Ho piena coscienza di essere un poeta mancato, incapace di tradurre in parole e pensieri l’incanto del Creato e della vita.
Verso febbraio, marzo, mi sono sorpreso più volte a pregare il Signore che mi facesse dono di vivere ancora, almeno una volta, la nuova primavera che stentava a liberarsi dal gelo per sbocciare in tutta la sua bellezza.
Gli acciacchi che continuano a manifestarsi, gli equilibri sempre più instabili delle componenti del mio organismo mi facevano sentire tutta la precarietà dei miei ottant’anni compiuti da un pezzo. Desideravo ardentemente potermi inebriare una volta ancora dei colori tenui della bella stagione, del fiorire di tutte le piante, del tepore dolce del sole e dell’incanto della natura che si risveglia dal lungo sonno invernale e si veste di tutta la sua bellezza.
Il Signore mi ha accontentato e quest’anno ho vissuto la primavera con una curiosità, un’ebbrezza del tutto particolari, quasi mi sono inebriato di tanta soavità. I miei occhi curiosi hanno cercato di assaporare l’armonia e il colore di ogni fiore, hanno prima atteso e poi seguito il vestirsi degli alberi dal verde tenue e delicato e poi hanno gustato l’offerta che ognuno di essi fa del proprio fiore, uno diverso dall’altro.
In questi giorni sto ammirando l’esplosione di quel bianco panna tipico delle acacie, alberi possenti vestiti di queste lunghe e flessuose tuniche bianche, come vesti trapunte di mille e mille perle. La natura mi pare veramente una sinfonia di inaudita dolcezza, che si sviluppa con colori e fogge, con variazioni infinite di bellezza, dal fiorellino giallo o turchese del prato al fiorire di alberi possenti di grande respiro.
Come invidio il poverello d’Assisi che con la sua cetra ineffabile canta il sole radioso, l’acqua umile e preziosa e casta, le stelle colorite e belle, il foco “giocondo, robustoso e forte”. Io non riesco a tradurre in parole l’incanto di questa primavera che mi pare più bella del solito, che sento come un abbraccio caldo e profumato del buon Dio e che mi fa arrossire per non aver, nel mio lungo passato, apprezzato quanto sarebbe stato giusto e non aver ringraziato ed amato il Signore per quanto m’ha fatto vedere e sentire.