Il Centro Don Vecchi è e deve restare del popolo semplice

L’otto ottobre prossimo venturo, alle ore 11, era stato fissato che il Cardinale Patriarca avrebbe benedetto e inaugurato il “don Vecchi” di Campalto, offrendo una piccola ma confortevole dimora ad un’altra ottantina di anziani di modestissime risorse economiche. Gli appartamentini sono 64, ma alcuni sono destinati a marito e moglie o a madre e figlia.

Meno di cinque anni fa la Fondazione che ha realizzato la struttura, aveva in tasca solamente un sogno, un sogno però che nasceva dall’assoluta convinzione che ci si doveva impegnare non in rapporto alle risorse di cui si disponeva – che erano, a livello economico, nulle – ma partendo dalla consapevolezza del bisogno degli anziani meno fortunati.

In questi cinque anni scarsi, abbiamo trovato un terreno, abbiamo comperato una casa pur obsoleta, ma che aveva una preziosa destinazione alberghiera, una ricchezza, dato ch’era situata alle porte di Venezia. Abbiamo però rinunciato a questa opportunità, preferendo, coerentemente alla nostra coscienza, la struttura di solidarietà.

Abbiamo realizzato l’opera nonostante l’indifferenza assoluta degli enti pubblici, delle banche e degli amministratori della cosa pubblica. Mi correggo: il Banco di San Marco fu l’unico ente che ci ha donato mille euro, poi niente, assolutamente niente!

Ci siamo affidati al buon cuore e alla coscienza dei concittadini, quei cittadini che stanno pagando in prima persona i morsi della crisi. La gente ha condiviso il nostro progetto e ci ha finanziato con piccoli versamenti che partivano dai dieci ai cinquanta euro, da aggiungere alla generosità stupenda di alcune persone anziane, le quali hanno fatto quadrare i conti.

Chi inviteremo all’inaugurazione? Non certamente i notabili, ma soltanto la gente, la povera gente. A titolo simbolico consegneremo le chiavi della cittadella degli anziani ad alcuni operatori sociali che ci sono stati particolarmente vicini, hanno condiviso e si sono fatti carico del progetto, ma in realtà le consegneremo ad ogni cittadino perché il popolo semplice ed umile s’è impegnato in prima persona e noi vogliamo dire apertamente, il giorno dell’inaugurazione, a chi appartiene a questo popolo umile e generoso, che ci ha creduto, che la cittadella, il “don Vecchi”, è suo e come tale lo deve custodire ed amare e difendere da chi tentasse di farne occasione di lucro.

Noi scommettiamo sul Centro Don Vecchi 5!

Gli amministratori pubblici, responsabili e seri, sono consapevoli d’avere delle grosse gatte da pelare altri però a motivo di populismo, spendono in maniera dissennata, tanto si troverà a sbrogliare la matassa chi verrà eletto alle elezioni successive.

Le persone responsabili, affrontano con onestà i problemi drammatici della nostra società. L’aumento consistente dell’età, la diminuzione della popolazione giovanile che contribuisce fiscalmente al costo degli anziani in pensione e il costo, vero o gonfiato, delle rette per gli anziani non autosufficienti, ha posto l’assessore alla sicurezza sociale della Regione, dottor Remo Sernagiotto, di fronte al dramma di come affrontare una spesa che sta aumentando in maniera vorticosa, e date le proiezioni sul numero di anziani per cui si dovrà provvedere nei prossimi anni, gli ha posto il problema, veramente drammatico, di trovare una soluzione.

Questo assessore, che non proviene dalla politica, ma dall’impresa, ed è perciò un uomo con i piedi per terra, vedendo la signorilità dell’ambiente ed esaminando i costi che al “don Vecchi” sono abissalmente inferiori a quelli che sono praticati dalle case di riposo, certamente ha pensato che sia possibile trovare una soluzione intermedia, meno onerosa e più dignitosa di quelle attuali.

Da questi ragionamenti è nata l’idea di una struttura che si muova sulla dottrina economica e sociale del “don Vecchi”, ma che possa far vivere più a lungo l’anziano in un luogo in cui possa continuare a gestire la sua vita da protagonista, fruendo di qualche aiuto maggiore.

Per impostare un progetto che risponda a queste urgenze, abbiamo pensato assieme al prototipo di un anziano, aiutato da una sorella più giovane o da una nuora generosa, o semplicemente da una “serva” vecchio stampo. La Regione ci aiuterà a dare un compenso all’assistente famigliare, per tutto il resto ci si avvarrà della rete dei servizi sanitari già posti in atto dalla uls.

Questa è la scommessa di Sernagiotto e del “don Vecchi”. Io sono sicuro che vinceremo la scommessa, nonostante che i direttori delle case di riposo per non autosufficienti, i sindacati si stiano stracciando le vesti e prevedano fosche prospettive. Sono disposto a scommettere uno a dieci che il 95% degli anziani che risiederanno nel progetto pilota del “don Vecchi” 5, vivranno e moriranno in un ambiente signorile, alla portata anche di chi gode la pensione minima, amati e riveriti e serviti per quanto è loro necessario, fino all’ultimo respiro. Chi vuole scommettere si faccia avanti!

Quanto apprezzo ora “il terribile quotidiano”!

Non è infrequente sentire della gente che si lagna per la monotonia del vivere. Per molti sembra che il tran tran quotidiano sia poco esaltante, anzi noioso ed insipido, sognando di trovare il gusto del vivere evadendo dalla quotidianità. Da questo stato d’animo è nato il detto assai diffuso che la vita di tutti i giorni può definirsi “il terribile quotidiano!”.

C’è qualcuno però che ha contestato e contesta questa affermazione, carica di tristezza e di desolazione, affermando che il quotidiano, vissuto con partecipazione, con intelligenza e con uno spirito di osservazione e di avventura, si può ritenere un qualcosa di veramente bello ed interessante.

Fino a due, tre settimane fa (il commento di don Armando risale a un paio di mesi fa, NdR) ero anch’io uno della schiera, piuttosto numerosa, che non riesce a trovare interesse alcuno di fronte alla ripetitività, alla monotonia del passare dei giorni facendo, pressappoco, sempre le stesse cose. Ora però mi sono decisamente convertito.

Qualche settimana fa, essendomi addormentato dopo cena, come sempre, davanti al televisore acceso, mi svegliai di colpo, forse per un rumore più forte della trasmissione; stordito, barcollai, finendo rannicchiato a terra tra il televisore e il termosifone. Una brutta botta. Non mi ruppi il femore, come capita tanto frequentemente tra i miei coinquilini del “don Vecchi”, ma mi fratturai due vertebre.

M’hanno ordinato un busto ortopedico che è veramente un supplizio. Mi sento ingabbiato come quando a Venezia si condannavano alla “cheba” i malfattori del tempo.

Da giorni e giorni sto ora rimpiangendo a calde lacrime “il terribile quotidiano” di un tempo. Era più bello e certamente più gradevole di quanto pensassi prima della rovinosa caduta.

Mi pare d’aver capito che devo vivere giorno per giorno, cogliendo il dolce e l’amaro, mangiando il “piatto della giornata”. La vita, anche quella più monotona, va vissuta con un po’ di entusiasmo e di responsabilità gustando quello che ci offre ogni giorno, perché è sempre nuova, interessante e bella. Per essere assolutamente convinti basta rompersi due semplici vertebre, per averne una controprova quanto mai convincente.

Un linguaggio poco comprensibile

A questo mondo o dai tutto per scontato o altrimenti, se guardi la realtà che ti passa davanti agli occhi in atteggiamento anche benevolmente critico, allora ti nascono domande e perplessità a non finire.

Qualche giorno fa m’è capitato di leggere il titolo di una lezione di catechesi religiosa che sarebbe stata tenuta da un noto teologo, titolo che, nonostante ogni mio sforzo, non sono riuscito a comprendere che cosa volesse trattare. Io ho fatto qualche esperienza del mondo della pedagogia, della psicologia e della didattica, avendo insegnato per 15 anni alle magistrali e, nel contempo, essendo stato consulente ecclesiastico di una associazione professionale inerente alla scuola. Ricordo che quando alunni ed insegnanti s’imbarcavano in un discorso d’ordine psicologico o pedagogico, erano veramente dei guai perché non si capiva proprio dove questi “esperti” volessero arrivare. Alcuni credevano d’essere più brillanti e più convincenti quanto più il loro dire era astruso ed ermetico.

C’è purtroppo a questo mondo della gente che pare goda a rendere difficili le cose facili e il mondo ecclesiale non solo non è alieno da questo pericolo, ma pare ci sguazzi dentro con voluttà.

Un giorno m’è capitato di dire una mascalzonata di fronte ad un noto teologo che disquisiva in maniera astrusa. Gli caddero a terra i fogli degli appunti e siccome lui faceva fatica a riordinarli, sbottai dicendo a voce alta: «Non si preoccupi, tanto le pagine dei suoi appunti sono perfettamente intercambiabili perché egualmente incomprensibili». L’assemblea per educazione non mi seguì, ma credo che tutti fossero con me.  Chi non riesce a parlare un linguaggio religioso che tutti capiscono, è preferibile che taccia.

Recentemente poi ebbi a leggere in un foglio parrocchiale che veniva soppressa una messa per far luogo ad un rito di iniziazione cristiana. Credo che soltanto un’assoluta minoranza abbia compreso questa scelta e che alla parrocchia sia rimasto sconosciuto il motivo della soppressione di una messa d’orario.

Ricordo un mio insegnante il quale diceva: «Quando ti rivolgi ai fedeli, domandati se parleresti così anche se ti trovassi al bar con gli amici o all’ipermercato».

Quello del linguaggio, nella Chiesa, non è il problema più grave, ma di certo un problema reale.

Fede e burocrazia della religione

Quando mi serve il numero di telefonino di un prete o di una parrocchia, mi riesce più facile cercarlo nell'”annuario” della diocesi, che non sull’elenco telefonico, dove mi è difficile scoprire sotto quale nome posso trovarlo.

L’annuario è un grosso volume di 230 pagine che esce ogni anno con gli opportuni aggiornamenti.

Ogni volta che prendo in mano questo volume, provo delle sensazioni strane che vanno dall’orgoglio di appartenere ad una realtà così ricca ed articolata, alla delusione che un “marchingegno” così complesso non produca dei risultati di ordine spirituale così eclatanti che finora a me non è mai capitato di scorgere.

Queste osservazioni così elementari da potersi considerare perfino banali, mi hanno posto un problema molto più importante che finora non ho mai affrontato seriamente e che, meno che meno ho risolto, cioè il rapporto tra fede e religione o, meglio ancora, tra fede e Chiesa. Da sempre ho ritenuto che la fede sia la gioiosa certezza che Dio mi ama, mi perdona, mi aiuta e mi attende in fondo alla strada della mia vita, mentre ho pensato che la religione, e più ancora la Chiesa, siano gli strumenti che dovrebbero illuminare, giustificare e sorreggermi nel mio credere.

Mi ritrovo ora a constatare che mentre il mio atto di fede è semplice, essenziale, personale, il “marchingegno” della religione e della Chiesa è un qualcosa di mastodontico, complesso, artificioso e burocratico. Quando mi ritrovo a pregare “Dio mio!” e poi penso al volume di 300 pagine che racchiude le gerarchie, l’organizzazione ecclesiastica, gli istituti, gli operatori religiosi, le congregazioni, commissioni e quant’altro, mi pare che ci sia una sproporzione evidente.

So che la mia fede deve essere alimentata, sorretta, custodita e difesa, però temo che l’immenso carrettone costruito nei secoli per adempiere a questo compito sia veramente eccessivo.

In questo momento della mia vita sogno una religione ed una Chiesa più povere, più leggere e più essenziali, perché temo che si corra il rischio che questo enorme meccanismo possa soffocare quel soffio leggero che mi fa credere, amare e sperare. Non ho ancora tutto chiaro, però sento che la mia Chiesa deve spogliarsi neppiù di paludamenti, formule, ingranaggi ed istituzioni che arrischiano di assorbire ogni energia e farmi dimenticare il motivo per cui sono state costruite.

Il commiato cristiano ai fratelli che non praticano o non credono

L’ho confessato più volte che ora esercito il mio ministero di prete soprattutto celebrando funerali. E che cosa potrebbe fare altrimenti un prete che ha la sua chiesa nel cuore del camposanto? La cosa non mi dispiace affatto e non mi sento per nulla un prete frustrato, perché questo ministero mi dà modo di offrire le grandi e benefiche verità cristiane alle domande più vere che si presentano alla coscienza dell’uomo in occasione dalla realtà amara e temuta della morte.

Normalmente prendo contatto con i famigliari del defunto con una telefonata un paio di giorni prima del commiato. Oggi è tanto difficile trovare tempo per un incontro diretto. Dal breve colloquio faccio emergere il volto e la vita del fratello che l’indomani presenterò alla misericordia di Dio. In questo dialogo non manco mai di chiedere qualche notizia sulla religiosità del defunto. Poche volte si tratta di un cristiano praticante, quasi sempre i famigliari dicono che era veramente credente ma che praticava poco e, qualche volta ancora, mi capita anche di sentire che, pur essendo una brava creatura, non era credente.

Che fare allora? Penso che un prete da manuale dovrebbe dire che non è affar suo dare una cornice religiosa al commiato di una creatura che non può reagire o chiarire ulteriormente la sua posizione, né può però un “prete da strada” dare l’impressione di svendere le sue convinzioni. Pian piano ho elaborato un mio discorso che tiene conto dell’ambiguità della situazione. Comincio col dire che col battesimo il Signore ha riconosciuto il fratello che ci lascia come suo figlio (lo voglia o non lo voglia le prerogative e i diritti di figlio gli rimangono comunque). Continuo col citare una frase che Cronin, nel romanzo “Anni verdi” fa dire al vecchio parroco che rincorre l’adolescente che ha voltato le spalle alla fede: “Ricordati che se anche non ami Dio, Dio continua ad amarti ed attenderti comunque”.

Proseguo con la famosa frase di sant’Agostino con cui questo grande santo afferma che non è facile sapere chi serve veramente ed è amato da Dio, perché ci sono uomini che Dio stima per la loro autenticità, ma che non trovano spazio nella Chiesa, ed altri che non fanno che “paternostrare” da mattina a sera, ma che Dio non apprezza più di tanto perché non colgono e non vivono la sostanza della fede.

Infine concludo riferendo l’accoglienza che il Padre fa al prodigo, che di certo non era stato un figlio per bene. Aggiungendo che forse qualcuno sta lontano dalla fede perché ha conosciuto solamente il “Dio dei preti”, ma non quello del Vangelo.

Terminato il sermone, ho l’impressione che tutti ci sentiamo più vicini, più fratelli e più uomini di fede, e rasserenati circa la pace eterna del caro estinto.

Il Cristo vittorioso è davvero in mezzo a noi!

Ormai la Pasqua ci sta molto alle spalle, ma il grande annuncio della vittoria del bene sul male, della vita sulla morte non è assolutamente legato al calendario, perché è una verità della quale anche gli uomini del nostro tempo hanno bisogno in ogni stagione dell’anno.

Quest’anno, in occasione della Pasqua ho avuto un’illuminazione in riferimento ai testi evangelici che affermano che la presenza di Cristo ai nostri giorni si identifica con la realtà dell’uomo povero e bisognoso di aiuto. Tanto che Cristo ci avverte che il giudizio finale che Dio pronuncerà nei nostri riguardi si rifà al rapporto positivo o negativo che noi avremo avuto con i fratelli in difficoltà.

“Avevo fame, avevo sete, ero ignudo, ammalato o in carcere e tu mi hai dato da mangiare, da bere, mi hai vestito…. ” oppure “e tu non mi hai dato un pane, un vestito, non sei venuto in prigione o in ospedale a portarmi conforto”.

Questo identificarsi da parte di Cristo nelle vesti e nelle situazioni esistenziali del povero, mi carica di una responsabilità gravissima, perché quando volto le spalle ad un povero, allora non dico di si o di no ad un “pincopallino” qualunque, ma lo dico a Cristo figlio di Dio!

Riflettendo sul “Mistero dell’incarnazione”, mi sono detto: “se questo vale per l’uomo “povero”, nel quale io sono chiamato a vedere Cristo, deve valere anche per l’uomo “ricco”, ossia l’uomo onesto, giusto, pacifico, libero, autentico, misericordioso. Perciò il Cristo della vittoria del bene e del male, il Cristo della resurrezione lo posso e lo debbo incontrare nell’uomo che vive sostanzialmente le ricchezze del Cristo vittorioso.

Seguendo questo filone di idee, ho cominciato a sentirmi ancora più fortunato degli apostoli, perché mi capita da mane a sera di incontrare uomini e donne, bimbi e vecchi che portano nello sguardo, nelle parole e nelle scelte di vita i segni del Cristo vittorioso.

Questa dimestichezza con il Cristo della Resurrezione, che veste e parla come noi, ma che soprattutto vive con noi, mi riempie di grande consolazione, di ottimismo e di fiducia, perché mi fa consapevole che il Signore vittorioso è costantemente presente, è ben radicato nella nostra società e soprattutto continua a crescere ed a manifestarsi a noi.

La mia “teologia” forse non farà scuola nelle università ecclesiastiche, ma fortunatamente mi aiuta a vivere, credere e sperare.

Soltanto un’utopia ci può salvare dallo sfacelo!

Oggi il tempo corre veloce, anzi velocissimo. Le mie riflessioni da manovale del pensiero, quando si materializzano sulla carta sono, per i ritmi della vita d’oggi, non dico vecchie, ma antiche.

Sto buttando giù questa pagina mentre la radio e la televisione stanno trasmettendo a spron battuto il risultato delle elezioni amministrative che hanno fatto emergere il parere di dodici milioni di italiani sulle vicende politiche del nostro Paese.

Da quel che capisco, mi pare che i nostri concittadini, che han votato in questi giorni, abbiano detto che sono stufi delle guasconate di Berlusconi il quale, nei riguardi delle riforme, assomiglia ad un’opera lirica in cui il tenore canta per dieci minuti “partiam, partiam”, ma rimanendo sempre immobile sul palcoscenico.

Purtroppo pare che non sia emersa nello stesso tempo un’alternativa forte e credibile.

Mi pare ancora, ma questo mi sembra triste e sadico, che un certo numero di italiani, e non pochi, si siano presi la magra libertà di votare per “il cavallo di Caligola”, ossia per quell’arruffapopoli, furbastro ed interessato di Beppe Grillo!

Sto assistendo poi, con amarezza, alle affermazioni di Casini che, a suo parere, è arrivato all’ambizioso risultato di poter fare l’ago della bilancia e con pochi voti finalmente poter condizionare le sorti della politica italiana.

Pure con tristezza assisto alla fittizia esultanza del PD di Bersani, che guida una ciurma indisciplinata e rissosa, tenuta assieme solo a prezzo di infiniti compromessi. Non è peggio di prima, perché pare che il peggio anteriore non fosse superabile.

Io? Non ho perso e non ho vinto, perché sono rimasto libero pensatore; mi tengo i miei sogni e i miei ideali, tentando di aggiungere ogni giorno un mattoncino per il mondo nuovo. Dalle elezioni ho rinforzato una mia conclusione, di cui sono ormai convinto da tempo: l’Italia ha bisogno di una rivoluzione morale di fondo in cui si riscoprano i veri valori della vita, si rimettano in luce le linee portanti per una società che miri a realizzare valori quali: onestà, sobrietà di vita, moralità, lavoro, famiglia, princìpi morali, e, perché no?, una riscoperta dei valori religiosi!

Questa è un’utopia, si, è un’utopia! Ma soltanto un’utopia ci può salvare dallo sfacelo.

Chissà che il buon Dio abbia pietà e ci mandi un san Francesco per questi tempi nuovi!

Adriana Zarri

Qualche mese fa è morta Adriana Zarri. Non credo che il gran mondo la conosca, un po’ di più è conosciuta dai cattolici del dissenso, perché questa studiosa della Sacra Scrittura e questa cristiana militante scriveva su “Il manifesto” e condivideva molte delle tesi culturali della sinistra ed era molto critica nei riguardi delle prese di posizione delle gerarchie della Chiesa.

In occasione della morte, anche i periodici di ispirazione cristiana hanno liquidato velocemente la notizia con titoli un po’ guardinghi e con la preoccupazione della riserva: “Adriana Zarri, credente fuori delle righe”.

Io ho letto la notizia con qualche interesse perché più di mezzo secolo fa avevo letto un suo libro sui sacerdoti dal titolo “Servi inutili”, un titolo che si rifaceva ad una affermazione di Gesù, la quale sottolineava la grande verità che solo Iddio è il protagonista della storia, l’uomo semmai ne è un povero strumento. Il volume viaggiava su questa tesi, ribadendo il concetto che il prete è una creatura preziosa e sublime nella misura in cui si fa strumento docile e maneggevole nelle mani di Dio.

Dalla lettura mi è rimasto il ricordo di un testo edificante ed utile, a livello ascetico, per i sacerdoti. Ma dalla posizione ideale di Adriana Zarri a quella con cui ha chiuso la sua giornata umana pochi mesi fa “ne è passata di acqua sotto i ponti”. La Zarri fu una militante cristiana atipica, dura come l’acciaio. Sostenne tesi anche in aperto contrasto con le posizioni della Chiesa cattolica, pur rimanendo integerrima nella sua fede. Scrittrice brillante, ricca di logica, di cultura, ma insieme di poesia e di sentimento, cercò il difficile dialogo con la cultura laica del nostro tempo e, assecondando tesi che il cattolicesimo ufficiale non condivide, riuscì a parlare del suo Dio, tanto amato e ricercato, anche in ambienti assolutamente impermeabili a questo discorso, eppure capaci di donare al mondo attuale, magari incoscientemente, aspetti autentici del volto di Dio.

Una carissima alunna delle magistrali di circa quarant’anni fa ha regalato al suo vecchio ma non dimenticato insegnante, l’ultimo libro della Zarri “Un eremo non è un guscio di lumaca”, in cui essa racconta la sua esperienza di eremita “sui generis”. Sono all’inizio del volume, ma già mi rendo conto che anche “l’altra sponda” possiede raggi di quell’unico sole che illumina un po’ tutti.

Solidarietà (non sempre disinteressata)

Qualche giorno fa si sono presentate ai magazzini “San Martino” tre suorette piuttosto anziane per chiederci due tipi di indumenti. Gestendo queste suore le docce per i poveri a Venezia, ci dissero che avrebbero avuto bisogno di biancheria intima, magliette e mutande, perché la gente che chiedeva la doccia aveva addosso indumenti sporchi ed inutilizzabili.

So da sempre che i poveri da strada fatalmente adoperano la soluzione “usa e getta”. Come potrebbero fare altrimenti, quando non hanno un luogo dove vivere, dormire e provvedere alle proprie pulizie? Pur praticando l’associazione che gestisce i magazzini “San Martino”, la dottrina che niente deve essere dato per niente e che il piccolo obolo richiesto viene devoluto totalmente per far sorgere altre strutture di servizio e al fine di creare una mentalità solidale – anche i poveri devono aiutare i più poveri – di fronte alla richiesta di aiuto a favore di chi non ha proprio nulla, non battemmo ciglio e consegnammo quanto richiesto a titolo assolutamente gratuito.

La seconda richiesta invece mi ha messo in crisi. Le suore chiedevano vestiti per i profughi del nord Africa che il governo sta seminando un po’ in tutte le regioni e un certo numero dei quali è giunto anche a Venezia. Ho letto recentemente e con sorpresa che per lo Stato italiano l’accettazione e il mantenimento di un profugo di questo genere viene a costare complessivamente 250 euro al giorno. Da ciò deduco che gli enti civili e religiosi che accettano di ospitare questi profughi non fanno un’opera buona, ma un affare! Un qualcosa come avviene per le comunità dei tossicodipendenti!

Ho visto in televisione il complesso di San Patrignano ed ho compreso che quella è una vera holding, non un istituto di beneficenza! Per i ragazzi ospitati lo Stato paga una retta e nello stesso tempo la comunità “redime” il tossico facendolo lavorare gratis. Alla richiesta delle candide, e certamente anime belle, delle suore risposi che l’ente che ha accettato i profughi, quale esso sia, deve destinare qualcosa anche per chi provvede alle loro vesti, perché la solidarietà è una cosa splendida, quando la si fa in proprio, non quando la si fa fare a gli altri, perché è giusto essere “buoni, ma non tre volte buoni!”.

Cristo ci insegna a partire dal bisogno della gente: si dovrebbe fare sempre!

“I miei sentieri non sono i vostri sentieri”, la Bibbia fa dire a nostro Signore.

Spessissimo, se non sempre, la cultura corrente non s’accorda col pensiero del Signore, anzi spesso è antitetica. Il guaio però è che i giudizi dell’opinione pubblica appaiono sempre vincenti perché più suadenti. I fiori del male son belli, smaglianti, piacciono!

Ricordo don Franco De Pieri, il prete mestrino che si occupa dei drogati. Un giorno, parlando ai genitori, affermava con convinzione: «Ricordatevi che la droga non è qualcosa di nauseabondo o ributtante come l’olio di ricino, la droga piace. Per questo motivo è difficile, per noi poveri uomini, accettare tranquillamente e con entusiasmo le soluzioni che Cristo propone ed è ancora più difficile per noi poveri preti convincere che Gesù ha ragione, anche se propone soluzioni che impegnano.

Pensavo a queste cose, qualche giorno fa, dopo aver letto al mio piccolo gregge che si raduna ogni giorno nella chiesa del cimitero, l’episodio della moltiplicazione dei pani, episodio che, tutto sommato, concretizza questa contrapposizione. Ad intorbidare le cose poi s’aggiungeva che a sostenere la tesi, secondo Dio perdenti, erano uomini di Chiesa e non di poco conto, perché erano gli stessi apostoli di Cristo.

Dicono a Cristo: «Manda a casa questa moltitudine di gente perché ha fame». Gesù ribatte: «Provvedete voi!» Immediatamente fa capolino la mentalità ragionieristica: «Ci vorrebbero fondi che non abbiamo; si, c’è qui un ragazzino che ci mette a disposizione la merenda che la sua mamma gli ha preparato, ma questo è qualcosa di insignificante.»

Gesù ordina: «Fateli sedere; si rivolge a Dio e poi fa distribuire il pane e il pesce che non solo bastano, ma sopravanzano.

Ecco lo scontro delle tesi: la ragioneria umana e il sindacato discutono su come distribuire equamente una ricchezza che non c’è, ossia partono da quello che hanno, mentre Cristo parte dal bisogno della gente e insegna che in ogni modo è doveroso provvedere. Partendo da questa premessa accetta anche l’insignificante apporto del ragazzo, si rivolge a Dio, dà il necessario e recupera il rimasto.

Credo che il testo della moltiplicazione dei pani dovrebbe essere adottato alla Bocconi e in tutte le facoltà di economia e commercio come testo ufficiale.

L’impegno deve tener conto soprattutto del bisogno e non del conteggio ufficiale della cassa. Umilmente credo che, se partendo per l’avventura dei Centri “don Vecchi” avessi contato i soldi che avevo in tasca e non avessi invece preso coscienza delle necessità dei nostri anziani, non avrei messo neppure la prima pietra. La logica di Dio è sempre quella vincente, anche se rifiutata dai più grandi economisti del nostro mondo.

Un’esperienza positiva al pronto soccorso de L’Angelo

Le mie esperienze sul mondo della sanità sono fin troppo frequenti. Non ne ho terminata una che già la successiva è alla porta.

Non ritorno sulle esperienze pregresse, perché sono fin troppe. Sento però di dover mettere qualche riga di nero su bianco sull’ultima, su quella, purtroppo, ancora in corso. Lo faccio soprattutto per fare una giusta e doverosa riparazione.

Più volte, nel mio vagabondaggio sulle pagine di questo diario, ho accennato alla delusione che da un paio di anni sto provando in merito al nuovo ospedale. “L’Angelo” è certamente la più bella struttura architettonica della nostra città. Il nuovo ospedale di Mestre è magicamente bello, nella sua collocazione fra le collinette trapunte dai giovani cipressi e i laghetti, piccole perle d’acqua. E’ bello per la sua struttura ardita, ma nello stesso tempo rasserenante, perché coniugata in maniera magistrale col cielo, col verde delle piante. Offre un’atmosfera calma ed intima.

Nonostante questo, però, s’è attirato e sta ancora attirandosi critiche a valanga. Non sto qui, per carità patria, ad enumerarle. Ce n’è una però, una dominante assoluta, incontrovertibile: l’affollamento e le attese al pronto soccorso. Io ne sono testimone perché, due volte la settimana, ci vado per portare “la buona stampa”.

Qualche giorno fa ci sono andato una volta ancora non da visitatore ma da paziente. Una caduta da vecchiaia mi ha costretto a rivolgermi al pronto soccorso dell'”Angelo”. Ho atteso un quarto d’ora, sono stato visitato da un giovane medico, preparato, cortese, che ha fatto la sua diagnosi, ha chiesto un consulto di un collega neurochirurgo per implicazioni alla spina dorsale, altro professionista preciso e puntuale, m’hanno fatto una schermografia. Tutto l’apparato formato da medici, infermieri, tecnici e portantini mi è parso scorrevole, efficace e puntuale. Finita la trafila è arrivata l’ambulanza con i volontari della croce verde, persone simpaticissime e semplicemente meravigliose, che con cura ed attenzione a non frantumare la mia fragilità, m’hanno deposto sul mio letto.

Posso affermare che nulla, proprio nulla si sarebbe potuto far meglio e più velocemente. Certamente c’era, assieme a me, un’altra quarantina di “infortunati” che attendevano tutto quello che era stato fatto a me. Mi rimane il dubbio che tanta premura sia stata dovuta al fatto di essere un raccomandato di ferro per gli appoggi su cui posso contare e sulla mia “fama”. Questo però è solo un mio dubbio!

Il Vangelo non cambia, le parole con cui esprimerlo sì

Può darsi che in qualche altra occasione abbia raccontato una mia esperienza di tempi ormai molto lontani. A noi vecchi capita spesso di dimenticare e di ripeterci. Questo non da oggi, se già a Roma circolava la massima che “gli anziani hanno diritto di dimenticarsi”. Confesso che io mi avvalgo molto di frequente di questo diritto.

Ebbene, ero agli inizi del mio sacerdozio e preparare il sermone della domenica era veramente un’impresa. Cominciavo dal lunedì a pensarci, per arrivare fino al sabato per avere qualche idea un po’ organica e seria da offrire ai partecipanti all’Eucaristia della festa. Mi riconosco almeno un merito fra tanti difetti: è di aver fatto sempre le cose seriamente e di non essermi presentato in chiesa senza aver chiarito, dentro di me, la riflessione in merito al brano del Vangelo che la chiesa intendeva offrire all’attenzione dei fedeli. Ogni domenica però la predica era ben sudata.

A quel tempo era mio parroco mons. Aldo Da Villa, un cumulo di prete, anticipatore della sagoma di don Camillo, uomo intelligente, navigato e con una lunga esperienza. Quando prendeva la parola, veramente incantava l’assemblea; sembrava che prendesse per il bavero la gente e la mettesse con le spalle al muro. Era veramente un bravissimo oratore.

Mi capitò di dirgli un giorno: «Monsignore, lei sa quanto ho faticato io questa domenica per la mia predichetta; ho tirato fuori con tanta fatica quanto avevo di meglio nell’animo mio, ma il prossimo anno che cosa potrò mai dire di nuovo, se già quest’anno ho dato fondo a tutte le mie “riserve”?» Ricordo la risposta sicura e rassicurante: «La Parola di Dio è sempre viva e nuova, il prossimo anno avrai, per la stessa pagina del Vangelo, argomenti più abbondanti ed interessanti di quelli di quest’anno».

In verità è sempre stato così. A mezzo secolo di distanza le stesse pagine di Vangelo mi sembrano più interessanti ed attuali, tanto che mi aprono dei varchi verso la verità veramente nuovi e splendidi. Mai come ora trovo il Vangelo così innovativo e all’avanguardia su tutte le problematiche della vita. M’è rimasto però – e non è poco – il dramma di non riuscire a tradurre come vorrei quello che il mio spirito scorge di straordinario nella parola di Dio. Non mi sono ancora rassegnato, ma credo che lo dovrò fare.

Di acciacchi, dottori di ieri e progresso odierno

Nel mio piccolo paese di campagna, ove sono nato, il gota della comunità era alquanto minuscolo: il parroco, la “comare”, l’oste, il farmacista e il medico. In caso di malattia però si ricorreva al farmacista per avere una diagnosi sui nostri malanni, perché tutti dicevano che il farmacista ne sapeva come il medico, ma mentre il medico si faceva pagare la visita, il farmacista richiedeva solamente il costo delle medicine e per l’economia povera del tempo non era cosa da poco.

In questi giorni il mio pensiero è tornato di frequente al mio vecchio medico di paese, perché era una specie di Leonardo da Vinci: faceva da internista, chirurgo, dentista, ortopedico, pneumologo ed altro ancora. Le rare volte che la mamma mi ha portato da lui, batteva sulla schiena e mi faceva dire trentatré.

A questo medico, che aveva un’aria un po’ magica, anche perché era l’unico meridionale del paese, non servivano ecografie, scintigrafie, Tac – Pet ed esami vari, ma faceva la diagnosi all’istante e prescriveva le medicine relative. Nonostante questo empirismo veloce, in paese si viveva e moriva pressappoco come oggi da noi con tanti ospedali di eccellenza.

Ho pensato a questo mondo ormai remoto in relazione ad una recente brutta caduta che mi causa notevole dolore. Avendo una sorella che fu caposala all’Umberto I, ed una suora che ha lavorato per trent’anni nello stesso ospedale, in questi giorni esse hanno consultato una serie di medici specialisti di loro conoscenza, medici che a loro volta hanno richiesto esami di ogni genere, mentre io mi sono tenuto i miei dolori!

Sarei tentato di concludere che tutto l’apparato medico della nostra sanità non ha risolto i problemi di fondo e questo è anche vero perché da sempre si nasce e si muore, comunque. Poi, a pensarci meglio, mi pare invece di dover concludere che le burrasche piegano un po’ le piante giovani, che poi si raddrizzano subito, ma i vecchi alberi si schiantano con tanta facilità.

Tra i guai della vecchiaia c’è anche questo, nonostante il progresso!

“…come se gli insulti e le lotte potessero produrre felicità e ricchezza.””

Ora sono fin troppo sedentario; i miei viaggi si riducono al tratto di srada da via dei trecento campi – che conta appena sei numeri civici – fino alla piazzetta dei cipressi, dove c’è l’ingresso del camposanto e i chioschi di fiori di Franco Varretto e al relativo ritorno al “don Vecchi”.

Un tempo però, per motivi d’ordine pastorale, facevo con il gruppo parrocchiale degli anziani almeno una gita al mese. Conservo dei ricordi molto belli di queste uscite che mi hanno fatto conoscere i luoghi più belli e i santuari più ricchi di pietà del nostro Veneto. Quanti ricordi cari, quante emozioni!

In questi mesi, quando perfino Napolitano parla della Patria e in particolare in queste ultime settimane in cui la televisione ci ha fatto vedere la grande sfilata degli alpini a Torino, con le marcette patriottiche e lo sventolare del tricolore (tanto che Torino sembrava una delle città della Svizzera, perennemente imbandierate) quasi per associazione di idee, mi sono ritornate alla memoria due forti emozioni che ho provato in questo girovagare curioso nella nostra bella terra.

Un giorno sono andato sul Grappa a visitare il grande monumento che, a sud, custodisce un’infinità di loculi con i resti dei combattenti italiani della grande guerra e, a nord, altrettanti austro-ungarici. Ed un altro giorno a Redipuglia, ove ho celebrato messa con i miei vecchi in quell’enorme mausoleo di marmo immerso nell’immensa collina verde sui cui prati spuntano sassi bianchi ed arbusti rosso sangue.

Sia sul Grappa che a Redipuglia ho pensato a quanto sarebbe stato più bello e più giusto che quei giovani combattenti di due popoli, diversi ma vicini, invece di uccidersi reciprocamente, senza un motivo, avessero giocato assieme “una partita al tesoro” Non ci sarebbero state tante lacrime e tante rovine.

Questi ricordi mi fanno sognare che se al Parlamento quel migliaio di persone ben pagate, invece di insultarsi a vicenda, di mettersi i bastoni tra le ruote impedendosi reciprocamente di cercare il bene del Paese, giocassero nello stadio romano delle “amichevoli a calcio”, quanto sarebbe più bello, edificante e giovevole per il Paese!

Temo però che i miei rimarranno sogni e che i partiti continueranno a dare cattiva immagine di sé e scandalo alla gente, che i sindacati e gli industriali continueranno a litigare come se gli insulti e le lotte potessero produrre felicità e ricchezza.