Che tristezza guardando quella parata!

Dato il mio stato di attuale seminfermità fisica, causato dalla caduta rovinosa di alcune settimane fa, e dal relativo busto metallico che sono costretto a portare, nella mattinata del 2 giugno, per ammazzare il tempo, mi sono concesso di vedere alla televisione la sfilata militare voluta fortemente da Napolitano per festeggiare ulteriormente i centocinquant’anni dell’unità d’Italia. Uno spettacolo, un autentico spettacolo di denaro pubblico sprecato in nome di una retorica patriottica d’altri tempi!

Mai avrei immaginato che l’Italia disponesse di tanti uomini in arme, di tanti mezzi bellici, di tante specialità e di tante divise e di tanti “eroi” con il petto carico di medaglie al valore!

Come spettacolo non è stato per nulla male, mi sono trovato a pensare alle divise dei soldati di Napoleone, o di quelli di re Franceschiello. Di divise ne sono sfilate di tutti i gusti, bella gioventù impettita – ragazzi e ragazze alla pari – gagliardi e gloriosi. Sciabole sguainate, ordini categorici gridati con decisione e movimenti dei soldati così ritmati che neanche le lancette di un orologio sarebbero più precise.

Ho pensato a quanti soldi sprecati, a quante energie e a quante giornate buttate via per niente. A che cosa può servire un esercito se non per ammazzare, distruggere e portare violenza?

Mentre si avvicendavano i vari corpi militari m’è venuto da pensare prima alla decisione saggia del Granducato di Lussemburgo che una decina di anni fa fa ha deciso di disfarsi dell’esercito mandando a rottamare carri armati e cannoni optando per un forte corpo di polizia per mantenere l’ordine pubblico e al dovere di usare la ragione per regolare i rapporti con gli altri Stati. Poi ho pensato ai volontari, che sono in assoluto i cittadini più nobili e meritevoli, ai quali lo Stato riserva il cinque per mille, collocandolo a suo piacimento e versandolo quando vuole, ma sempre in ritardo. Infine ai milioni di vecchi contadini ed operai che dopo quarant’anni di lavoro, che hanno prodotto non distruzione e morte ma ricchezza e benessere, che alla fine si ritrovano sempre meno di mille euro di pensione, quando non sono che solo cinquecento.

Tutto questo non poté farmi provare se non un sentimento di impotenza, desolazione e tristezza. Alla gente è certamente piaciuto lo spettacolo così variopinto ed inebriante. Neppure gli antichi romani erano nuovi a questi entusiasmi, è infatti nota l’amara sentenza “panem et circenses”, pancia piena e divertimento! Con questa massima però non nascerà mai un mondo migliore.

“Infelice chi confida nell’uomo, fortunato chi confida nel Signore!”

Fra poche settimane inaugureremo il “don Vecchi quattro” di Campalto, altri 64 alloggi per anziani poveri.

Questa non è assolutamente una novità per nessuno. Da tre anni a questa parte non faccio che parlarne a destra e a manca, tanto che questo progetto credo sia diventato il progetto di tutti i miei duecentomila concittadini.

Qualche giorno fa sono stato in cantiere. Mi è sembrato una torre di Babele, ma in positivo: muratori, pittori elettricisti, addetti all’ascensore, piastrellisti, una teoria infinita di fili, di barattoli di pittura, mucchi di piastrelle, alberi tagliati e ruspe per riordinare il terreno.

Agostino, il capomastro, tesseva sorridendo il filo di questa gran ragnatela di operai con competenza e serenità.

Presto il “don Vecchi” aprirà i battenti a quasi un altro centinaio di anziani che avranno una dimora dignitosa, sicura e soprattutto alla portata delle loro magre risorse.

Mentre osservavo con meraviglia questo “miracolo” non meno entusiasmante e sorprendente di quelli di Lourdes e di Medjugorie, mi sono chiesto: “Ma dove ho trovato quei tre milioni e mezzo, ossia quei sette miliardi di vecchie lire, che sono occorsi? Ciò è avvenuto nella stessa maniera di come la fede e le preghiere provocano i miracoli nei più grandi santuari del mondo nei quali il buon Dio o la Vergine elargiscono le loro grazie?

La risposta m’è venuta immediata e perentoria dalla Bibbia: “Infelice chi confida nell’uomo, fortunato chi confida nel Signore!”. Nei miei calcoli di previsione avevo fatto conto sull’aiuto del Comune, della Provincia, della Regione, della Fondazione della Cassa di Risparmio di Venezia, delle banche, dell’Associazione Industriali, tutte realtà alle quali mi sono presentato col cappello in mano per chiedere aiuto.

Molte di queste realtà non mi hanno neanche risposto e quelle poche che l’han fatto, hanno risposto picche. Ai miei amici la voglio fare questa confidenza: dal mio chiedere la carità per i vecchi, che in Italia sono ben cinque milioni e che vivono con la pensione sociale di 580 euro, solamente il Banco di San Marco ha risposto dandomi mille euro.

Dei tre milioni e mezzo di euro occorsi per il “don Vecchi quattro”, solamente mille euro sono giunti da quegli enti la cui prerogativa è lo sperpero! Le pietre del “don Vecchi” di Campalto, tutte le pietre sono dono dei cittadini più poveri della nostra città.

Sto preparando gli inviti per l’inaugurazione; mi viene tristezza e mi sento in colpa se mi rifaccio alla prassi di “invitare le autorità civili, militari e religiose”. Credo che sia giusto che mi rifaccia alla parabola del Vangelo “Invitate i poveri, gli storpi che stanno ai margini della strada, perché essi seggano al banchetto al posto di chi ha rifiutato l’invito”.

Addio a Fra’ Alfonso, il frate questuante, esempio di una Chiesa che rimpiango

Quando sono arrivato, giovane prete, nel 1956, a Mestre, le suore di San Paolo organizzavano banchetti davanti alla chiesa per promuovere la buona stampa e andavano pure, casa per casa, per proporre le loro edizioni e quelle di ispirazione religiosa. Altrettanto, e forse con più determinazione, facevano le Figlie della Chiesa.

A quel tempo la pastorale, ossia l’accostarsi alle anime, non era in posizione di conservazione e difesa com’è spesso oggi, ma gli operatori pastorali, preti, frati o suore che fossero, si impegnavano con iniziative e proposte magari umili ma costanti, mirate a “conquistare le anime”. Poi, pian piano, le suore di San Paolo si ridussero a far da commesse, non sempre “zelanti e brillanti”, nel loro negozio, prima in via Verdi, poi in via Poerio, infine chiesero completamente di andarsene via da Mestre. Le Figlie della Chiesa si ritirarono nel loro guscio di San Gerolamo accudendo a quella chiesa ridotta ormai a mezzo servizio.

Questi ripiegamenti su posizioni più arretrate sono ormai un fatto generalizzato, infatti sono scomparse le associazioni professionali dei maestri cattolici, dei laureati, della Fuci, degli imprenditori, dei preti di fabbrica, dell’associazione cattolica adulti, dei preti che visitano annualmente le famiglie…

Le azioni umili, concrete degli operatori pastorali sono state sostituite da discorsi complicati e da parole roboanti che, a mio modesto parere, macinano aria fritta.

Ho pensato a questo andamento qualche tempo fa, leggendo sul Gazzettino questo trafiletto.

Morto Fra’ Alfonso
Il frate questuante che aiutava i poveri.
Non vedremo più camminare per le calli veneziane, con l’immancabile sacco azzurro sulle spalle, fra’ Alfonso (al secolo Aldo Manfren), dell’ordine dei frati minori. Il frate questuante, per quarant’anni nel convento di San Francesco della Vigna, si è spento sabato nel convento-infermeria di Saccolongo, dove si trovava per le cure della malattia che l’aveva colpito quattro anni fa. Fra’ Alfonso, 74 anni, era nato a Treviso il 9 febbraio 1937. A Venezia era giunto nel 1967 e all’opera di questuante, ha affiancato le attività del patronato parrocchiale, degli Scout e dei chierichetti. Era molto amato dai ragazzi, dai quali si faceva però rispettare con regole rigorose, arrivando, per esempio, a sequestrare il pallone ai giocatori indisciplinati. Ma soprattutto girava per le case e le calli, per ognuno aveva una parola buona, un sorriso, una stretta fraterna di mano: la sua semplicità, la sua umiltà, la sua disponibilità l’hanno fatto un riferimento per tutti i veneziani. Una grandissima amicizia lo ha sempre unito ai Patriarchi.

Certamente il frate da cerca non salvava il mondo ma, a mio parere, era ancora segno di una Chiesa presente, dal respiro popolare, che si mescolava con la vita quotidiana degli uomini comuni. So che certuni giudicheranno questi miei pensieri un po’ romantici e nostalgici di un passato che ormai non c’è più. Forse questo è vero, però mi preoccupo perché il poco pare sia sostituito dal nulla, e questo non è esaltante.

Riuscire a cogliere il vero dono della vita

Qualcuno dei miei vecchi parrocchiani talvolta si ricorda del prete che per quasi mezzo secolo ha guidato la loro comunità e mi chiede di presenziare a qualche momento particolare che ricorda il loro passato. La cosa diventa di anno in anno sempre più rara, però avviene ancora.

Qualche settimana fa due miei odierni collaboratori, che sono stati pure parrocchiani di un tempo, m’hanno chiesto di celebrare le loro nozze d’oro. M’è sempre piaciuto celebrare i matrimoni, perché non c’è avvenimento o “miracolo” più bello che il vedere avanti a sé due giovani che si giurano amore per la vita e che partono per la loro avventura che sognano bella e felice.

La celebrazione delle nozze d’argento e, meglio ancora, quelle d’oro, è ancor più bella perché non si tratta di celebrare una speranza, ma una felice realtà. Chi fallisce nell’amore non viene di certo in chiesa per le nozze d’argento o d’oro.

Nel breve sermone mi rifeci allo schema ormai consolidato da molti anni di ministero, se mai adoperando qualche variante per il caso specifico. In quest’ultima occasione, temendo che la gente col passare del tempo pensi alla vita come ad una realtà del tutto scontata e che soprattutto non possa offrire con la maturità alcunché di interessante, raccontai loro una storiella proveniente dalla cultura dell’estremo oriente, storiella che fa bene pure a me:

“Un pescatore va a pescare sul Gange. Si siede sulla riva, lancia lontano la lenza ed aspetta paziente che il pesce abbocchi, facendo traballare il sughero. Purtroppo sembra che fosse la giornata no, il sughero rimaneva terribilmente immobile. Passa il tempo, il pescatore annoiato mette la mano per terra, trova un sassolino e lo butta in acqua, incuriosito dai centri concentrici che si formano con l’impatto del sasso con l’acqua e che poi si dissolvono leggermente. Per ammazzare il tempo continua nel suo giochetto innocente. Ma buttando l’ultimo sassolino si accorge di un certo brillio e, con sorpresa, vede che si tratta di una pietra preziosa. Da vero incosciente ha buttato via un tesoro!”

La morale venne perfino troppo facile, ma comunque vera: spesso buttiamo via giornate, occasioni, momenti veramente preziosi, non accorgendoci che mentre andiamo inseguendo la fata morgana della felicità perdiamo occasioni concrete per cogliere il vero dono della vita che è nascosto nell’apparente banalità dello scorrere dei giorni e degli anni della nostra esistenza. Questo capita non solamente per gli sposi attempati, ma per qualsiasi categoria di uomini e donne di ogni età.

La Fede deve coinvolgere i comportamenti e le scelte di vita!

Ci sono degli analisti superesperti che studiano il comportamento dell’uomo d’oggi. Nel mio curiosare sulla stampa, mi capita abbastanza di frequente, di imbattermi in studi, inchieste, tavole rotonde o seminari di studio sul modo di concepire il comportamento morale dell’uomo della nostra società.

Io leggo con attenzione questi studi sofisticati che passano sopra i miei capelli bianchi, ma sui quali non sono in grado di prendere posizione perché non riesco a dare un giudizio motivato e convinto. Anch’io però ho modo di notare gli aspetti più macroscopici del comportamento dell’uomo e soprattutto di chi si dice cristiano oggi. Ad esempio oggi ben difficilmente incontro persone che si pongano le grandi domande che a mio giudizio dovrebbero stare alla base del nostro vivere: “Da dove vengo, che cosa ci sto a fare al mondo, dove vado?”.

Mi pare che, generalmente, si viva alla giornata, rassegnati a prendere quello che capita e preoccupati di evitare il peggio! Oggi ben di rado avverto che la gente abbia una coscienza morale, ossia non riesca o non sia preoccupata di non aver capacità di distinguere il bene dal male.

Per moltissimi il male è solamente quello che fa soffrire o che, semplicemente, disturba. Forse è per questo motivo che i confessionali fanno le ragnatele, perché i fedeli non sanno più di che confessarsi. Oggi il dichiararsi credente pare sia un’affermazione determinata dalla tradizione della famiglia o dal non voler far fatica a motivare la propria fede o la propria incredulità. Oggi sembra che fede e morale siano quasi due rotaie che procedono all’infinito camminando ognuna per suo conto senza interferenze e senza incontrarsi mai.

Qualche domenica fa ho tentato di sottolineare ai miei fratelli di fede che celebrano con me l’Eucaristia, la frase precisa di Gesù: “chi mi ama, osserva i miei comandamenti”. Il connubio tra fede e scelte quotidiane a livello esistenziale deve essere come quello tra due fratelli siamesi. La fede che non influenzi la vita è solamente una pia illusione o un’affermazione di comodo, perché essa deve essere l’ago della bussola che indica il nord per ogni comportamento umano che abbraccia economia, politica, rapporti interpersonali, sentimenti, costume di vivere.

Ogni giorno di più mi accorgo che passare questa verità del Vangelo è quanto mai difficile, perché costringe ad andar controcorrente, ma d’altronde il nord è sempre dalla parte che il Vangelo indica.

La Biennale

Io non ci sono stato e non ci vado alla Biennale, benché si trovi a due passi da casa, perché cerco ciò che è bello, che educa e che propone qualcosa di positivo. Di porcherie purtroppo ne incontro ogni giorno senza dover pagare il biglietto dell’ACTV per andarle a vedere ai Giardini di sant’Elena.

Ho letto che Galan, il ministro della cultura, che fino a ieri s’era occupato dell’agricoltura, s’è detto ammirato. Sono certo che l’intellighenzia internazionale parlerà con interesse di questa mostra d’arte moderna. Prendo atto che, avendo abolito i manicomi, ora i matti si possono incontrare ovunque e pare che alla Biennale se ne sia riunito un gran numero, grazie ai soldi dello Stato italiano, estremamente prodigo per certi versi e pidocchioso ed avaro per certi altri – vedi le pensioni – capace di imporre i più svariati balzelli in nome della “cultura” e della emancipazione dei valori della tradizione.

Ho letto, qualche tempo fa, la “critica” della giornalista del Gazzettino Alda Vanzan. Questa cara signora, che io conosco bene perché era una mia parrocchiana fino a qualche anno fa, con fine ironia fa la critica, quella vera, non quella che normalmente s’intende con questo termine tecnico che vuol significare: interpretazione, scoperta dei valori dell’opera d’arte. Da persona sana, che proviene dalla gente del nostro retroterra, indica qualcuna delle stramberie assurde e blasfeme – nel vero senso della parola, perché profanano la natura ed insultano l’intelligenza – e con penna veloce, intinta talvolta nell’ironia e talaltra nel sarcasmo – irride le “opere d’arte” che si incontrano in questo percorso ma che, a mio parere, non ha nulla, proprio nulla a che fare con il bello, il vero, l’armonia.

Di stramberie alla Biennale ce ne sono sempre state, ma quest’anno s’è superata ogni misura. Dalla consegna del dépliant esplicativo, tutto bianco, senza neppure una lettera, al carro armato rovesciato con i cingoli che girano, ad una miriade di piccioni impagliati, alla chiesa con un coniglio sull’altare, alle centinaia di bastoncini per pulirsi le orecchie, all’artista che passa un rullo bianco di pittura su una parete già bianca, alla pornostar nuda che accompagna Sgarbi, ad un artista che rimane impalato per dieci ore per celebrare Garibaldi.

Dire manicomio è poco, troppo poco, ma è ancor più pazzesco che si siano accreditati 4300 giornalisti, che ministri, sindaco, vip e critici insigni si siano precipitati a visitarla e che siano stati spesi milioni di euro per questa porcheria. La pazzia dell’arte è cominciata con un caso singolo: la deturpazione della figura umana di Picasso, ma ora è diventata una pestilenza, per salvarsi dalla quale Venezia dovrebbe far voto di costruire un nuovo e più grande tempio alla Madonna della Salute mentale.

Il conto che l’Europa prima o poi potrebbe pagare

Qualche settimana fa ho pubblicato su “L’incontro” questo trafiletto che riporto di nuovo, perché traduce esattamente il mio pensiero e le mie preoccupazioni:

IL LAMENTO DEL GIOVANE PROFUGO
Ero povero, non avevo un tetto, non avevo affetto, non avevo scuola, non avevo pane. Ho dormito sui tuoi marciapiedi, come un animale. Ho sofferto la violenza della tua polizia. Ho conosciuto l’ingiustizia della tua giustizia. Sono sopravvissuto all’insufficienza della tua carità. Ho chiesto aiuto, mi hai dato disprezzo. Ho chiesto rispetto, mi hai offerto omissione. Se un giorno qualcuno più competente di te saprà guidarmi per sen­tieri storti e al posto d’un libro metterà un revolver nella mia mano, invece di un pallone mi darà un barattolo di colla da fiutare, invece dell’amore mi insegnerà l’odio come la soluzione. ALLORA se ci incontreremo in qualche posto probabilmente ti assalirò, proba­bilmente ti aggredirò, probabilmente ti ucciderò: MA NON RECLAMARE: quando io ancora non sapevo odiare tu non mi hai dato motivi per amarti.
Come si può lamentare della gramigna la mano irresponsabile che l’ha seminata?      p. Savio Corinaldesi

Il giorno dopo l’uscita de “L’incontro”, quando di buon mattino ho aperto, come sempre, la chiesa, ho trovato sotto il tabernacolo una busta con questa lettera che trascrivo.

Molto stimato don Armando,
fa riflettere il lamento di padre Corinaldesi, ove ci sono quasi dieci comandamenti a favore del malcapitato clandestino che laggiù era senza casa, senza lavoro. Però, secondo i giornali, alcuni hanno pagato anche 5000 euro per venire in Italia, clandestini senza lavoro, per dormire sui marciapiedi, come dice padre Savio. E’ tutta colpa nostra? Chissà se avete un po’ di spazio per la cronaca del Gazzettino del 5 giugno 2011 a pag. XVI, che riporta la cronaca di una seconda rapina a una signora di 67 anni di Favaro Veneto. Come da essa detto, con accento straniero.
Credo che chi legge “L’incontro” le sarebbe grato. Con stima,
Olivo
Mestre 5.6.11

Dato che mi trovavo solo soletto in chiesa accanto alla lampada rossa che testimonia la presenza di Cristo, di primo acchito m’è venuto da dire a Gesù: «Rispondi tu al signor Olivo, che certamente è un tuo discepolo», ma poi ho pensato che Cristo è troppo buono per rinfacciare l’egoismo ad un cristiano preoccupato solamente del suo benessere e che evidentemente se ne frega del trauma di esseri umani che, anche per colpa nostra e sua, stanno peggio di noi.

Poi ho deciso di ricordare al mio interlocutore che noi europei – ed anche Favaro fa parte dell’Europa – pur essendo una piccolissima parte degli uomini che abitano la terra, abbiamo arraffato e mangiamo la stragrande maggioranza dei beni della stessa.

Noi europei in genere, ed anche noi italiani in specie, abbiamo ridotto in schiavitù quei popoli, li abbiamo depredati della ricchezza del petrolio, li sfruttiamo con le nostre lobby commerciali, abbiamo insegnato loro la prepotenza, l’imbroglio, siamo stati cattivi maestri. Se ora questa gente ci pesa un po’, ma non troppo, non facciamo che pagare per le nostre malefatte passate e presenti.

Caro signor Olivo, io ho paura, proprio paura, che i popoli dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente, prima o poi si sveglino e ci presentino il conto del nostro egoismo e penso che non avrebbero tutti i torti.

Un umile suggerimento al Santo Padre

C’è una sentenza dell’antica Roma che potrei citare anche in latino, ma credo che sembrerebbe perfino ridicolo far sfoggio di una cultura che non posseggo; comunque la massima è questa: “ciabattino non occuparti di cose che non ti competono perché sono più grandi di te!”. Quindi, con estremo rispetto per l’autorità e la canizie del Sommo Pontefice, mi permetto, appunto per l’amore e il rispetto che gli porto, di fare una osservazione che spero il Patriarca, o qualcuno che ha dimestichezza col Vaticano, gli possa riferire.

Io so purtroppo, per esperienza lungamente sofferta, quanto sia difficile parlare, più difficile ancora parlare a gente numerosa ed eterogenea e so che è pressoché impossibile parlare delle cose di Dio. Avendo però il mandato di Cristo ed un messaggio meraviglioso ed essenziale per gli uomini del nostro tempo, bisogna parlare e parlare nella maniera più opportuna e maggiormente intelligibile possibile.

Il mondo intero dice che il nostro Papa è un teologo di prima grandezza, un vero pozzo di cultura e la sua missione lo costringe a prendere la parola da mattina a sera sugli argomenti più diversi e rivolta alle persone più eterogenee. Io ho ascoltato il Papa a San Giuliano, alla Salute, in Croazia e l’ascolto quasi ogni settimana in occasione dell’Angelus dal balcone del Vaticano. Legge sempre, anche quando dice due parole, legge con una voce monotona, flebile ed incerta, spesso è estremamente lungo e per di più dice anche le cose più sublimi in maniera prolissa e quasi scontata; mai uno scatto di passione, mai una parola forte e turgida di fervore. La gente applaude sempre, ma credo che lo applauda perché è Papa, ma non per quello che dice e per come lo dice.

Il Papa è vecchio, più vecchio di me, è tedesco, e quindi viene da un’altra cultura, ma possibile che qualcuno che gli vuol bene, che ha confidenza non gli possa dire: «Santità, butti via talvolta la carta, ci metta un po’ di passione o perlomeno si faccia scrivere i discorsi da qualche collaboratore più brillante, che adoperi immagini più incidenti, che tenti di far breccia sul cuore dell’uomo che oggi da mane a sera sente gente che parla perfino troppo bene per ingannare il prossimo»?

Dicono che non si nasce oratori, però la Parola del Signore e della verità meritano ed esigono il nostro massimo impegno!

Ora spero che qualcuno non mi fraintenda, che pensi che io voglia insegnare qualcosa al Papa; dico questo solamente per amore verso di Lui e verso chi l’ascolta. Vorrei avere semplicemente il cuore di Caterina da Siena quando scongiurò il Papa di tornare a Roma, perché questo era bene per la Chiesa. Temo però che le persone importanti, e tra queste lo stesso Papa, corrano il pericolo di rimanere soli, senza chi li aiuti a espletare bene il loro compito.

“Cari ragazzi…”

Lo scorrere dei giorni talvolta pare monotono e banale, mentre avendo occhi attenti si possono fare delle piccole o grandi scoperte che riempiono l’animo di meraviglia e di consolazione.

Nel mio minuscolo, ma confortevole alloggio, su un mobile di arte povera poggia una piccola cornice d’argento con le foto dei miei cento chierichetti di Carpenedo. Ogni volta che ci passo d’avanti butto uno sguardo furtivo ai miei bambini di un tempo ed una carezza leggera di dolce nostalgia si poggia nel mio animo.

Ogni tanto mi viene voglia di prendere in mano il ritratto per osservare uno ad uno quei volti belli e sorridenti che emergono dalle tunichette eleganti sulle quali s’appoggia la crocetta di legno.

I miei chierichetti erano una perla preziosa acquisita con tanta fatica e lasciata alla vecchia comunità come un tesoro prezioso.

I miei chierichetti bambine e bambini, rimangono sempre nel mio ricordo e nel mio cuore nello splendore della loro fanciullezza, non si sono sciupati, non sono cresciuti, ma nella foto incorniciata d’argento e nel mio animo incorniciati d’affetto e di nostalgia rimangono sempre belli, sempre innocenti.

Qualche giorno fa suor Teresa mi disse felice: “ho incontrato Piero Tositti, fa l’alpino ad Aosta ed è felice della sua scelta e della sua vita!”

Piero, “il pescatore”! Piero era un ragazzino mite, apparentemente silenzioso, ad un po’ introverso, in realtà era invece sornione ed intelligente.

Andava a pescare con suo padre che pure era stato uno scout dei miei tempi eroici di giovane prete.

Piero andava a pescare e poi, prima della Messa, veniva a raccontarmi che aveva preso più pesce di papà e quando poi la pescagione andava bene, univa il suo pesce a quello del padre ed orgoglioso me lo portava per i poveri come potesse sfamare un intero continente.

Piero il chierichetto, piccolo pescatore è ora un alpino che vive la sua cara giovinezza tra i monti della Val d’Aosta.

Mi sono commosso all’insorgere di questo caro ricordo e gli ho mandato subito un Ave Maria via email dello spirito.

Pensando a Piero il piccolo pescatore, ho pensato alla moltitudine di ragazzi e ragazze che ho incontrato sui banchi di scuola del Volta, delle magistrali, del Pacinotti, e alle commerciali, dei ragazzi scout, dell’azione cattolica, dei chierichetti e delle parrocchie in cui ho seminato fiducia e speranza per oltre mezzo secolo della mia vita, dai ragazzi con cui giocavo a pallone in campo Sant’Agnese ai Gesuati, nel continuo timore che arrivasse il “ghebi” (il vigile), ai ragazzi del patronato del Concordia ove c’era un grande campo sterrato mentre ora è tutto costruito, alle flotte di bambini che sembravano un vero sciame d’api o un formicaio mentre giocavano in patronato di via Manzoni in attesa di pigiarsi al Lux per il film della settimana.

Ogni tanto mi viene a galla qualcuno, e mi ricorda un passato intenso ed affollato di creaturine che sono cresciute all’ombra del campanile ed accanto alla lunga tonaca di un prete spilungone.

Qualche giorno fa appresi di una trattativa importante portata avanti da un dirigente dell’Enel, di cui il giornale faceva il nome e mi ricordai del ragazzino che i capi scout avevano destinato a fare da Gesù bambino in una ricostruzione della natività, questo piccolo per un po’ stette tutto rannicchiato nel cestone di paglia, ad un certo momento però ruppe l’incanto uscendo dalla sua scomoda culla!

Cari ragazzi della mia vita di prete, non so dove ora siete, cosa fate, ma sappiate che vi peso sempre con intenso affetto e che siete stati il conforto, la speranza e la gioia della mia vita!

Basta violenza!

Sarà forse l’imbragatura di acciaio in cui sono costretto a vivere che aumenta nel mio animo maggiormente il mio rifiuto assoluto della violenza e della sofferenza imposta all’uomo per i motivi più disparati.

In questi ultimi tempi sto pensando con raccapriccio ed orrore a come, dopo tanti secoli di storia, nonostante la filosofia delle religioni dell’estremo oriente, tutte tese alla non violenza e al rispetto della vita, quale l’induismo, e dopo duemila anni di storia cristiana per la quale è severamente riprovato perfino il pronunciare l’epiteto di “stolto”, ci siano nel mondo ancora tanta barbarie, tanta violenza, tortura, persecuzione e morte.

L’occidente, che si crede emancipato e civile, la Chiesa, che si ritiene apportatrice di fraternità e di amore, hanno ancora tanta strada da fare per potersi dire coerenti a queste belle e splendide verità.

Quando penso alla tortura, tranquillamente praticata non fino a ieri, ma fino ad oggi in Paesi cosiddetti cristiani, e quando penso alla “Santa Inquisizione”, alle guerre di religione e alle crociate, benedette ed auspicate non solo dagli umili fedeli, ma dalle più alte gerarchie ecclesiastiche e perfino dal Papa, mi vien da rabbrividire.

Papa Wojtyla ha chiesto perdono e qualche prelato ha perfino non condiviso e anzi criticato tale atto, mentre credo che dovremmo ogni giorno prostrarci di fronte alla storia e all’uomo per chiedere perdono per i peccati di ieri e quelli di oggi.

Bisogna che gridiamo con quanta voce abbiamo in petto e con quanta passione abbiamo nel cuore: “Basta guerre, basta violenza, basta tortura, basta pene fisiche, basta sbarre, basta sopraffazione, basta “giustizia” che non creda alla possibilità dell’uomo di redimersi, basta retorica del diritto, basta bugie per coprire l’egoismo, l’avidità, la sete di potere.

Da qualche tempo ho deciso di non sopprimere neppure una formica o una mosca molesta, perché mi pare d’aver capito che la violenza, comunque e per qualsiasi motivo esercitata, è il “vero peccato che grida vendetta al cospetto di Dio”. Mi auguro che questo rifiuto del male mi accompagni fino all’ultimo respiro della mia vita.

Il mio incidente

L’appisolarmi, come al solito, di fronte ad un programma televisivo per niente interessante, m’è stato galeotto! Un brusco risveglio, in cui non m’era chiaro se fosse mattina o sera, presto o tardi, m’ha fatto balzare in piedi perdendo l’equilibrio e andando miseramente a cadere tra il televisore e il termosifone. Con fatica mi sono rialzato tutto dolorante.

Prima una lastra e poi la tac m’hanno fornito la triste notizia della rottura di due vertebre. Il neurochirurgo ha ordinato, con sentenza inappellabile, che dovevo procurarmi un busto. Ormai da qualche settimana sono imbragato in una specie di armatura metallica che mi dà la sensazione di essere stato condannato alla tortura della “Vergine di Norimberga”, l’antico strumento di tortura in cui il condannato era costretto ad entrare in una sagoma d’acciaio costellata di aculei, sagoma che, una volta chiusa, trafiggeva da parte a parte il povero derelitto.

Ora per me alzarmi è uno strazio, vestirmi peggio, a camminare sembro un robot che si muove a scatti. Povero me! Le prospettive per le ferie estive, che comunque avrei passato a Mestre compiendo il mio ministero nella mia amata cattedrale tra i cipressi, sono ben tristi e desolate. Tento di consolarmi pensando che vi sono tanti cittadini che stanno peggio di me e che il disagio e il dolore forse purificheranno il mio spirito e renderanno più bella la mia anima, ma non sempre questi pensieri sono capaci di rendere più serene le mie giornate.

Fortunatamente, in occasione di questa mia impotenza, il buon Dio ha mandato dal suo Cielo i suoi angeli perché “non inciampi il mio piede”.

Questo incidente però ha anche i suoi risvolti positivi perché mi costringe a pensare ai miei coetanei che, a differenza di me, sono soli, senza soldi e senza aiuti. Tutto questo mi rende più deciso e caparbio nel voler portare avanti il progetto pilota, voluto dall’assessore regionale Sernagiotto, che intende, tramite il “don Vecchi”, provvedere a quegli anziani poveri e in perdita di autosufficienza, offrendo loro un servizio di accudienza.

Spero di saper affermare con la liturgia “Oh felice colpa, che ha aperto il mio spirito a comprendere l’animo di Dio”. Pensare ai poveri è da sempre un gran dono.

Il breviario, mia croce e delizia del mattino

Ho confidato più volte ai miei amici che per me il “breviario”, ossia la preghiera ufficiale che la Chiesa richiede ai suoi sacerdoti di recitare ogni giorno, rappresenta una “croce e delizia”.

Il breviario consiste in una miscellanea di salmi, inni e brani che raccolgono la riflessione dei padri della Chiesa e di scrittori ecclesiastici. Questa orazione pubblica fu pensata per i monaci che intervallavano la giornata di lavoro con questi momenti di preghiera. Il breviario, se recitato da una bella e numerosa comunità di monaci, rappresenta anche da un punto di vista estetico e mistico, un qualcosa di bello e di spirituale.

Io ricordo che ebbi modo di partecipare al coro di una grande comunità di monaci benedettini tedeschi del monastero di Marialac e fui molto impressionato dal canto gregoriano che saliva al cielo tra le volte di una bella chiesa gotica. La recitazione in latino dei salmi e di inni a cori alterni, da parte di queste voci virili, faceva diventare poesia e preghiera il tutto, tanto che il messaggio delle singole parole diventava pressoché insignificante, mentre la celebrazione liturgica, nel suo insieme, diventava veramente orazione sublime, anche se certe parole e pensieri rimanevano del tutto coperti dalla solennità della celebrazione.

Le cose sono ben diverse quando io, di buon mattino, devo cimentarmi in una lettura di testi provenienti da un modo di pensare sostanzialmente diverso dal mio, testi talora incomprensibili, talora talmente lontani dalla nostra sensibilità da apparire perfino contradditori allo spirito evangelico.

Spesso l’abitudine mi conduce per mano, tanto che mi rimane nel cuore solamente il desiderio di pregare e talvolta anche solo il dovere, però quando comincio a cimentarmi in una lettura più attenta, allora sono guai perché insorge il mio apparato razionale e critico che si inceppa ad ogni pié sospinto!

Questa preghiera d’obbligo mi diventa così faticosa, arida ed insignificante tanto che quando chiudo il breviario mi rifugio nelle preghiere imparate nella mia infanzia e queste mi aprono le porte dell’anima ad un rapporto più vero ed onesto col Signore.

Lo Spirito Santo è un grande dono!

Mi pare di avere imparato ormai da molto tempo che il Vangelo vada riletto, interpretato e vissuto in maniera dinamica. Purtroppo ci sono preti, laici e parrocchie che leggono il Vangelo con la stessa cadenza e lo stesso modo di interpretarlo con cui lo facevano, non dico i nostri nonni, ma anche i nostri trisavoli.

Troppi cristiani ripetono parole e gesti che praticamente finiscono per non dir più niente a nessuno. Ricordo un aneddoto di carattere militare che calza bene a questo proposito. Un capitano ordina ad un soldato di riverniciare una seggiola importante; per timore che qualcuno si sedesse sopra rovinando la pittura e i propri pantaloni, dato che di dipendenti ne aveva fin troppi, vi mise un piantone di guardia. Passò il tempo e in quella caserma si continuò a mettere un soldato di guardia alla sedia, finché qualcuno, più intelligente degli altri, si domandò che cosa ci stesse a fare quel militare accanto alla seggiola. Nessuno lo sapeva!

Qualche domenica fa ho riflettuto su queste cose in rapporto alla promessa di Gesù “Il Padre vi manderà il Paraclito, lo Spirito di verità, perché rimanga con voi per sempre. Egli rimarrà presso di voi e sarà con voi!” Mio fratello, don Roberto, con quel suo argomentare un po’ sbarazzino, ha commentato in proposito: «Il Paraclito? Rimane per la nostra gente “l’Illustre sconosciuto” e le persone più oneste si chiedono ancora: “Carneade, chi era costui?”».

L’iconografia religiosa, che raffigura lo Spirito Santo con l’immagine di una innocente e spaurita colombella, non ha aiutato molto alla comprensione della Terza Persona della Santissima Trinità. Tutto questo induce i fedeli ad ascoltare compunti e silenziosi questo discorso, però c’è molto da dubitare che per loro significhi qualcosa.

Io preferisco pensare il Paraclito come il vento, ora leggero, ora gagliardo, che accarezza, sferza e penetra tutti ed ovunque. Il Paraclito è il Signore onnipotente che tutto occupa e nel quale noi siamo e ci muoviamo e che manifesta l’amore, la verità e il bene attraverso la poliedrica ed infinita diversità di realtà che compongono il Creato.

Il Paraclito, lo Spirito di Dio, parla, annuncia, incoraggia, ammonisce, conforta, indica la strada, fornisce elementi per interpretare le problematiche della vita, mediante la coscienza, gli incontri, la cronaca, la natura, il dialogo con le creature di ogni ceto e gli avvenimenti. Non c’è momento della vita, situazione esistenziale in cui, se tu ti apri alla “verità” che lo Spirito ti offre, tu non possa sentirti sorretto, consigliato ed aiutato da Dio.

L’uomo vive in Dio come il pesce nell’acqua e gli uccelli nel cielo. Sentirti nel cuore di Dio che ti ama e che sempre ti sorregge, è veramente un dono meraviglioso.

Solidarietà a Mestre

Io sono arrivato a Mestre nel 1956 e a quel tempo la città era ancora un grosso agglomerato urbano, cresciuto in fretta a causa delle industrie di Marghera che avevano creato fabbriche e posti di lavoro.

Il conte Volpi, con una intuizione felice e con il suo coraggio di valido imprenditore, aveva intuito che sulla gronda della laguna, in stretto rapporto con l’Adriatico e con la centralità che era propria del territorio mestrino, avrebbero potuto prosperare le industrie delle quali l’intero Paese aveva bisogno.

L’intervento di Volpi ha salvato Venezia dalla miseria e dalla decadenza e, contemporaneamente, ha rivitalizzato l’interland che viveva solamente di una agricoltura frammentata e poco redditizia. Mestre però era rimasta sonnolenta e succube di Venezia a livello culturale e sociale. Monsignor Vecchi arrivò provvidenzialmente a Mestre nel momento più propizio per maturare questa crescita e seminò in maniera lucida ed intelligente nella Chiesa e nella città, il germe della consapevolezza di quello che era la vocazione naturale del vecchio borgo cresciuto troppo in fretta.

Questa semente germogliò subito ed in maniera gagliarda, ma i processi storici sono sempre relativamente lunghi e complessi, perciò la nostra città è ancora in una fase di sviluppo e di maturazione.

Su questo processo penso di ritornare in altra occasione, ma oggi sento il bisogno di mettere il dito su un aspetto di questo sviluppo ritardato. Lo faccio spinto sulla scia di una iniziativa del dottor De Faveri che, dopo aver superato la barriera corallina della burocrazia, è riuscito a restaurare, a sue spese, la vecchia cappellina del nostro cimitero voluto da Napoleone.

Mi sono chiesto come mai questo imprenditore dell’interland s’è determinato a questo intervento di carattere civico, mentre imprenditori, industriali, grossi commercianti di Mestre se ne sono stati inerti ed indifferenti di fronte al decadimento di questo umile, ma amato monumento della nostra città. Quello che di bello e di nuovo sta nascendo in Mestre lo dobbiamo alla civica amministrazione e quasi mai ad industriali ed imprenditori privati, pur danarosi! Mestre non ha ancora maturato una borghesia partecipe alle problematiche cittadine; essa rimane indifferente ai bisogni culturali e sociali della nostra gente e pare solamente preoccupata a far soldi!

Non conosco iniziativa, struttura o intervento in cui la classe benestante si sia fatto carico di qualsiasi istanza sociale. Questa è ancora una brutta toppa sul vestito buono della nostra città.

Il libro Cuore si arricchisce di nuovi racconti anche in questo nostro tempo

Non so proprio se gli attuali insegnanti delle elementari leggano o facciano leggere ai nostri ragazzini la raccolta di racconti del De Amicis contenuta nel libro Cuore.

Ai miei tempi il libro Cuore era una specie di Bibbia per i bambini della mia età. M’hanno fatto sognare i romanzi di Verne e di Salgari, m’ha colpito il bellissimo racconto dei Ragazzi della via Paal, ma il Cuore, con il suo sentimento e con quel suo pizzico di romanticismo, con cui presenta in maniera toccante gli umili protagonisti della vita semplice di tutti i giorni, mi ha sempre coinvolto, commosso e fatto del bene, tanto che i suoi personaggi sono rimasti per me delle icone splendide che m’hanno fatto conoscere il lato più bello e più pulito della vita.

Debbo anche confessare che come m’ha fatto enormemente bene l’intuizione di Mario Pomilio che afferma nel suo “Quinto Evangelio” che il testo sacro non è per nulla concluso ma cresce ogni giorno con quanto di bello e di positivo fiorisce nella nostra società, così sogno e sono felice quando scopro episodi e personaggi che aggiungano nuovi capitoli al volume di De Amicis.

Qualche settimana fa m’ha raggiunto in sagrestia una cara mamma che ogni giorno arriva al camposanto a “salutare” il suo figliolo morto tragicamente e poi viene a messa per pregare per i vivi e i defunti. Questa signora mi porse un involucro che conteneva una collana ed un bracciale d’oro dicendomi: «Sono i doni di mio figlio, io non li porterò più, glieli regalo perché lei faccia del bene». La voce le tremava e quando alzai lo sguardo sul suo volto vidi due perle lucenti che le uscivano dalle palpebre. L’abbracciai con tutto l’affetto che un prete ultraottantenne può offrire ad una creatura così bella e luminosa.

Volete che il gesto di questa donna del popolo non stia bene accanto al “piccolo scrivano fiorentino” o alla “maestrina” o alla “vedetta lombarda”?

Mi spiace di non avere una penna felice come quella di Edmondo De Amicis, per aggiungere questi episodi toccanti ai racconti di calda e vera umanità dello scrittore amato nella mia infanzia. Nel mio cuore però sono incise a carattere d’oro e credo siano le cose più preziose e care che io posseggo.