Vorrei parole per esprimere la mia meraviglia e gratitudine al Signore!

Ho piena coscienza di essere un poeta mancato, incapace di tradurre in parole e pensieri l’incanto del Creato e della vita.

Verso febbraio, marzo, mi sono sorpreso più volte a pregare il Signore che mi facesse dono di vivere ancora, almeno una volta, la nuova primavera che stentava a liberarsi dal gelo per sbocciare in tutta la sua bellezza.

Gli acciacchi che continuano a manifestarsi, gli equilibri sempre più instabili delle componenti del mio organismo mi facevano sentire tutta la precarietà dei miei ottant’anni compiuti da un pezzo. Desideravo ardentemente potermi inebriare una volta ancora dei colori tenui della bella stagione, del fiorire di tutte le piante, del tepore dolce del sole e dell’incanto della natura che si risveglia dal lungo sonno invernale e si veste di tutta la sua bellezza.

Il Signore mi ha accontentato e quest’anno ho vissuto la primavera con una curiosità, un’ebbrezza del tutto particolari, quasi mi sono inebriato di tanta soavità. I miei occhi curiosi hanno cercato di assaporare l’armonia e il colore di ogni fiore, hanno prima atteso e poi seguito il vestirsi degli alberi dal verde tenue e delicato e poi hanno gustato l’offerta che ognuno di essi fa del proprio fiore, uno diverso dall’altro.

In questi giorni sto ammirando l’esplosione di quel bianco panna tipico delle acacie, alberi possenti vestiti di queste lunghe e flessuose tuniche bianche, come vesti trapunte di mille e mille perle. La natura mi pare veramente una sinfonia di inaudita dolcezza, che si sviluppa con colori e fogge, con variazioni infinite di bellezza, dal fiorellino giallo o turchese del prato al fiorire di alberi possenti di grande respiro.

Come invidio il poverello d’Assisi che con la sua cetra ineffabile canta il sole radioso, l’acqua umile e preziosa e casta, le stelle colorite e belle, il foco “giocondo, robustoso e forte”. Io non riesco a tradurre in parole l’incanto di questa primavera che mi pare più bella del solito, che sento come un abbraccio caldo e profumato del buon Dio e che mi fa arrossire per non aver, nel mio lungo passato, apprezzato quanto sarebbe stato giusto e non aver ringraziato ed amato il Signore per quanto m’ha fatto vedere e sentire.

A quanto pare non sono un operaio molto specializzato!

Un prete dovrebbe essere per natura e per definizione uno specialista della preghiera.

Nel mondo dell’industria e della tecnica ci sono i manovali che fanno i lavori più grossolani, che non richiedono una preparazione specifica, scuola o diplomi di sorta. Spesso mi capita di vedere alla televisione, in occasione di scioperi o di discorsi sull’andamento dell’economia, le catene di montaggio in cui ogni operatore ha delle mansioni ben definite e svolge interventi quanto mai ripetitivi lungo tutto il suo tempo di lavoro. Per essere un bravo operaio costui non ha che da ripetere con precisione e diligenza le operazioni che gli hanno insegnato che poi, durante tutto il suo turno, sono sempre le stesse. Però in questo nostro mondo, sempre più invaso dalla tecnica e dall’informatica, mondo in cui anche negli ambienti più normali, persino in casa, vi sono strumenti complicati sui quali solo i tecnici è bene che ci mettano le mani, occorre una specializzazione specifica.

Un qualcosa del genere dovrebbe avvenire anche nel campo religioso. Per i semplici fedeli potrebbe bastare il catechismo dell’infanzia, la preghiera mattutina e la sera e qualche aggiornamento generico, ma nulla più. Però, per le problematiche più complesse, la Chiesa prepara i suoi “tecnici”. Gli operai del Regno di Dio fanno lunghi studi di teologia per diventare maestri e specialisti nei singoli settori della morale, della teologia, della biblica o dell’ascetica. Io però temo di non avere le competenze specifiche richieste alla categoria.

Sto leggendo un volume su Papa Wojtyla: “Perché è santo”, scritto dal postulatore della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, quindi da chi ha indagato più profondamente sulla vita interiore di questo uomo di Dio.

I capitoli dedicati al misticismo di questo nuovo beato non solo mi stupiscono per la capacità di concentrazione, per il lungo tempo dedicato alla preghiera, al dialogo incessante con Dio, al suo rifarsi continuamente e in tutto alla volontà del Signore, ma quasi mi turbano per quanto mi sento piccolo, lontano ed incapace di tale misticismo.

Esco quasi sgomento da questa lettura perché mi ridico: “ma che specialista sono della comunione con Dio, del dialogo col Signore, della contemplazione del mistero della Santissima Trinità?” Sono arrivato alla conclusione di essere nel campo della religione quello che è l’omeopatia nel campo della medicina. Sono un uomo che adopera la sua umanità per cantare la gloria di Dio: l’onestà, la libertà, la poesia, il sentimento, l’amore per gli uomini, il dialogo con le creature, il lavoro, lo stupore nei riguardi del Creato! Spero proprio che anche questo empirismo religioso compensi le mie carenze e m’aiuti a risolvere alla buona quello che invece i professori della fede fanno adoperando la loro preparazione teologica!

Gli infaticabili lavoratori del don Vecchi

Questa mattina mi sono recato nella mia “cattedrale tra i cipressi” a deporre in segreteria “i ferri del mestiere” ed ho trovato due giovani pensionati che, a titolo di volontariato, pulivano le “vetrate” della chiesa.

Mi sono sembrati perfino più belli mentre lucidavano con pignoleria ed entusiasmo quei vetri che a me erano sembrati già puliti ma che, osservati dopo la “cura”, offrivano una splendida luce alle verdi piante di aralia che decorano stupendamente le “vetrate della cattedrale”.

Tornai in chiesa dopo le 14,30 per celebrare la messa feriale delle 15 e i due “lavoratori” stavano completando la pulitura dell’impiantito. I miei cari e generosi amici evidentemente han fatto dello “straordinario”. Non so come potrò pagarli, se già per il lavoro ordinario, nelle ore previste dal contratto della “categoria della gente di chiesa” offro il centuplo e la vita eterna. Questo per me è il guadagno!

Al mattino quando, verso le sette, esco dal “don Vecchi” per “andare a bottega”, incontro da un lato la Giovanna che con quella sua aria soave con la manichetta in mano bagna piante e fiori lungo i centoquaranta metri del lato di levante del parco del Centro, e L’Olinda che col volto sorridente e il cipiglio deciso bagna il lato di ponente.

Prima di uscire dal cancello ho sempre modo di salutare Carlo, che con la carriola e la scopa di canna d’India dà la caccia all’ultima foglia caduta durante la notte e all’ultimo pezzo di carta buttato a terra dal solito maleducato.

Carlo opera con la tensione di un chirurgo, perché dopo il pranzo viene per il rendiconto quotidiano a raccontarmi che cosa ha fatto nella mattinata.

Quando ritorno dalla messa c’è Luigi che scarica il camion di verdura che “ha mendicato” ai mercati generali di Mestre, o Padova, o Treviso, e la Marisa e la sua squadra che intervengono per la cernita prima che arrivi la “spettabile clientela”.

Entrato in casa, è già aperto il bar con il banconiere o la banconiera in divisa che serve il caffè.

Tutta questa cara gente non conosce orario, busta paga, mansionario, rivendicazioni salariali o sciopero di sorta, eppure è felice. Il lavoro per questi lavoratori che al “don Vecchi” si contano a decine e decine, è quasi un bel gioco che rende la vita lieta e veloce il tempo.

Ogni tanto però sono preso dall’angoscia che arrivino i sindacati a fare “la frittata”!

Il benessere nasce solamente dal rigore morale!

Ho nell’animo un rospo di cui, prima o poi, devo liberarmi; già parlandone, mi pare di togliermi un peso e di dare un contributo per bonificare un settore importante della vita del nostro Paese. Anche durante l’ultimo sciopero generale promosso dalla CIGL, alla vista di certe sequenze e alle dichiarazioni di certi scioperanti, questo “rospo” ha ricominciato a muoversi e a darmi noia.

Sia ben chiaro che io soffro veramente al pensiero che una moltitudine di operai debba vivere con mille, milleduecento euro al mese; non so proprio come facciano a sbarcare il lunario e perciò sono con loro senza riserve di sorta. Le disuguaglianze di remunerazione sono veramente abissali e “gridano vendetta al cospetto di Dio”, a cominciare dagli stipendi dei parlamentari, dei dirigenti della Regione, dei dipendenti del Quirinale, dei magistrati e di certi liberi professionisti, commercianti, artigiani e via dicendo. Detto questo, però, non riesco ad accettare certi comportamenti da sfaticati, da fannulloni o anche da dipendenti per niente interessati all’efficienza e alla prosperità dell’azienda in cui lavorano.

Certi slogan di gente che pensa che il benessere debba essere il risultato che viene dall’alto e non dall’impegno di tutti, dal primo dirigente all’ultimo facchino, mi deludono ed irritano più che mai. Diritti e doveri per me devono essere come dei fratelli siamesi. Credo che in questa diseducazione di comodo i sindacati, o certi sindacati, abbiano delle grosse colpe sulla coscienza.

Non riesco a tollerare che i dipendenti, di qualsiasi livello e con qualsiasi mansione, non facciano con entusiasmo, con onestà e con spirito di sacrificio il loro dovere e non si impegnino per l’efficienza e il conseguimento di buoni risultati dell’azienda in cui operano.

Sarà perché io provengo da una piccola azienda artigiana, per cui mio padre, prima, e mio fratello poi, non hanno mai conosciuto orari di chiusura, mansionario, riposi ordinari e straordinari, e spesso anche ferie. E’ una mia profonda convinzione che i “lavoratori”, siano essi operai, manovali, preti o impiegati, debbano operare come se l’azienda in cui lavorano sia di loro proprietà.

Il benessere proprio e quello comune nasce solamente dal rigore morale e dal sudore della fronte, non dagli slogan o dal codice dei diritti del lavoratore.

Sarò anche un “anticontestatore”, ma questa è la mia convinzione e se sono riuscito a far qualcosa nella mia vita, lo debbo solamente a questa dottrina e a questa prassi di vita.

Cerco un dialogo sempre più fitto con i “nuovi fratelli di fede”

“L’incontro”, pur stampato in quasi cinquemila copie settimanali, pare non abbia ancora un bacino di utenza così vasto da suscitare reazioni che spingano a mandare “lettere al direttore” di consenso o di dissenso, come avviene per i periodici di tiratura nazionale. Può anche darsi che le argomentazioni e le opinioni del periodico non siano così consistenti da pungolare “amici” e “nemici” a reagire con critiche positive o negative.

Però settimanalmente, o per iscritto o per e-mail arrivano sempre due o tre missive sulle problematiche trattate.

Io ho l’impressione di “giocare in casa” e perciò raramente credo che il periodico abbia lettori su posizioni ideali contrapposte. A me, in verità, piacerebbe tanto avere un dialogo più vivace e numeroso col pubblico perché da sempre sono convinto che il dialogo, ma pure la critica, sono un dono piuttosto che una scocciatura.

Più di una volta ho manifestato l’idea che, specie nel mondo ecclesiale, i superiori in gerarchia sono privati del “dono della critica”, per cui arrischiano di vivere isolati e di fare discorsi che passano sopra i capelli degli uomini del nostro tempo, pericolo che arrischia di correre anche questo povero diavolo di vecchio prete come me.

Qualche settimana fa un concittadino mi ha scritto plaudendo al mio editoriale a favore di Comisso, un concittadino benemerito che ha trasformato “l’asilo notturno” in una comunità di uomini. M’ha fatto veramente piacere che un giovane professionista, il prof. Mirto Andrighetti, mi comunicasse il suo pieno consenso alla mia affermazione che oggi stanno aumentando gli uomini che si dichiarano non credenti ma che in pratica amano, servono e pregano il Signore attraverso il loro impegno sociale a favore di chi soffre ed è in difficoltà.

In verità mi sto appassionando a conoscere, dialogare e stringere rapporti costruttivi con questa “Chiesa” e con questi “uomini di fede” che, pur senza riti e senza formule, “cantano la gloria del Signore”.

Questi “nuovi fratelli di fede” mi sono ogni giorno più cari e sono sempre più edificato delle loro scelte e delle loro opere.

L’insegnamento di Papa Wojtyla

Papa Wojtyla s’è imposto all’attenzione del mondo durante i suoi 23 anni di pontificato. Il fascino della sua figura così virile e forte e della personalità così viva e poliedrica, la sua maniera di esercitare l’attività apostolica così innovativa, hanno avuto un forte impatto sulla sensibilità e sulla coscienza del mondo intero.

Non s’era mai visto un Papa che fosse riuscito ad influenzare la grande politica internazionale, a galvanizzare moltitudini di giovani, a girare il mondo in lungo e in largo parlando di Cristo e del suo messaggio a nazioni con regimi favorevoli ed altri decisamente contrari.

Questo è il “miracolo” di un Papa convinto di avere l’annuncio più valido per l’umanità e più che convinto che pure all’uomo d’oggi sono assolutamente necessari i valori che la Chiesa può offrire.

Ora poi che Papa Giovanni Paolo II è morto, s’impone all’attenzione di credenti e non credenti più che da vivo. Oggi Papa Wojtyla è diventato un mito, un pontefice che fa sognare e che dona coraggio e speranza anche per ciò che sembra impossibile.

In questi giorni sono quasi costretto ad indagare, o volerci vedere più chiaro, sull’umanesimo di questo Papa; sto tentando di armonizzare e quasi di ricucire la vita di un Papa che s’è fatto costruire una piscina in Vaticano, che più di una volta è andato a sciare sull’Adamello, che usciva in incognito spesso per passare qualche ora con gli amici, a cantare attorno al fuoco, mentre cuocevano le braciole, che si dava del tu con l’amico presidente Pertini, socialista ed ateo dichiarato, e nel contempo aveva una vita profondamente mistica.

Sto leggendo il volume scritto da chi ha certificato la santità che l’ha portato agli onori degli altari e che documenta come Wojtyla fosse un asceta che passava ore e notti in contemplazione, disteso sul nudo pavimento.

Queste “contraddizioni”, tali almeno ai miei occhi, hanno prodotto come risultante un’umanità non solo accettata, ma della quale la gente del nostro tempo è incantata e che fa accorrere a Roma milioni di persone per vedere la sua bara ed attingere speranza dal suo ricordo.

La mia prima conclusione è che l’uomo debba saper coniugare il corpo e l’anima, la carne e lo spirito, senza mai trascurare o appiattire l’una o l’altro.

Onore agli sconosciuti uomini per bene che sorreggono questa nostra traballante società

Molti mesi fa argomentando contro la faziosità dei sindacati all’interno di non so più quale fabbrica, dissi che spesso ci sono certe frange che fanno un gran rumore, ma che in realtà rappresentano minoranze da un punto di vista numerico pressoché insignificanti. Per rafforzare questa tesi addussi l’esempio di quella marcia torinese che è passata alla storia come la marcia della maggioranza silenziosa. Non l’avessi mai fatto! Uno di quei lettori che sanno tutto, mi scrisse obiettando che le componenti di “suddetta maggioranza silenziosa” erano formate da impiegati, funzionari, “quadri” e dirigenti che non avevano quasi nulla a che fare con i problemi per i quali gli operai appartenenti alla Fiom erano in agitazione perpetua.

Può darsi che il mio interlocutore, nel caso specifico, avesse ragione, comunque io, una volta ancora, rimango del parere della arcinota abusata sentenza che “fa più rumore un ramo che cade di un’intera foresta che cresce”. A guardar bene, le pagine dei giornali e gli schermi televisivi sono pieni di pochi bellimbusti che alla fin fine sono sempre quelli.

Ora, che il mio “mestiere” è soprattutto quello di far funerali, quando mi informo presso i famigliari sulla vita e le vicende dei concittadini ai quali mi si chiede di dare l’ultimo saluto, quasi sempre mi riferiscono delle virtù, della generosità, della disponibilità della stragrande maggioranza di queste creature.

A pensar bene la nostra società si regge solamente perché una moltitudine di “militi ignoti” si impegnano, lavorano e si sacrificano in silenzio e senza suonare la tromba della pubblicità. Sento il sacrosanto dovere di rendere onore a questa “maggioranza silenziosa” di cittadini probi, onesti e generosi che osservano le leggi, lavorano e si sacrificano per tutti.

Talvolta spero che arrivi qualcuno che riesca a dar voce, ad organizzare questa moltitudine di onesti dei quali quasi nessuno parla, mentre con il loro sudore e il loro buon senso tengono ancora in piedi questa traballante società.

Spesso mi ritrovo a pregare con le parole di don Zeno Saltini, il fondatore di Nomadelfia: “angeli dalle trombe d’argento, voi che conoscete i nomi, il domicilio e il numero di telefono degli uomini di buona volontà, suonate l’accolta di questi uomini per bene, perché si riuniscano per dare un volto migliore al nostro mondo!”.

Basta guerra, basta massacri, basta distruzioni, basta morte!

Al momento in cui confido i miei pensieri al foglio bianco del mio diario, non so ancora come andrà a finire la diatriba tra Bossi e Berlusconi per i bombardamenti sulla Libia.

Io sono assolutamente con Bossi. Mi fanno tristezza i drammi e i problemi di Napolitano che, in maniera non nuova, ha affermato che “L’Italia non può rimanere indifferente agli aneliti alla libertà e alla democrazia dei Paesi dell’Africa settentrionale”. Mi domando perché allora rimane indifferente al bisogno di libertà dei cinesi, dei cubani e di tantissimi altri popoli oppressi da dittature più o meno violente.

Ogni volta che vedo una casa squarciata dalle bombe, un padre colpito per strada, dei bombardieri che costano un patrimonio sganciare bombe e missili a volontà, provo ira e ribrezzo verso quella gente cinica e spietata che, per motivi certamente poco nobili, manda a morire per niente, sperpera ricchezze infinite per distruggere, ammazzare e colpire.

Credo che tutti siano d’accordo che Gheddafi è un istrione, un personaggio senza scrupoli e un despota come tanti altri, ma i mandanti in “guanti di velluto” di queste “ribellioni” e di queste stragi sono forse da meno? E chi vorrebbe andare al posto di Gheddafi possiamo pensare che sia un “angelo” disceso dal cielo?

Ho l’impressione che la Francia in generale, Sarkozy in particolare e chi s’è accodato a loro, non siano così “candidi” da avere a cuore la libertà di un Paese che, guarda caso, è ricco di petrolio.

In questa triste e squallida vicenda non riesco proprio a capire perché l’Italia abbia accettato il ruolo di “comodo idiota”: per danneggiare le nostre imprese che lavoravano in Libia e favorire l’avidità d’oltralpe?

Comunque, qualsiasi siano le motivazioni e gli obiettivi che hanno spinto l’intervento in Libia, grido con quanta voce ho in corpo: «Basta guerra, basta massacri, basta distruzioni, basta morte!» Preferisco la Libia con un governante istrione ed illiberale, che una Libia ridotta ad un cimitero ad opera di nazioni che hanno ancora la spudoratezza di dirsi civili e cristiane!

Un parere che conta davvero

Nonostante i ripetuti interventi della curia e dello stesso Patriarca, la stampa locale ha pubblicato, seppur in tono discreto, qualche mugugno per le spese eccessive, per l’accoglienza del Papa a Venezia. La diocesi ha ripetuto a chiare lettere che queste spese non sono state sostenute dagli enti pubblici, ma dalla generosità dei fedeli che hanno voluto accogliere in maniera degna il Sommo Pontefice.

Però, ai tempi di Roma, si diceva un po’ ipocritamente, che il popolo aveva lo “ius murmorandi”, il diritto di criticare. Oggi questo presunto diritto ha raggiunto vertici esponenziali, si critica su tutto e su tutti e Venezia non è immune da questa “malattia”.

Non si voleva il Mose, nonostante la città vada sott’acqua venti, trenta volte all’anno; ora non si vuole la Tav, l’Orlanda bis, nonostante Campalto abbia protestato mille volte per il traffico; non si vuole il nuovo carcere; non si vuole il centro per gli immigrati, non si vuole la Castellana bis…. Pare che ormai si voglia solo quello che non è possibile o che porti solo danni e disagi ad altri!

L’autorità è fragile, per cui c’è un ristagno ed un immobilismo, nella vita veneziana, che paralizza ogni innovazione ed ogni iniziativa.

Fortunatamente il Patriarca, da buon lombardo, ha tirato dritto e s’è imposto perché la Chiesa di Venezia e del Veneto accogliesse con dignità e calore il Santo Padre che stanco, fragile e curvo, porta le chiavi pesanti di San Pietro.

Credo che questa linea di fermezza, anche se non condivisa da quella frangia fisiologicamente dissenziente, trovi riscontri positivi tra la gente. Circa trecentomila fedeli (così diceva l’informazione) si sono sobbarcati molti disagi pur di poter applaudire il Santo Padre e pregare con lui per questa nostra povera società.

Qualche giorno prima del grande evento, la signora Pedrocco, moglie di un piccolo imprenditore del marmo, che ha l’azienda in via del cimitero, è venuta in chiesa a farmi un’offerta perché è stato richiesto a suo marito di fornire la lastra di marmo per l’altare. «Pensi, don Armando, a noi è toccato l’onore di offrire il marmo dell’altare in cui il Papa dirà la messa!»

Questa cara ragazza, non nuova alla generosità, era letteralmente trasfigurata! Questo è il parere che conta, altro che i malcontenti di sistema!

Il volontariato sta perdendo la bussola?

Molti anni fa la San Vincenzo cittadina, della quale ero assistente, invitò un responsabile a livello nazionale di un organismo che si occupava del volontariato. Non ricordo il nome di questo signore, mentre ricordo bene l’angolatura cristiana con cui affrontò il problema del volontariato, l’entusiasmo con cui parlò di questo argomento.

Ricordo pure un’osservazione che mi fece molto piacere e che ora sarebbe valutata come “il legittimo orgoglio padano”. Disse infatti, quell’animatore a livello sociale, che il Veneto era il fiore all’occhiello del volontariato per il numero degli aderenti e per il largo ventaglio di attività sociali che affrontava. Ricordo pure che affermò che all’interno di questo settore i volontari di matrice cristiana erano la stragrande maggioranza.

Ora temo che le cose non stiano più così, sia a livello numerico che, ancor più, per quello che riguarda i volontari di ispirazione religiosa.

Presso i magazzini del “don Vecchi” c’è un cartellone, fatto esporre dall’organizzazione para-comunale “Spazio Mestre Solidale” (organizzazione che ha lo sportello in via Olivi), in cui si possono leggere tutte le organizzazioni di volontariato operanti a Mestre e, con mia sorpresa ed amarezza, quelle che si dichiarano formalmente cristiane sono un’assoluta minoranza.

Ho l’impressione che ci sia nel settore qualche cedimento sia numerico che di stile. Talvolta si formano delle congreghe abbastanza chiuse in se stesse, poco disponibili al confronto e poco aperte alla crescita, allo sviluppo e all’aggiornamento. Io sono un sostenitore convinto che si deve fare il bene e che il bene va fatto bene, con apertura, con rispetto, con entusiasmo, senza interessi di sorta e con la volontà di far sempre meglio.

Qualche tempo fa sono stato casualmente presente ad un episodio che mi ha gelato il cuore. Una persona, forse con fatica, s’era decisa ad offrire la sua opera in una di queste associazioni. Ho avuto l’impressione che di primo acchito ci fosse un sordo rifiuto, quasi che lei venisse a turbare l’assetto del gruppo che viveva in un clima autoreferenziale, mentre fino ad un momento prima, e forse un momento dopo, si lagnavano perché erano in pochi e perché si domandava troppo, non pensando che il volontariato cristiano deve essere, prima di tutto e soprattutto, cristiano, quindi aperto, umile, disponibile, generoso, paziente e tollerante. Un volontario senza cuore, senza bontà e senza fraternità è solamente un manichino, non un fratello aperto alle attese degli altri fratelli.

La lettera di quel carcerato che ho pubblicato a Pasqua

Nel numero di Pasqua de “L’incontro” ho creduto giusto, dopo una seria riflessione, pubblicare la lettera che un ergastolano scrive a Gesù in occasione della Pasqua. Un certo signor Giancarlo Zilio, veneziano approdato in campagna, m’ha inviato questa “lettera” con il suggerimento di pubblicarla. Devo premettere che questo signore pare abbia scelto come apporto di solidarietà e di carità cristiana quello di tenere corrispondenza con i carcerati. Già in passato avevo conosciuto un vecchio parrocchiano di via Lorenzago, che corrispondeva con i carcerati.

Il mio parrocchiano di un tempo era un cristiano tutto d’un pezzo, sano, saggio, virile e sapiente, un cristiano senza fronzoli e con i piedi per terra, che mi confidava che quella povera gente che doveva marcire in cella per tutta la vita, poteva sentire conforto nel dialogare con qualcuno che li riteneva ancora uomini e soprattutto fratelli, nonostante essi fossero consci d’essersi macchiati di crimini esecrandi e pure fossero convinti di dover pagare i loro delitti.

Il mio parrocchiano mi metteva pure in guardia sulle difficoltà e sui pericoli di tale apostolato, perché non tutti gli ergastolani sono “santi”!

Ho pubblicato la lettera di quel carcerato pensando che Cristo ha patito, è morto e risorto, proprio per tutti, anche per chi è all’ergastolo. Quel sant’uomo di don Primo Mazzolari, in una predica della settimana santa, parlò del traditore di Gesù chiamandolo “il nostro fratello Giuda”. A maggior ragione può essere fratello chi è in carcere.

L’ho pure pubblicata perché ritengo che la nostra società sia profondamente ipocrita quando dice che il carcere deve “rieducare”, mentre in realtà esso diventa una “punizione” senza prospettive di redenzione, o perlomeno c’è poco sforzo per riconoscere nell’uomo che ha pur sbagliato, una persona, un figlio di Dio, e dargli la possibilità di vivere, di sperare e di redimersi.

Non è giunta reazione di sorta a quella pubblicazione. Però chi me l’ha inviata mi ha scritto per ringraziarmi e lamentandosi che il suo parroco – più giovane e più elegante di me – e poi “Il Gazzettino” e “L’Unità” avevano lasciato cadere l’invito.

In aggiunta una signora è andata un po’ oltre dicendo che anche Gesù, quando ha parlato, è stato messo in carcere, arrivando a concludere che chi vuole incontrare il Maestro, deve andare in carcere per trovarlo.

Forse queste conclusioni sono esagerate, anche se a pensarci bene anche Gesù ha affermato: «Ero in carcere e tu …?»

Conclusione: ogni problema dell’uomo deve interessarmi e coinvolgermi e quello del carcere, della giustizia e di tutto il resto non posso, non debbo e non voglio delegarlo solamente alla magistratura e alla politica. Dio, nel suo giudizio, chiederà anche a me: «Dov’è tuo fratello?».

Cristo è nella realtà della vita e del mondo

L’onda lunga del mistero pasquale non cessa di lambire la mia anima, seppure la celebrazione liturgica della Resurrezione sia abbastanza lontana. Penso che sia giusto che l’eco dell’alleluja di Pasqua canti nel cuore dei fedeli non solamente durante il sacro rito che fa memoria e rinnova l’annuncio, ma continui a cantare nel cuore di chi ha recepito la lieta notizia e sente il dovere di riportarla a chi ancora non è giunta.

Nella mia vita di prete e soprattutto nei miei sermoni non mi sono mai stancato di ripetere che il dono del Signore non può rimanere racchiuso nel breve tempo della celebrazione liturgica, ma anzi che questa celebrazione è quasi solo l’occasione e il mezzo per recuperare, rafforzare la lieta notizia e per rilanciarla per illuminare la vita quotidiana con questa verità che permette di leggere in modo nuovo o da un’angolatura che supera il contingente.

A proposito delle apparizioni di Gesù dopo la Resurrezione, il cui racconto la Chiesa ci fa leggere nei giorni e nelle settimane dopo Pasqua, quest’anno ho fatto un’altra piccola “scoperta” che mi ha prima incuriosito e poi fatto felice. Ho notato che i luoghi in cui Cristo si è manifestato, dopo la sua morte, ai suoi discepoli, non sono luoghi sacri, quali il tempio o la sinagoga, e le persone a cui s’è mostrato non sono degli “addetti ai lavori”, quali i sacerdoti o i leviti o semplicemente i farisei scrupolosi e pignoli, osservanti delle rubriche liturgiche, ma sempre luoghi “profani” e persone “laiche”.

Faccio alcuni esempi: alla Maddalena s’è fatto vedere in cimitero, ai discepoli di Emmaus prima per strada e poi in osteria, a Pietro e Giovanni mentre erano in barca a pescare, agli altri discepoli nel cenacolo, che in sostanza non era che una povera sala da pranzo.

Questa constatazione m’ha portato a pensare che bisogna che desacralizziamo i luoghi e i tempi normalmente dedicati all’incontro con Dio. A ben pensarci Gesù ha detto alla samaritana: «E’ giunto il tempo, ed è questo, che Dio non si adora in questo o quel luogo, ma i veri adoratori lo adorano in spirito e verità».

Un tempo m’è parso di dover mettere in guardia dal “magico”, ora mi vien da pensare che dobbiamo accostarci anche al “sacro” con una certa cautela, mentre tutta la realtà della vita e del mondo diventa un autentico ostensorio di Cristo.

L’incontro con il Risorto

Io penso di avere la coscienza “a scoppio” ritardato. I grandi misteri della fede mi colpiscono come una folgore di primo impatto, quasi mi stordiscono e mi accecano e poi pian piano emergono i filoni di grazia e nello stesso tempo i problemi connessi con questi misteri.

Quest’anno, come è sempre avvenuto in passato, ho celebrato gioiosamente la Pasqua assieme alla mia splendida e meravigliosa comunità della Madonna della Consolazione, pur nella povertà della chiesa prefabbricata. C’era un tripudio di fiori, di canti corali e di profonda e calda spiritualità e fraternità.

Per la Pasqua, una volta ancora, mi sono inebriato della verità affascinante del trionfo della vita sulla morte e del bene sul male, ma nei giorni seguenti sono emersi, come sempre, problemi apparentemente incongruenti nei racconti della Resurrezione che il Vangelo ci tramanda: tutte realtà che io ho bisogno di assimilare pian piano, di ricomporre e innestare nella mia quotidianità.

Quest’anno m’hanno colpito le reazioni da parte di alcuni discepoli, molto vicini a Gesù, che di primo acchito non hanno riconosciuto il loro maestro dopo la sua morte. La Maddalena scambia il suo Gesù con un ortolano addetto al cimitero, i discepoli di Emmaus solo tardivamente e per il gesto rituale del rendimento di grazie s’accorgono che lo straniero incontrato per strada era il Nazzareno. Pietro e Giovanni non riconoscono, se non tardivamente e per la pesca sovrabbondante, che la persona sulla sponda del lago era il Redentore. Tommaso che quasi non si arrende neppure all’evidenza dei fatti!

Mi viene quindi da pensare che i testimoni del Risorto abbiano compreso con fatica che i personaggi “a loro ignoti” che hanno incontrato, avevano dentro di sé il pensiero, le parole e il cuore di Gesù, che perciò Egli era ancora vivo e presente in queste persone le quali, come disse Paolo “non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”, avevano l’animo pieno dello Spirito di Cristo.

Se questa ipotesi fosse vera, anch’io ed anche ogni creatura, pur venti secoli dopo, possiamo incontrare, e con una certa facilità, il Signore, presente negli uomini buoni che la pensano ed agiscono come Cristo ci ha insegnato e perciò posso incontrare in essi il Risorto.

Non so se questa tesi teologica possa trovare spazio nei sacri testi, comunque a me fa molto bene incontrare “il Risorto” ad ogni angolo di strada senza dover andare a Lourdes o a Medjugorie.

Giovani, Chiesa e precetti

Occupandomi de “L’incontro”, capisco il meccanismo con cui nascono e si formano i periodici minori del circuito religioso. I responsabili di questi periodici si leggono a vicenda e quando “si scopre” un argomento reputato interessante, non dico che ci si copia, ma comunque, giustamente, si rilancia quell’argomento sul proprio bacino d’utenti.

Ultimamente mi è capitato di leggere, ora su uno ora su un altro periodico della stampa di ispirazione religiosa, dei commenti su un’inchiesta, che dicono sia stata condotta con serietà ed in maniera scientifica da un sociologo di fama in questo settore. Si tratta di Alessandro Castegnaro al quale qualche anno fa il nostro Patriarca ha commissionato una inchiesta sui praticanti al precetto festivo nella nostra diocesi.

Il Patriarca volle iniziare la sua visita pastorale, che ora sta concludendo, avendo a disposizione alcuni dati obiettivi e non solo l’impressione che la folla che ogni prete, forse con grande sforzo, tenta di raccogliere in occasione della visita del vescovo.

Credo che la scelta del nostro cardinale sia stata saggia, perché mentre dall’inchiesta è risultato che certe parrocchie non superavano il 10-12 per cento di praticanti, a leggere i commenti di “Gente Veneta” è sembrato che il Patriarca sia passato di trionfo in trionfo e che le parrocchie della diocesi siano una più bella dell’altra.

Il recente sondaggio, al quale la stampa locale, e non solo, ha dato tanta pubblicità, verteva sulla religiosità dei giovani. L’analisi risulta complessa ed articolata, ma il dato che mi ha colpito è che le nuove generazioni, che risultano logicamente più influenzate dal secolarismo e dall’indifferenza religiosa, non rifiutano in modo pregiudiziale il fatto religioso, ma contestano decisamente tutta l’impalcatura precettistica mediante cui oggi è espresso. In una parola i giovani ricercano dalla religione più valori e meno precetti. Mentre in realtà attualmente la Chiesa veneta è ancora condizionata da tutta una architettura di pratiche che sopravvivono, magari malconce, e che sono ormai aride ed ininfluenti sulla vita.

Credo che queste conclusioni ci debbano far pensare e, almeno per quanto mi riguarda, sono più che deciso a tenerne conto.

Una tradizione che è opportuno mantenere!

Io sono un ammiratore di Giovannino Guareschi e sono convinto che egli sia un narratore piacevole, arguto e, tutto sommato, saggio. Le vicende umane di Guareschi, legate, sia a livello letterario che a quello esistenziale, ad un periodo ben determinato della storia irrequieta e passionale del nostro dopoguerra, non tutte sono valide e brillanti, comunque sono convinto che gli siamo debitori di qualcosa che vale la pena raccogliere.

C’è una pagina, che spesso ho citato, in cui il narratore della “bassa” fa recitare al figlioletto di Peppone una poesia di Natale. Al che il sindaco rosso mostra di indignarsi perché don Camillo gli rovinava con soluzioni reazionarie la coscienza proletaria del figlio. In realtà, fuori dagli occhi indiscreti del pubblico, Peppone porta il figlio tra i filari delle viti e lo costringe a recitare dieci volte la poesia, concludendo “anche quando il proletariato sarà al potere dovranno rimanere le poesie!”

Il giorno di san Marco mi sono ispirato a “questo santo, padre della miglior tradizione” e di buon mattino ho regalato la rosa col fiocchetto rosso a mia sorella Rachele, vedova da poco tempo, a suor Michela e suor Teresa. E poi, come faccio ogni anno, a due donne alle quali penso che nessuno faccia un complimento ed un gesto di tenerezza: alla Maria, una ultraottantenne un po’ selvaggia che piega migliaia di copie de “L’incontro” ogni settimana, e alla Lucia, la badante moldava di suor Michela.

La prima mi ha raggiunto nella sacrestia del cimitero, incapace come sempre di esternare i sentimenti più belli, confessandomi con gli occhi lucidi che nei suoi quasi novant’anni di vita soltanto un uomo le aveva donato la rosa per San Marco e questo era un prete! M’è stato facile capire che ero io e più facile ancora capire quanto felice fosse.

La seconda, una robusta moldava, lavoratrice generosa e indefessa, m’ha detto che le lacrime le sono scese grosse grosse lungo le gote.

Ho concluso che anche nella nostra società apatica, egoista e con pochi sentimenti, sarà comunque opportuno donare il bocciolo di rosa come facevano i nostri avi veneziani.