gratuito presso l’istituzione che è conosciuta sotto la denominazione “Centro don Vecchi”, sono la spina dorsale di questa struttura che offre un alloggio protetto a più di cinquecento anziani e aiuto ad una moltitudine di bisognosi; senza di loro essa si affloscerebbe o perlomeno avrebbe un volto molto diverso.

A tutta questa cara e preziosa gente va la mia ammirazione e la mia riconoscenza. Però c’è un cruccio che spesso mi tormenta, perché temo di non essere stato capace di motivare sufficientemente questi miei collaboratori. Mi preoccupa il fatto che una parte si offra per risolvere i propri problemi esistenziali ed un’altra parte fa, si, del volontariato, ma tende ad avere soprattutto, qualche vantaggio personale, spesso in natura; sono dei volontari che non hanno ancora recepito le motivazioni profonde e ideali che devono supportare la loro scelta. Perciò spesso mi addosso la responsabilità di non aver sufficientemente “educato” questa gente all’amore vero e disinteressato al prossimo.

Qualche giorno fa si faceva rilevare a qualcuno di non approfittarsi di una certa situazione favorevole; mi ha colpito una risposta che denotava questa motivazione, perlomeno spuria: “In fondo noi volontari lavoriamo per voi!”. Può darsi che i termini con cui s’è risposto siano stati solamente impropri e “infelici”, ma se non fosse così credo che si debba precisare che è troppo poco impegnarsi per chi ha un ideale, è invece giusto impegnarsi per i propri ideali; mi spiacerebbe tanto che i 250 volontari lo fossero solamente per farmi un piacere personale, ma desidererei che essi condividessero fino in fondo la mia scelta solidale.

07.09.2013

Il prete “nuovo”

Trenta, quarant’anni fa la stampa sembrava avere quasi una curiosità morbosa nei riguardi del prete. Letterati di vero talento, sollecitati dall’opinione pubblica, hanno prodotto degli autentici capolavori sulla figura del sacerdote, presentandolo dalle diverse angolature, ma sempre facendone emergere una figura di particolare interesse e ricchezza umana.

In verità non ho mai capito quali fossero i motivi veri che hanno spinto questi narratori a scandagliare l’animo, la vita di quest’uomo di Dio, ma soprattutto della Chiesa. Talvolta ho pensato che fosse il celibato, questa scelta strana e forse inconcepibile per l’uomo della strada, a destare un interesse quasi morboso per i suoi sentimenti. Altre volte m’è venuto da pensare che fosse la lunga tonaca nera a destare il senso del mistero.

C’è stato un tempo in cui mi parve perfino che fosse quel senso di sacralità che la gente ritaglia addosso al prete a farlo ritenere quasi il rappresentante di un mondo sconosciuto e suscitare interesse. Credo però che, amici o nemici del prete, fossero accomunati, per motivi diversi, dall’indagare su questa strana figura. Il prete era, da tanti, avvertito come una realtà venuta da confini misteriosi e, da un numero forse più piccolo, come una mistificazione che approfittava dell’ignoranza degli umili per imporsi. Di certo la lettura di questi romanzi è stata per me determinante nel configurare la mia personalità di sacerdote.

Venne poi il Concilio, che spazzò via il latino, la lingua della messa e del breviario, che quasi distingueva e qualificava il sacerdote; la tonaca fu appesa al chiodo perché troppo ingombrante, soprattutto legata al passato e i sacerdoti inizialmente vestirono il clergyman, abito che li faceva assomigliare un po’ ai pastori protestanti ammogliati, ma ben presto apparvero addosso ai preti le più strane ed eccentriche vesti colte dallo sport o dalla moda. I sacerdoti cominciarono ad uscire sempre più frequentemente dalle canoniche, dai confessionali e dalle sagrestie per vivere intenzionalmente come tutti ed essere più vicini alla gente.

Pian piano l’aria del sacro e del mistero cominciò a rarefarsi e il vestire, il parlare, il comportarsi come tutti, tolsero al prete quel sacro ineffabile, inserendolo e mescolandolo sempre più decisamente con la gente comune.

Sono convinto che era ineluttabile che avvenisse questo processo e che, tutto sommato, esso fu, alla fin fine, vantaggioso. Però, a motivo di questa evoluzione rapida, è sempre assolutamente più necessario che il prete oggi si qualifichi per la santità, l’amore al prossimo, il servizio e per l’offerta di valori e di speranza. Questo percorso però è ben più arduo e difficile del precedente. Il prete del dopo Concilio non ha trovato ancora cantori appropriati e forse non li ha trovati perché la nuova figura di prete non è ancora sbocciata completamente così da meravigliare e da edificare. Papa Francesco, per fortuna, sta tentando di farlo fiorire più velocemente e, da quanto intuisco, sarà un gran bella figura quella del prete nuovo.

30.08.2013

Foglie secche

Mi ero ripromesso di non intervenire sulla “tempesta in un bicchiere” che ha investito la curia veneziana durante il mese di agosto; in verità però ne avevo già fatto cenno su questo nostro periodico, immaginando che la scelta del Patriarca di retrocedere una ventina di monsignori sia una conseguenza coerente alla rivoluzione radicale – anche se poco apparente – che Papa Francesco sta conducendo avanti. Infatti Papa Francesco, sorridente, dalla battuta popolare e dal comportamento molto simile a quello di un semplice parroco, sta rinnovando la Chiesa in maniera più sostanziale di quanto la gente possa reputare.

Io ho trovato quanto mai logica e opportuna la scelta del nostro patriarca, anche se avrei suggerito di lasciar morire per consunzione i monsignori attuali, non nominandone più di nuovi e questo per non toccare la suscettibilità di chi s’era abituato a fregiarsi di questo titolo che un tempo era onorifico, ma che la sensibilità dell’uomo d’oggi ha svuotato dei pur poveri e discutibili contenuti.

Intervengo solamente perché sono stato stuzzicato da una pungente presa di posizione di mio fratello don Roberto nel suo foglio parrocchiale, “Proposta”. Don Roberto interviene a gamba tesa sull’argomento mettendosi addosso una doppia corazza di difesa. Per il possibile pericolo di essere accusato di invidia per un’onorificenza da lui non raggiunta tira in ballo la celebre favola di Esopo della volpe e l’uva. Per quanto riguarda il merito dei trasferimenti si trincera dietro un passo del Vangelo che toglie veramente il fiato a chi ambisce onori.

Questo discorso di mio fratello potete leggerlo in altre pagine (dell’Incontro del 24/11/2013, NdR) perché lo pubblico anche se è un argomento che non merita troppa attenzione. Ogni tanto penso che non sia peccato soffermarsi su qualche amenità.

Aggiungo una noterella di cronaca che mi permette di suggerire all’autorità costituita di competenza l’opera di purificazione appena iniziata almeno in questo comparto assai marginale. Circa tre, quattro anni fa il vescovo ausiliare mons. Pizziol mi ha convocato dicendomi che il Patriarca Scola aveva pensato di nominarmi monsignore, dato che s’era reso vacante un posto per questa onorificenza. Divenni subito rosso di mio vedendomi bardato da monsignore e gli chiesi quindi la grazia di non mettermi in questo imbarazzo. Il vescovo accettò di buon grado la rinuncia perché gli rimaneva così la possibilità di accontentare qualche altro collega. Dico questo perché non mi si applichi la favola di Esopo e perciò posso permettermi di suggerire sommessamente: «Portate a termine l’opera iniziata perché, pur dopo l’epurazione, ne rimangono fin troppi di monsignori».

Vengo a conoscenza dalla lettura de “La nuova Venezia” che i superstiti monsignori sono: i protonotari apostolici sopranumerari, i protonotari “durante munere”, i canonici residenziali ed onorari della basilica di San Marco, l’arciprete del duomo di Mestre, i prelati d’onore “ad personam” – prelati ad onere “durante munere”, i cappellani di sua Santità, i cappellani delle arciconfraternite di San Rocco, di Santa Maria del Rosario, di San Cristoforo e della Misericordia, il parroco della Bragora e il rettore del Marcianum.

Ora non c’è che da sperare che il vento dello Spirito continui a far cadere le “foglie secche”.

26.08.2013

La cappellana

Mia sorella Lucia, giovane pensionata del reparto di oculistica dell’Ospedale dell’Angelo di Mestre, mantiene praticamente i contatti tra me e don Roberto, il più giovane di noi sette fratelli, che fa il parroco a Chirignago. Il più vecchio e il più giovane della nostra famiglia sono ambedue preti, perciò oltre ai legami di affetto, abbiamo anche il “mestiere” in comune. Ci vogliamo bene, ci stimiamo, ma ci frequentiamo poco perché ambedue ci “tuffiamo” nella nostra attività pastorale pensando di non aver tempo da dedicare ad altre cose.

Pur avendo la parrocchia di don Roberto otto, novemila anime, il patriarca quest’anno ha ridotto a mezzo servizio il cappellano, avendolo assegnato agli uffici della curia per l’intera mattinata. Neanche per farlo apposta, sempre a don Roberto, è stata pure tolta una suora che si dedicava con passione e competenza al catechismo dei ragazzi. Mio fratello è stato quindi costretto a ridimensionare il suo impegno pastorale, tentando di sfrondare le attività meno importanti. Però, dopo questa revisione, gli è parso che ci fossero alcune attività che era opportuno non abbandonare.

Mia sorella Lucia mi ha portato il testo del discorso che don Roberto farà all’assemblea parrocchiale per presentare questo riordino. Tra i vari provvedimenti mi ha sorpreso e incuriosito una decisione che egli presenterà col suo stile che è spesso condito da un certo humour. Scrive don Roberto nel suo documento: “Ho deciso di assumere a tempo pieno direttamente, senza passare per la curia, una “cappellana”. Si tratta di una ragazza preparata ed aderente ad una congregazione religiosa laica, che ha deciso di mettersi totalmente a servizio della parrocchia”. Pare che mio fratello, non appena si libererà un appartamentino della parrocchia glielo assegnerà perché possa dedicarsi con più facilità al suo compito.

A parte la trovata della “cappellana”, credo che ormai sia già giunto il tempo di pensare a dei collaboratori laici, possibilmente preparati e motivati, che si dedichino a tempo pieno alla comunità e che questa si faccia carico del costo di questi nuovi e particolari discepoli di Gesù. A me è parsa una scelta saggia e innovativa, più concreta di certi fumosi e velleitari progetti. Comunque queste sperimentazioni le credo quanto mai utili per superare le gravi difficoltà che le parrocchie stanno affrontando a motivo della carenza di clero.

25.08.2013

L’asso nella manica del buon Dio

Dopo le dimissioni di Papa Benedetto che, pur di umili origini, si è adeguato alla prassi, al costume e alle tradizioni abbastanza principesche del Vaticano, senza scossoni e senza rotture evidenti, inserendosi quasi naturalmente nel solco dei “Pontefici regnanti”, mai e poi mai avrei immaginato che il suo successore avrebbe “saltato il muro” in maniera così decisa e radicale dando un’immagine assolutamente inedita del successore di San Pietro.

Nella migliore delle ipotesi potevo sperare in una evoluzione lenta, quasi impercettibile, mentre invece le sorprese di Papa Francesco si susseguono una dopo l’altra con una rapidità assoluta e sorprendente e sempre in linea con uno stile veramente inaudito ed una radicalità evangelica che non solo stupisce, ma che mi lascia attonito e quasi stordito (pur uno come me che sono immerso nella vita della Chiesa).

Ho già scritto che dopo la morte di Papa Roncalli mi sono regalato un volumetto dal titolo “I fioretti di Papa Giovanni XXIII”. L’autore ha denominato “fioretti” le gesta e i comportamenti di quel pontefice e questo termine lasciava intendere: racconti verosimili, pie leggende, storie minori per devoti e vertevano poi sull’intero pontificato. Mentre i “fioretti” di Papa Francesco sono documentati da stampa e televisione e nel lasso di tempo solamente di un paio di mesi sarebbero più che sufficienti per un volume.

Questi fioretti che riguardano il mondo ecclesiale sono equiparabili alla bomba atomica, alla teoria dei Quanti, o all’avvento del mondo digitale per lo choc che stanno producendo sull’opinione pubblica. Ieri la stampa ci ha informato della doppia telefonata papale ad uno studente di Padova che gli aveva scritto una lettera. E – sorpresa nella sorpresa – : «Diamoci del tu, come amici!» Questa è l’ultima, ma le precedenti non sono meno radicali: dalla battuta «M’hanno pescato alla fine del mondo» alla richiesta di essere benedetto dalla folla prima di benedire a sua volta, alle scarpe grosse e nere da contadino; dalla tonaca bianca che lascia intravvedere i pantaloni, al salire in aereo con la borsa nera, all’affermare che il monsignore dello IOR non è stato messo in galera perché era devoto di santa Imelda…. e via di seguito!

Sarebbe quanto mai opportuno che qualcuno facesse la raccolta non dei “fioretti”, ma di queste nuove pagine di storia ecclesiale quanto mai documentabili.

Chi avrebbe mai pensato che la Divina Provvidenza avrebbe tirato fuori questo asso dalla manica? Io sono alle stelle perché, pur sognando molto di meno, spesso mi s’è accusato di essere irrispettoso verso l’autorità. Penso poi come faranno a sopravvivere cardinali, arcivescovi, vescovi, monsignori, arcipreti, prelati, cavalieri del Santo Sepolcro, commendatori e chi più ne ha più ne metta!

15.08.2013

L’uomo planetario

Sono a metà strada nella lettura di un importantissimo volume dello scolopio padre Ernesto Balducci. Questo intellettuale è una mia conoscenza di vecchia data. Ho cominciato a seguire fin dal suo inizio la bellissima rivista “Testimonianze” fondata da questo religioso fiorentino.

Una volta avevo un po’ più di tempo e di spazio, cosicché feci la raccolta completa della bella rivista, quanto mai interessante per i contenuti e bella ancora a livello grafico: aveva una copertina rossa con il titolo stampato in nero, l’impostazione grafica quanto mai elegante. Era una rivista di tendenza innovatrice, attenta al pensiero della sinistra politica e alle avanguardie cattoliche e coincideva con i miei orientamenti spirituali e culturali d’allora. Senonché padre Balducci continuò a spostarsi sempre più a sinistra, cosicché lo sentivo sempre più estraneo alla mia sensibilità religiosa e sociale. Gli scrissi una lettera dicendogli il mio pensiero e affermando che il mio contributo più onesto era di non rinnovare più il mio abbonamento. Così terminò la cosa.

Un paio di anni fa però scoprii un volume autobiografico “Fuori dal tempio” di un prete friulano, grande ammiratore di padre Ernesto Balducci, tanto che intitolò al suo nome una casa di accoglienza per profughi senza patria, erranti nel nostro Paese. Questo volume fece riemergere la cara e lontana “amicizia” e, neanche a farlo apposta, poco dopo qualcuno mi regalò il volume “L’uomo planetario” dello stesso Balducci: stesso colore di copertina e stessa impostazione grafica, pulita e lineare, però con dei contenuti che si muovono veramente per me troppo elevati.

Questo testo dello studioso fiorentino analizza le modifiche che il nuovo orientamento socio-politico e socio-economico producono sulla società attuale su cui si deve innestare il messaggio cristiano. Padre Balducci mette in guardia le varie Chiese cristiane, ma anche le altre religioni, dal grave e micidiale pericolo di tentare di immettere il messaggio religioso in un binario morto che non porta da nessuna parte o tentare di innestarlo su un albero ormai secco.

Queste grandi intuizioni a livello planetario devono evitare di sospingere il messaggio religioso verso delle ritualità sterili e fuori dal corso vero della storia e perciò privarlo di vita vera e feconda. Questa mi pare che sia la spina dorsale del discorso, che poi si articola e si innesta con delle ramificazioni particolari.

Concludo dicendo che mi pare d’aver capito che l’uomo di oggi non è assolutamente più quello descritto dai vecchi testi, perciò se pensiamo di potergli offrire il messaggio di Gesù, bisogna che lo conosciamo e impariamo la lingua nuova per potergli donare la “buona notizia”.

22.08.2013

Che Guevara in Vaticano

Ieri, in prima serata, Rai tre ha messo in onda uno splendido documentario su Papa Paolo VI. Il successore di Giovanni XXIII, Papa Roncalli, da un punto di vista umano è stato un papa sfortunato. Paolo sesto è arrivato proprio quando il “papa buono” aveva fatto saltare la diga che per molti anni ha ingrassato la Chiesa e, come per il Vajont, ha riversato una poderosa massa d’acqua nella valle, sommergendo tutto e tutti.

Senza nulla togliere ai meriti di Papa Giovanni, bisogna pur dire che ha lasciato al successore, Paolo sesto, una Chiesa quanto mai irrequieta che, destatasi da un sonno secolare, non sapeva che pesci prendere, che strade imboccare, tanto che il trambusto era quanto mai disordinato e preoccupante.

Molti anni fa ho letto un bellissimo volume, “Le chiavi pesanti” di Agosso, un giornalista intelligente e colto di Epoca, volume in cui è messo in luce il terribile dramma umano, spirituale ed ecclesiale di Papa Montini. Confesso che ho letteralmente pianto di fronte alla situazione drammatica di questo uomo di Dio.

Era un uomo intelligente – infatti credo che sia stato un intellettuale di prima grandezza – che s’è trovato a tentar di frenare a mani nude questa valanga di detriti che è scesa dal Concilio Ecumenico Vaticano Secondo.

Papa Montini era un fine intellettuale, ma non aveva la capacità di approccio con le masse di cui invece era quanto mai fornito il suo predecessore. Era d’indole riservata, proveniva da un ceto borghese, visse in momenti terribili non solamente per la Chiesa, ma anche per la società civile; eravamo infatti nel ’68, il tempo della contestazione radicale e soprattutto dei cupi anni di piombo delle Brigate rosse.

Paolo sesto visse un pontificato contrastato da mille tensioni, dovette fare delle scelte difficili di mediazione scontentando un po’ tutti, innovatori e conservatori. Comunque fu un grande papa, soprattutto il papa che seppe pagare il prezzo del passo in avanti fatto dalla Chiesa. Dopo di lui i trenta giorni di Papa Luciani, il papa dal sorriso triste, quindi il vittorioso lottatore dal grande charme umano che fu Karol Woytjla, per arrivare all'”acqua cheta” di Papa Ratzinger, travolto dagli intrighi della curia vaticana.

Ora c’è Papa Francesco, il rivoluzionario radicale che, pur disarmato, sta riportando la Chiesa alle sorgenti. Com’è bello leggere il disegno di Dio che con gli uomini più diversi accompagna la Sua Chiesa e realizza il Suo Regno.

21.08.2013

Dio non ne esce sconfitto, anzi

Il giorno dell’Assunta mi sono recato al “don Vecchi” di Campalto per vedere di riparare o sostituire un “ingranaggio” che si è ingrippato. Appena entrato mi sono accorto di un certo vociare nella sala da pranzo. Ho pensato che si trattasse di una delle tante “feste” che i residenti di quel Centro, vivaci e intraprendenti, organizzano con una certa frequenza. Invece mi dissero che stavano preparandosi per la messa. Don Lidio, il sacerdote che si è offerto spontaneamente di seguire la piccola comunità dei residenti, arrivò qualche minuto dopo per la celebrazione dell’Eucarestia.

L’incontrare questo “prete volontario” è stato per me il dono dell’Assunta; le testimonianze sacerdotali di generosità e di impegno pastorale sono per me uno splendido dono che m’aiuta a tener duro, a dir di si anche quando sono stanco. Anch’io, ogni domenica, faccio il volontario nella chiesa di Carpenedo e il primo venerdì del mese a Ca’ Solaro. Questo incontro col “prete supplente” m’ha posto ancora una volta il problema di come in futuro si potrà far fronte alla carenza di preti.

Altre volte ho parlato di possibili soluzioni: sacerdozio ai coniugati, sacerdozio alle donne ed altro ancora. Questa volta, di primo acchito, m’è venuto da pensare che ci sarà meno bisogno di sacerdoti perché i praticanti diminuiscono di anno in anno; poi invece ho pensato che il buon Dio porterà avanti le sorti del “Regno” attraverso persone che, coscientemente o meno, stanno già portando avanti i valori e i contenuti più veri del messaggio di Gesù. Al mattino, infatti, Radio Radicale aveva annunciato che Pannella e i suoi compagni dedicavano il ferragosto a visitare i carcerati di Rebibbia e di Regina Coeli e subito mi sono ricordato che una delle opere di misericordia corporale recita molto precisamente: “visitare i carcerati” ed ho capito finalmente che Pannella, la Bonino e compagnia, coscienti o meno, si sono messi – e da tempo – al servizio di Gesù e del Regno, facendo quello che i “discepoli ufficiali” non fanno più.

Ho capito che nel mondo ci sono persone, movimenti e realtà che, magari senza saperlo né loro né noi, lavorano con coraggio, generosità e spirito di sacrificio, per il Regno. Quanti sono in questo mondo gli amanti della giustizia, gli operatori di pace? Questi sono operai del Regno, il quale quindi si afferma anche senza preti.

Proprio in questi giorni ho letto un pensiero amaro di don Lorenzo Milani dei tempi in cui i comunisti erano in auge: annota il priore di Barbana con una certa sorpresa ed una certa stizza: “La Chiesa sta permettendo ai comunisti di acquisire quasi tutto il merito nella lotta per la giustizia a favore degli sfruttati!” Mentre noi siamo preoccupati più di ogni dire per le messe, non ci accorgiamo che nel nostro mondo sono sempre di più coloro che sono impegnati per la pace, la libertà, la giustizia… E che cosa sono i valori del Regno se non questi?

Penso che sia ora di aprire gli occhi e di accorgerci che il buon Dio porta avanti anche senza di noi il suo progetto e che la Chiesa dello Spirito ha sempre più ministri e fedeli.

20.08.2013

I testimoni dell’assoluto

Recentemente mi è stato chiesto da una coppia di anziani coniugi di celebrare le loro nozze d’oro nella chiesetta delle suore di clausura di via San Donà.

Normalmente aderisco tanto volentieri a questa richiesta, da un lato perché mi fa bene questa testimonianza di un amore rimasto vivo e luminoso nonostante il passare di mezzo secolo di vita, e dall’altro perché mi riporta a rivedere queste care creature che sono le monache di clausura e che, quando ero parroco, solo una strada divideva dalla mia casa.

Io sono certo che queste suore hanno pregato per me, perché troppe cose, che sembravano veramente gravi e rovinose, si sono risolte quasi per miracolo e soprattutto perché sono riuscito a lasciare in piedi una bella ed operosa comunità cristiana nonostante i tempi difficili in cui viviamo.

Con le suore del monastero siamo sempre andati d’accordo e c’è sempre stata una bella e fraterna collaborazione per quanto è possibile tra due realtà così diverse: una parrocchia ed un convento di clausura di un ordine quanto mai antico. C’è stato un piccolo neo, però marginale ed insignificante nei nostri rapporti: da una parte il mio senso estetico che mi faceva detestare quel muraglione cupo che nasconde la bella villa dei Michieli, i patrizi veneziani che l’avevano costruita alla fine del seicento e dall’altra le suore, che ritenevano, seguendo la tradizione e i vecchi canoni, che la clausura ha ancora bisogno di mura di difesa, la ruota e le grate. Questo problema di carattere estetico è stato però estremamente marginale sia per loro che per me, tanto che abbiamo potuto vivere vicini e felici per quasi mezzo secolo uno accanto all’altro.

Quando sono entrato in convento qualche giorno fa per la celebrazione delle nozze d’oro, ho incontrato la badessa e le tre sorelle non giovanissime che ancora sono attive e vivono quasi sperdute nel grande convento che un tempo ospitava la comunità ben più numerosa che da Venezia, prima dell’ultima guerra, è emigrata in quel di Carpenedo.

Già ho scritto che un giorno in cui feci presente alla badessa che la gente del nostro tempo fa fatica a comprendere la vita claustrale, mi rispose che lei e le sue suore volevano rappresentare nella nostra città la parte della vita che rimane di solito in penombra, cioè la facciata che illustra il bisogno di silenzio, di meditazione e di contemplazione, perché la gente del nostro tempo non dimentichi una componente essenziale della vita.

Le nostre monache, anche se poche, se vecchie, se dietro le grate, nascoste dal muraglione, rimangono per la nostra società le testimoni dell’Assoluto. Se un giorno dovessero chiudere per mancanza di donne che abbiano il coraggio di accettare questa preziosa eredità, sarà veramente un brutto giorno per la nostra città, perché vorrebbe dire che l’effimero, il fatuo e il contingente rimarrebbero senza contrappeso; la facciata in penombra della medaglia della vita rimarrebbe purtroppo sconosciuta per la gente del nostro tempo e questa sarebbe una gran perdita, una vera calamità.

15.08.2013

La macchia di pece

Milioni di giovani di Rio de Janeiro e Papa Francesco che sale in aereo con la sua borsa nera mi hanno fatto sognare e mi hanno indotto ad essere quanto mai orgoglioso della mia Chiesa, quale “sposa bella vestita con abiti regali”.
Tanto che confrontandola col volto truce del fondamentalismo dell’lslam, che ora si lascia andare alla rabbia e all’odio religioso, m’è parsa ancora più bella ed amabile.

Ma questa sera “Rai storia” ha gettato una grossa macchia di inchiostro, più nero della pece, su questa visione idilliaca. Come i miei amici sanno, amo la musica sinfonica, i dibattiti su argomenti di carattere politico-sociale, i documentari che mi fanno conoscere la bellezza del nostro mondo, e pure provo una curiosità quasi morbosa sui programmi di Rai storia” che vertono sugli avvenimenti tragici che hanno funestato l’Europa durante la mia giovinezza.

la frequentazione del Canale 54 mi mette talvolta sotto gli occhi programmi imprevisti.

Ieri sera il titolo, particolarmente cupo, con cui è stato presentato un programma sull’Inquisizione in Spagna attorno al millequattrocento, m’ha incuriosito e profondamente turbato. Mi pare ormai scientificamente provato che l’uomo è tentato di cancellare dalla memoria fatti ed eventi che l’hanno disturbato e che vorrebbe dimenticare.

Ho visto con orrore quello che avevo tentato di eliminare dalla mia memoria, che mi ero illuso fosse una forzatura dei nemici della Chiesa, o una macabra e falsa ricostruzione storica atta a rispondere a chi ama l’horror.

Dapprima ho tentato di convincermi che quell’orrore perpetrato in nome della fede e della Chiesa dovesse essere riportato nella cornice del suo tempo tanto diverso dal nostro e che quindi non si potesse giudicare con la sensibilità di oggi. Però questi tentativi si scioglievano man mano come la neve al sole e rimaneva la bruttura, l’orrido di pagine veramente nefaste. Ho infine tentato di dirmi che Papa Wojtyla ha chiesto perdono al mondo per questo e purtroppo per tanto altro ancora.

Infine ho riscontrato che dovevo accettare la bruciante verità di queste pagine orribili della Chiesa, portandomi in maniera ineluttabile ad alcune conclusioni che sono costretto a scolpire in maniera indelebile nella mia coscienza. Primo: non ho diritto di giudicare le miserie delle altre fedi e delle altre Chiese. Secondo: la Chiesa, quando è connivente o soltanto si appoggia al potere politico sempre si sporca e si abbrutisce. Terzo: quando la Chiesa abbandona “Madonna povertà” diventa fatalmente prepotente, dura e cattiva.

Quarto: la tentazione dell’Inquisizione, ossia intromissione negli ambiti dello Stato e della politica per imporre i propri valori, non è prerogativa del passato, ma purtroppo anche tentazione dell’oggi.

16.08.2013

“Com’è bella giovinezza!”

Più di una volta m’è capitato di irritarmi e giudicare leggero e fatuo un certo modo di agire delle donne, che spesso pare facciano fatica a trattenersi nell’esprimere la loro istintiva ammirazione alla vista di un uomo dai tratti armoniosi e fortemente virili. M’è anche capitato talvolta, avendo confidenza e familiarità con certe donne, di sbottare dicendo: «Un uomo lo si giudica dall’intelligenza, dalla bontà, dai valori che persegue, dalla finezza d’animo, non con criteri di ordine estetico!»

Pian piano mi pare di aver capito ed anche accettato che per una donna la propria e l’altrui bellezza sia un qualcosa di connaturato alla femminilità e perciò, facendo parte integrante del suo DNA, non deve esser loro imputato a superficialità o leggerezza questo loro modo di reagire di fronte al bello. Da quando poi ho preso una certa dimestichezza con “la teologia della bellezza”, che oggi pare sia tanto in auge, ho cominciato ad apprezzare questa virtù propria delle donne, a meno che essa non scenda a livello di fatuità, di malizia, o sia un modo per adescare ed irretire il maschio in questa ragnatela pericolosa.

Oggi, con la crisi delle vocazioni, capita purtroppo di incontrare spesso preti con la pancia e suore un po’ rotondette ed avvizzite. Due settimane fa però sono stato felicemente sorpreso e quasi “immagato” di fronte ad uno spettacolo che da tempo non vedevo e che mi ha fatto molto bene anche a livello spirituale. E’ avvenuto in occasione dell’incontro a Roma dei chierici che stanno preparandosi al sacerdozio e delle novizie, ossia delle ragazze che invece si stanno preparando ai voti di povertà, castità ed obbedienza. La piazza di San Pietro era gremita di questa bella e fresca gioventù, che credo sia giunta da tutto il mondo per ascoltare il nuovo Papa. Anche la televisione di Stato, sempre abbastanza parca nell’inquadrare questi avvenimenti di carattere religioso, ha dedicato delle splendide videate ai volti di questi ragazzi e ragazze di Dio.

Confesso che sono rimasto attonito e commosso di fronte a tanta armonia e a tanta bellezza. Ho avuto la netta sensazione che gli ideali e le scelte coraggiose e generose di queste ragazze e di questi ragazzi offrissero un valore aggiunto alla loro bellezza propria della gioventù.

Mi auguro e prego dal profondo del cuore che questa gioventù sappia maturare e donare al nostro mondo quell’incommensurabile ricchezza spirituale che è dentro al loro spirito e di cui il mondo ha bisogno, perché il dono di Dio è giusto che sia offerto in splendide e sublimi custodie umane.

13.08.2013

La decadenza delle onorificenze

Qualche tempo fa ho dedicato uno dei miei “editoriali” a don Franco De Pieri, parroco della comunità cristiana di San Paolo di viale Garibaldi, presidente del CEIS, quell’associazione benemerita che a Mestre ha creato una vasta rete di servizi a favore dei cittadini caduti nelle devianze sociali. Ho ritenuto giusto per molti motivi dedicargli quelle righe per riconoscergli indubbi meriti di sacerdote impegnato seriamente a livello pastorale e nel campo della solidarietà, che diede vita a Forte Rossarol, la struttura che offre molti servizi e di una notevolissima importanza sociale. Ho messo inoltre in luce, tra i meriti di don Franco, il fatto che egli, avendo raggiunto il tempo della pensione, non per questo ha messo fine al suo impegno, ma ha comunicato alla città che andrà in Brasile a “lavorare” in una missione che ha già aiutato anche durante il tempo del suo impegno pastorale a Mestre.

Additando ai lettori de “L’Incontro” la bella figura di questo nostro sacerdote, indicavo anche, come nota di merito, che egli usciva dalla diocesi senza filetti e fascia rossa, senza titoli onorifici, ma col suo semplice “don” anteposto al nome con cui Dio lo ha riconosciuto suo figlio in occasione del battesimo.

Ieri, e ancora oggi, la stampa ci ha informato con molta enfasi e dovizie di particolari, del piccolo terremoto locale col quale è stato spazzato via il titolo di “monsignore” con decreto patriarcale, quindi i più noti prelati del patriarcato sono stati “degradati” e ridotti a “soldati semplici” i quali possono, come tutti i preti, fregiarsi solamente del comunissimo “don”.

Povero don Franco! Ha perso così il merito di lasciare la diocesi senza alcun titolo onorifico! Con don Franco anch’io sono stato toccato nel mio orgoglio di aver combattuto la mia battaglia e d’esser arrivato a tarda età mantenendo “incontaminato” quel “don” che mi è stato offerto con l’ordinazione sacerdotale.

A dire il vero al “don” ho sempre preferito quel “padre” con cui mi chiamavano i ragazzi dei Gesuati agli inizi del mio sacerdozio, e con cui tanti fedeli, mi chiamano ancora. Comunque, se prevarrà la logica a cui pare che il nostro vescovo si riferisca, dovranno “saltare” presto anche i monsignori autorizzati dal Vaticano, i titoli di arcivescovo, di patriarca, eccellenza, eminenza, per stare solamente nel campo delle onorificenze ma, per lo stesso motivo, anche i “pontificali” dovranno essere ridotti al rango di “messe”. Insomma ne vedremo di belle con la rivoluzione appena iniziata da Papa Francesco.

11.08.2013

Chi la dura la vince

C’è molta gente cara nei riguardi di questo vecchio prete: sarà la mia canizie, sarà il fatto che scrivo molto o che i Centri don Vecchi mi hanno dato qualche notorietà, comunque sta di fatto che da mattina a sera non faccio che ricevere telefonate per i bisogni più diversi. Mi fa molto piacere che la gente abbia fiducia nella mia disponibilità e farò di tutto per aiutare il mio prossimo, perché questo lo ritengo un dovere, sia a livello personale che a quello ecclesiale. Mi rendo sempre più cauto però che per dare una risposta men che meno seria sarebbe necessaria una qualche organizzazione.

Oggi la vita è complessa, perciò senza un supporto organizzativo che abbracci tutti gli aspetti delle vecchie e soprattutto nuove povertà, e tutte le zone della nostra diocesi, i tentativi fatti da un singolo, o perfino da una parrocchia, per quanto motivata e attrezzata, sono destinati a rimanere velleitari e per niente risolutivi.

Questo problema non mi ha mai lasciato indifferente, però finora i miei tentativi sono andati a vuoto. Per un paio di anni ho premuto con tutte le mie forze per la realizzazione della “cittadella della solidarietà”, nel cui progetto rientravano non solo i servizi, ma pure un centro direzionale, un “cervello” che pianificasse in maniera moderna sia il coordinamento dei servizi, ma pure facesse un’analisi seria di chi si rivolgeva ad essi per offrire la risposta più idonea. Il progetto fallì; non ripeto i motivi di questo flop perché ne ho parlato più volte. L’individualismo estremo del mondo veneziano, la fragilità del governo, le scarse risorse finanziarie e soprattutto la mancanza di una cultura della solidarietà ne ha determinato la disfatta.

Non rassegnato, ho tentato un’altra strada. Con l’aiuto di esperti abbiamo creato un sito internet denominato “Mestre solidale“, ove appaiono tutti i servizi e gli enti benefici della città, con gli indirizzi, i numeri di telefono e le prestazioni che possono offrire. La soluzione però si è dimostrata forse prematura perché soprattutto il mondo del bisogno ignora ancora il mondo digitale e gli operatori del settore sono talmente impegnati nel servizio a cui si prestano da volontari, da non aver tempo e preparazione per entrare in questa rete solidale.

Ora non mi resta che sperare nel nuovo direttore della Caritas diocesana; infatti la Caritas ha come compito precipuo non tanto di gestire in proprio i servizi caritativi, quanto di promuovere nuove soluzioni e coordinare le strutture già esistenti. Non appena vi sarà questa nomina patriarcale mi darò da fare per proporre finalmente una organizzazione più adeguata.

La Chiesa veneziana deve avere, verso i concittadini in difficoltà, un progetto e delle soluzioni più avanzate delle attuali.

10.08.2013