Come si fa a non vedere Dio nella bellezza e nell’armonia del creato?

Un mio coinquilino del “don Vecchi”, essendosi accorto che la mia vecchia Fiat Uno perdeva i pezzi, mi ha regalato una Punto usata ma in ottimo stato. Questa mia attuale vettura, tutta bianca, ha un aspetto dignitoso e non è neanche così vecchia da far collocare il suo nuovo proprietario nel passato dei tempi.

Alla relativa giovane età della vettura s’aggiunge il fatto che il proprietario precedente deve essere stato un maniaco dell’automobile. Il concessionario poi che ha mediato l’acquisto, un mio vecchio parrocchiano, mi ha quasi fatto arrossire di avere un’auto così bella e così nuova. Pensate che la mia Punto ha perfino la radio incorporata nel cruscotto, cosa che mai m’era capitata nelle auto precedenti che ho usato.

Spesso quando giro la chiave dell’accensione si accende pure automaticamente anche la radio. Quando ci sono le solite canzonette o quei programmi di intrattenimento banali e ciarlieri, chiudo. Quando però trasmettono notiziari o qualche programma che, per qualche verso, mi interessa, colgo due piccioni con una fava: percorro la strada “don Vecchi”-cimitero e ascolto anche qualcosa che arricchisce il mio spirito.

Qualche giorno fa fui attratto da una trasmissione il cui conduttore mi sembrava persino imbarazzato mentre cercava di attenuare l’irrompere aggressivo ed acido di un certo signor Odifreddi che ce l’aveva col Papa, con la religione e con Dio. Mai avevo saputo quanto fosse irriverente ed amaro questo signore che – seppi in seguito – è uno della pattuglietta degli atei militanti che in Italia, ultimamente, intervengono con uscite provocatorie, non ultima quella degli autobus genovesi con la scritta “Dio è morto!”.

Dopo la messa tornai a casa, un po’ turbato e contrariato perché non mi capita spesso di imbattermi in questa furia distruttiva di ogni valore. Quasi per respirare un’aria più sana e riconciliarmi l’animo guardando il creato, mi affacciai al mio piccolo terrazzino. Una signora l’anno scorso mi aveva donato una pianta grassa a forma di pallone, con delle spine micidiali; ebbene, durante la notte, erano sbocciati da quella palla verde, difesa da tanti aculei affilatissimi, sei fiori bianchi di una bellezza inimmaginabile, di un color latteo e di una delicatezza struggente, con una corolla di pistilli, uno dei quali, in ogni fiore, superava in altezza gli altri, quasi un’antenna tesa a cogliere un nonsoché.

Rimasi talmente colpito da tanta armonia e bellezza che usciva da quella palla verde, difesa da tante spine perché nessuno attentasse al suo splendore, che quasi istintivamente mi venne da dire a voce alta: «Ma dove vivi, caro signor Odifreddi? Non ti guardi mai attorno? Non hai ancora visto come il buon Dio si manifesta in ogni luogo ed in ogni momento attraverso la bellezza e l’armonia del creato? O sei cieco, caro signore, o altrimenti non puoi essere che matto! In ogni caso, vatti a curare!».

L’importanza di gridare “non sono d’accordo!”

Lo stile degli scritti che parlano di religione, peggio ancora se sono scritti spirituali che si rifanno all’ascetica o alla mistica, è quasi sempre mieloso. Pare che quando si parla delle cose che riguardano lo spirito, i toni debbano essere bassi o perlomeno smorzati, ben difficilmente si usano parole che esprimano posizioni decise. Sembra che mai si possano adoperare termini e concetti spigolosi, rigidi come d’acciaio, ma sempre si debba invece ricorrere al velluto nelle espressioni e, tanto più, nelle parole.

Questo costume, tanto comune e diffuso da non destare quasi più sorpresa, ha fatto si che qualche mattina fa, mentre leggevo un testo per la mia breve meditazione all’inizio del nuovo giorno, sia stato sorpreso e colpito da una parola e da un concetto che credo, d’ora in poi, almeno per quanto mi riguarda, inserirò nel mio pensiero e nel mio linguaggio.

La riflessione apparteneva ad un cristiano del sud Africa, il quale faceva notare come il coraggio di tanti giovani di colore avesse cambiato il volto e l’anima del suo Paese, così tristemente famoso per la discriminazione razziale, mentre ora è diventato, in occasione del campionato del mondo di calcio, il “padrone di casa” che ha ospitato i cittadini di tutto il mondo.

Questo fedele ringraziava di cuore il buon Dio per tutti i suoi connazionali che lungo gli ultimi secoli si erano opposti all’ingiustizia. Terminando col dire che il mondo avrà sempre bisogno di credenti che continuino a dire alle tenebre: “non sono d’accordo!”.

Il nostro mondo è quello che è, ha tanti difetti e limiti, ma nel corso dei secoli è pure cresciuto in umanità, basti pensare all’abolizione della schiavitù, all’emancipazione della donna, al diritto universale di voto, all’assistenza sociale … Tutto ciò è avvenuto non per merito di chi ha assistito passivamente all’ingiustizia e alla discriminazione sociale, di chi ha sempre chinato il capo e taciuto, di chi s’è sempre rassegnato, di chi per quieto vivere non è intervenuto, ma per merito di chi ha ribadito con le parole e soprattutto con i fatti: “non siamo d’accordo!”.

Questa mattina, chiuso il libro, ho ringraziato e pregato per quel coro infinito di persone che lungo i secoli hanno affermato “non siamo d’accordo!” ed ho chiesto al Signore che m’aiuti ad aggregarmi sempre ed in ogni circostanza a questo popolo di persone che manifestano pubblicamente il loro disaccordo con tutto ciò che non rispetta l’uomo; costi quello che costi!

Gli angeli di Mestre

Tanti anni fa, certamente più di mezzo secolo fa, ho letto un bel romanzo di Cronin, lo scrittore inglese dal racconto scorrevole e persuasivo, autore di “Anni verdi”, “La cittadella”, “Le chiavi del Regno”, “Le stelle stanno a guardare”, “L’albero di Giuda” ed altri dei quali non ricordo più il titolo.

Uno di questi romanzi aveva come titolo “Angeli nella notte” e raccontava il servizio generoso e caro che le infermiere svolgevano durante il giorno e soprattutto di notte negli ospedali. Durante la notte insonne degli ammalati, di frequente questi “angeli” vestiti di bianco s’accostavano per confortare, sorridere ed aiutare e portare la dolce e calda umanità dei loro cuori di donna.

Quante volte ho sperimentato personalmente, durante i miei numerosi ricoveri, la dolcezza e il conforto di queste care creature, sempre pazienti, pronte e disponibili, e quante volte ho ringraziato il buon Dio per questi “angeli della notte”!

In questo tempo di forzato “riposo”, dovuto alla mia caduta rovinosa, ho pensato che a questo mondo sono ancora numerose e provvidenziali queste creature senza nome che svolgono il loro servizio silenzioso in tutti i settori della nostra società.

Ad ottobre inaugureremo il “don Vecchi” di Campalto, io non posso permettermi la prodigalità del dottor Padovan della ULSS, il quale ha diviso un milione tra i dipendenti che hanno trasferito l’Umberto 1° nell’Ospedale dell’Angelo, però un segno lo voglio dare a quegli angeli ignoti della città che m’hanno offerto un aiuto determinante per la realizzazione della nuova struttura. Offrirò loro le “chiavi” della “città degli anziani”. Ho già provato le chiavi e preparato la pergamena con le motivazioni. Ho cominciato a buttar giù la lista dei nomi e subito mi sono accorto che questi “angeli” sono una “legione”. Sono costretto a fare una scelta come ha fatto l’italia dopo la grande guerra portando nell’Altare della Patria “il Milite ignoto”. Ma voglio che si sappia fin d’ora, se consegnerò fisicamente le chiavi ad una ventina di concittadini, che il mio gesto vuol manifestare riconoscenza ed amore a quella moltitudine – veramente una moltitudine – di persone che m’hanno aiutato a realizzare questo nuovo “miracolo” del costo di sette miliardi di vecchie lire.

Ogni persona a cui il Patriarca consegnerà le chiavi della “città degli anziani”, rappresenterà un numero sconfinato di altri cittadini che hanno operato per la realizzazione di quest’opera a favore dei nostri vecchi. Come mi commuove, mi fa felice il pensiero che Mestre possa contare ancora su questo popolo di “angeli” che fanno da contrappeso all’egoismo, all’indifferenza, alla furbizia di qualcuno che pensa solamente a se stesso e ai propri vantaggi.

Il modo di vivere di ieri e i “comandamenti” dei mass-media

Nota della Redazione: questa riflessione di don Armando va presa come tale e non applicata alla lettera e/o indiscriminatamente. Taluni cibi, se ingeriti dopo la data di scadenza, possono portare problemi e disturbi. La data di utilizzabilità di un alimento dopo la sua scadenza varia a seconda della natura dell’alimento stesso, dei conservanti in esso presenti, ecc. Raccomandiamo quindi prudenza, soprattutto nei confronti dei bambini e nelle situazioni di grande caldo.

Qualche settimana fa un mio amico che s’è assunto il compito di aprire nuovi punti di distribuzione de “L’incontro”, e perciò bazzica per negozi per piazzare il nostro periodico, tutto felice mi ha portato un cartone di alimenti scaduti “per i poveri”.

Sono tornato al “don Vecchi” sperando di far cosa grata offrendo questi alimenti – biscotti, caramelle, pizzette ed altro – ma per prime le donne di cucina alle quali ho mostrato il cartone di alimenti, dopo uno sguardo ed una rapida lettura della data, hanno liquidato il dono con una sentenza perentoria e definitiva: “Scaduti!” La sentenza era inappellabile e sono convinto che se mi fossi presentato a tutti i giudici, competenti o meno in materia, esistenti al “don Vecchi”, la risposta non sarebbe stata meno pronta e definitiva: “Scaduto!”, termine equivalente alla condanna “alla spazzatura!”

Non conosco la fine di quel cartone, ma se non è stato buttato con disprezzo nella pattumiera, di certo esso non ha potuto che finire da suor Angela, l’anziana religiosa che deve aver fatto voto di mangiare solamente avanzi e alimenti scaduti e, nonostante ciò, è viva, vegeta e instancabile con i suoi quasi novant’anni e il suo alimentarsi senza troppi pregiudizi. I mass-media sono veramente micidiali, hanno creato un’opinione pubblica talmente stupida e preconcetta per cui nessun comandamento di Dio e nessuna legge dell’uomo è così cogente ed osservata.

E’ morto solamente poco tempo fa il frate francescano che girava le calli veneziane con la bisaccia da cerca. Cosa pensiamo che raccogliesse se non pane vecchio che i frati e i poveri hanno mangiato da secoli pur morendo assai longevi?

Ogni volta che mi capita sottomano un articolo in cui si parla dello spreco di generi alimentari, lo pubblico senza pensarci un istante, ma quale incidenza può avere la mia povera voce di fronte ai mass-media che sono pagati per convincere a buttare per poter produrre ancora e di più!

Oggi s’arriva alla patente di stupidità di dare perfino una scadenza al pane. Il pane più diventa vecchio più diventa duro, e forse fa più bene perché se ne mangia meno! Quando ero bambino, andavo con il pentolino a prendere il latte appena munto e, non avendo frigorifero, specie d’estate, spesso andava a male. La mamma buttava via il siero che s’era formato e ci dava la “ricotta” con ciò ch’era rimasto. Nonostante ciò io ho ottantadue anni e i miei sei fratelli fortunatamente sono tutti vivi e vegeti.

So d’essere una voce “che grida nel deserto”, ma lasciatemi ripetere: “non lasciamoci troppo influenzare dal nuovo decalogo pubblicato su carta da parte dei mass-media al soldo di industriali avidi e furbastri. Sono ogni giorno più convinto che la nostra società potrà salvarsi solamente praticando il risparmio, la sobrietà di vita ed obbedendo all’ordine di Gesù che di alimenti ne poteva produrre a volontà e che invece prescrive ai suoi apostoli: “Raccogliete gli avanzi!”.

Quella caduta mi ha aperto gli occhi

I nostri vecchi, giustamente, ci hanno insegnato che ogni esperienza umana ha due facce, come ogni medaglia. Noi cogliamo per prima e di più la facciata che ci tocca più direttamente nella nostra sensibilità e siamo spesso tentati di trascurare l’altra facciata, quella in penombra, che consideriamo meno interessante, che però è parte integrante ed inscindibile della facciata più appariscente.

Tantissime volte la gente del quartiere, pensando che nel convento di clausura di via san Donà vivesse un folto gruppo di giovani donne chiuse nel loro chiostro ed intente solamente alla preghiera, mi facevano osservare: “Perché queste religiose, invece di starsene tutte chiuse nel loro convento salmodiando da mane a sera, non accudiscono agli ammalati, non si dedicano ad educare i bambini e a soccorrere i poveri?”

Confesso che queste osservazioni facevano un po’ di breccia anche nella mia coscienza. Io non sono mai stato un grande ammiratore delle mura, delle grate, delle tonacone delle suore, le figlie predilette di Dio. Le ho sempre sognate belle, luminose, giovani, avvenenti, operose e piene di entusiasmo. Capisco però che neanche le suore possono fermare l’orologio e il calendario del tempo!

Un giorno in cui con delicatezza riportavo questi discorsi alla priora del convento, ella gentilmente mi fece osservare che loro tentavano di testimoniare la facciata in penombra della medaglia della vita: il bisogno dell’uomo di stare in silenzio, di riflettere, di rapportarsi con l’assoluto. Capii che le monache di clausura non avevano tutti i torti nel fare quello che stavano facendo.

In questi ultimi tempi, in cui mi sono trovato imprigionato in un busto metallico per tenere in asse le due vertebre che mi sono rotte per una rovinosa ed inspiegabile caduta, di frequente ho pensato al discorso delle due facce della medaglia fattomi dalla suora di clausura.

Il primo pensiero è certamente banale e fanciullesco: “come facevano i soldati di ventura del Medioevo a rinchiudersi in quelle pesanti armature e a battersi pure col nemico usando degli spadoni quanto mai pesanti?” Questa però, convengo, è un’osservazione banale dell’altra facciata della medaglia offertami dalla mia caduta e dalla relativa prescrizione medica di portare il busto.

Però ben presto s’affacciò alla mia coscienza un’altra lettura che mi ha fatto pensare e perfino concludere che il mio guaio non è stato del tutto insignificante: “O felice caduta, che mi ha aperto gli occhi su una realtà che mi tocca da vicino”.

Al “don Vecchi” siamo circa 250 anziani con l’età media di 86 anni e le cadute e le relative rotture del femore sono all’ordine del giorno. Allora, osservando la seconda facciata della mia dolorosa caduta, mi sto chiedendo ogni momento: “come fanno i miei coetanei che sono soli, che non hanno soldi, ad affrontare i guai come il mio o peggio del mio?”. Soltanto quando si è “come loro” si può capire.

Conclusione: ho ringraziato il Signore della caduta perché mi ha aperto gli occhi ed ho fatto il proposito che mi impegnerò fino allo spasimo perché quando dovesse capitare ad un povero vecchio di avere questa amara esperienza abbia almeno a fianco chi gli dia una mano.

Ciò che ritengo essenziale

Non passano due o tre settimane che, per il dritto o il rovescio, nei miei sermoni non ritorni su un argomento che reputo essenziale.

Io sono convinto che la mia religiosità, ossia il culto che debbo a Dio e il mio seguire Gesù e il suo messaggio, consista in un’esperienza viva, attuale, che deve trovare costantemente motivazioni e sbocchi esistenziali sempre nuovi ed aderenti ai bisogni dell’uomo di oggi e soprattutto arricchenti per la mia vita e quella dei fratelli.

Questo discorso si oppone, almeno per certi versi, ad un modo alternativo di concepire e praticare “l’azione liturgica”, come si dice nel gergo degli addetti ai lavori. Ho l’impressione che per molti preti e per tantissimi cristiani il vivere la nostra religione si riduca spesso a dei riti che, nell’intenzione di chi li compie, dovrebbero commemorare fatti avvenuti duemila anni fa, quali sono gli eventi della vita e i discorsi di Cristo.

Nella migliore delle ipotesi per tanti cristiani i riti religiosi fanno memoria o, meglio ancora, diventano il memoriale – come si dice oggi – ossia rendono presenti eventi importanti che sono avvenuti tanto tempo fa. Così è per il Natale, la Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste.  Tutto questo avviene con la lettura del testo sacro che descrive l’evento, poi il sacerdote lo interpreta ed aiuta i cristiani a trarne le debite conclusioni per la loro vita personale e quella comunitaria.

Io credo di dovermi spingere un po’ oltre, essendo profondamente convinto che l’evento religioso sia un’esperienza personale e collettiva dei fedeli i quali, sulle direttrici di Dio offerteci dal Vangelo, instaurano un rapporto nuovo, originale e dimensionato sulla sensibilità, sulla cultura che viviamo oggi e qui. Motivo per cui, ad esempio, il mio vivere la Pentecoste quest’anno è diverso da quello vissuto lo scorso anno e da quello che il mio fratello di fede – sia egli inglese, keniota o nordamericano – ha sperimentato in questo stesso anno nella sua comunità cristiana d’Africa o d’Inghilterra. Solo così l’esperienza religiosa di ogni festa risulta un’esperienza che mi coinvolge totalmente, mentre altrimenti avrei timore che la mia presenza in chiesa corresse il pericolo di crearmi solo le emozioni date da una ricostruzione, per quanto ben fatta, dell’evento religioso, riducendomi a spettatore e non attore protagonista di questa esperienza religiosa che il buon Dio intende offrirmi per vivere una vita più piena e più autentica e che poi mi aiuterà a realizzarmi più compiutamente nella mia umanità nel tempo che mi è concesso di vivere.

Forse non riesco a esprimere fino in fondo quello che penso. Tento allora con due parole di dire ciò che ho suggerito ai fedeli della mia comunità il giorno della Pentecoste: «Oggi, come gli apostoli duemila anni fa, nonostante abbiamo incontrato mille volte Gesù, ci ritroviamo timidi, paurosi, incerti, quasi pesci fuor d’acqua in questo mondo, ma se la nostra preghiera sarà ardente e fiduciosa, il Signore di certo illuminerà i nostri cuori e darà coraggio alla nostra volontà, perché sappiamo uscire questa mattina da questa chiesa per testimoniare che Dio è con noi e giocarci tutti e fino in fondo sulla proposta di Cristo che avvertiamo essere l’unica valida e rispondente alle nostre attese profonde e a quelle degli uomini del nostro tempo».

Ho avuto la sensazione che uscendo di chiesa tutti fossimo più determinati di quando siamo entrati, a vivere da uomini illuminati e decisi.

Il mio impegno solidale è la mia preghiera

So in partenza che non riuscirò a passare all’opinione pubblica le motivazioni profonde che supportano il mio impegno a creare strutture e servizi per i poveri in generale e, in particolare per gli anziani indigenti. So pure che farò ben fatica a farmi comprendere anche dai cristiani praticanti e perfino dai miei colleghi sacerdoti. I giudizi in proposito che avverto nell’aria sono disparati, ma nessuno corrisponde alla realtà.

Qualcuno, in maniera sbrigativa, pensa che abbia “il male della pietra” e perciò costruisca strutture solamente per questo istinto, indipendentemente da ogni motivazione razionale. Qualche altro, con giudizio più severo, crede che io abbia la mania del protagonismo e perciò i “don Vecchi” siano nati per procurarmi gloria certa. Infine talaltro, più benevolo, approva l’operato pensando che io faccia un’azione di supplenza a quello che dovrebbe fare la pubblica amministrazione o, nella migliore delle ipotesi, che io intenda far da stimolo e da apripista alla società che tarda a farsi carico degli anziani e dei poveri in genere.

Può darsi che la mela che offro alla povera gente e alla mia città abbia nel suo interno qualche vermiciattolo del genere, però io non lo conosco e soprattutto non lo voglio.

Una volta per tutte voglio dichiarare pubblicamente che il mio impegno nel campo della carità cristiana o semplicemente della solidarietà, è per me una espressione coerente alla mia fede, un atto di culto a Dio, come potrebbe essere la celebrazione liturgica, quale una messa bassa o un pontificale. Il mio impegno solidale è semplicemente la mia preghiera e il culto che intendo rendere a Dio come altri preti fanno con la catechesi, la visita agli ammalati o la costruzione di una chiesa.

Qualche anno fa scrissi a proposito di un mio confratello che aveva promosso nella sua chiesa l’adorazione perpetua, che io preferivo invece onorare il Cristo non sotto le specie eucaristiche, ma sotto le “specie umane”, espresse dal povero, dal vecchio o semplicemente da chi ha bisogno, perché ho fatto la mia scelta in rapporto al discorso di Gesù: “Avevo fame, avevo sete, ero nudo, senza casa, in prigione ed in ospedale e tu m’hai o non mi hai dato aiuto”.

A me pareva che la mia scelta fosse coerente, pur nulla togliendo a chi sceglie di onorare Cristo sotto le specie del Pane consacrato.

Il mio confratello non mi comprese o io non mi sono spiegato, per cui sembrò che io criticassi la sua scelta, pur rimanendo vero che ero più convinto della validità della mia.

Per me dare serenità ed aiuto ai poveri, mediante qualsiasi soluzione, corrisponde all’adorazione, alla celebrazione dei sacramenti, alla catechesi o all’azione di evangelizzazione o a quella missionaria. Spero di non sbagliare, anche perché la mia scelta è ben più faticosa di quella di chi sceglie diversamente. Mi conforta però che l’opinione pubblica in genere comprende e favorisce più me che gli altri.

Un commiato senza rito religioso

Recentemente una delle mie “fedeli” che praticano la mia “cattedrale fra i cipressi”, mi confidò con infinita amarezza che era morto un suo congiunto, che pure io conoscevo, e che la moglie e la figlia, pur mie conoscenti, avevano disposto che fosse portato a seppellire senza rito religioso.

Questa notizia mi rattristò quanto mai, sia per il mio vecchio parrocchiano che ha lasciato questo mondo senza un saluto e senza una preghiera, sia per la moglie e la figlia – che, pur credenti, hanno ritenuto doveroso “rispettare” le scelte del loro caro – perché manterranno per tutta la vita la tristezza per questa partenza priva di calore umano, ma soprattutto di speranza.

A questo proposito ho due cose – almeno per me – importanti da dire. La prima: quando muore un famigliare scatta un meccanismo mentale tanto strano quanto assoluto: la volontà o i desideri, veri o presunti, del caro estinto, diventano un imperativo categorico per i suoi famigliari e perciò essi si sentono investiti dallo scrupolo di esaudire in maniera quasi maniacale tutto quello su cui, fino al giorno prima, avevano dissentito o trascurato ma che, chiusi gli occhi, diventa obbligo di coscienza su cui non è possibile alcuna deroga. Questo comportamento, quanto mai diffuso, mi sembra sinceramente irrazionale. Secondo – e qui il problema è ancora più serio – si ritengono, come oro colato e volontà, certe affermazioni fatte in vita, mentre esse sono assai spesso più formali di quanto non si possa credere.

Io ho frequentato e conosciuto personalmente questo fratello, che pur battezzato, comunicato, cresimato e sposato in chiesa, è passato direttamente dal letto di morte al forno crematorio, ho parlato tante volte con lui e credo di essere certo che è stato uno di quegli uomini che, come afferma sant’Agostino, “Dio possiede e la Chiesa non possiede”. Il mio vecchio parrocchiano anche con me si dichiarava non credente, però dell’ateo portava solamente l’etichetta esterna ed anche poco incollata, ma i contenuti di padre, marito, cittadino, lavoratore e sindacalista erano certamente cristiani; nella peggiore delle ipotesi era un cristiano senza saperlo, fortunatamente però per lui ben lo sapeva il Signore e perciò, funerali o meno, quando è arrivato lassù certamente il Signore lo ha accolto dicendogli: “Entra e facciamo festa perché eri lontano e sei tornato”.

Comunque, per buona sicurezza, in qualità di suo vecchio parroco, ho subito, con una preghiera pronta e convinta, chiesto al Signore: “Accoglilo, ti posso assicurare che era un buon diavolo”!

“La fede è bella, senza i ma, i chissà e i perché”

L’argomento non è nuovo, ma se non è nuovo è ancora ben presente nell’esistenza e nel pensare comune, sia dei poco o nulla credenti, come pure dei praticanti.

Gesù, in tutto il periodo che precede l’Ascensione e la venuta dello Spirito Santo nella Pentecoste, afferma più volte e in maniera nitida, che chi chiederà a Dio, nel suo nome, qualcosa di cui ritiene d’aver bisogno, sarà certamente esaudito. Tanti però, per esperienza personale, possono pensare che le cose non stiano così, perché hanno pregato eppure il Cielo è rimasto chiuso e in silenzio.

Ripeto che l’argomento non è nuovo, perché già sant’Agostino, che fu un santo onesto ed intelligente, sentì il bisogno di spiegare questo “rebus” che sembra smentire clamorosamente la promessa di Cristo. Ebbene, il grande e santo Vescovo di Ippona, figlio di santa Monica e convertito da sant’Ambrogio, afferma che quando avviene che non otteniamo ciò che chiediamo accoratamente a Dio, lo si deve – e qui adopera una frase latina concisa e facilmente memorizzabile – al fatto che siamo “mali” o perché chiediamo “mala”, o infine perché domandiamo “male”. Traduco: “mali” = siamo cattivi, in conflitto con Dio e quindi la nostra richiesta non merita risposta, “mala” = chiediamo cose non valide – solo Dio sa ciò che è veramente bene per noi, e infine “male” = chiediamo senza avere una fede sufficiente, ossia una fiducia totale nel Signore.

Da un punto di vista teorico pare che sant’Agostino abbia ragione, quindi nelle nostre richieste dobbiamo tener conto delle tre parole magiche: “mali, mala, male”. A me però rimane ancor più convincente una storiella che ho sentito e che spesso ho adoperato a proposito di questa questione.

In un certo paese di campagna una siccità prolungata stava letteralmente bruciando i raccolti. Allora, come si faceva anche nel mio paese natio, il parroco organizzò una funzione per chiedere la grazia della pioggia. A questo invito una ragazzina si presentò con un ombrello al braccio tra la sorpresa e la meraviglia dei suoi compaesani. «Non vedi che il sole picchia forte?» le chiesero. Al che la ragazzina, veramente credente, ribatté prontamente: «Ma non siamo venuti a chiedere al Signore la grazia della pioggia? Ho portato l’ombrello per non bagnarmi tornando a casa!» Talmente ella era convinta della risposta di Dio!

Mi viene in mente un pensiero di Trilussa, il famoso poeta che scriveva in romanesco: “La fede è bella, senza i ma, i chissà e i perché”.

Credere è fidarsi ciecamente di Dio, mentre le nostre richieste spesso, o quasi sempre, hanno il tarlo del dubbio.

Nozze d’argento nella “cattedrale fra i cipressi”

Ho celebrato le nozze d’argento di due miei giovani amici, durante la messa d’orario a cui partecipa la mia cara e bella comunità nella “cattedrale fra i cipressi” del camposanto.

Suor Teresa mi aveva accennato che queste due care persone intendevano chiedermi di celebrare il venticinquesimo di matrimonio. Le dissi che l’avrei fatto di buon grado.

La sposa la conosco fin da bambina, quando portava il fazzolettone scout, volevo bene ai suoi genitori ed avevo visto crescere in parrocchia i suoi due meravigliosi figlioli. Lo sposo poi è un ottimo professionista che vigila sulla produzione di potassio dell’unico mio vecchio rene che m’è rimasto dopo l’intervento dello scorso anno.

Già mi preparavo per la celebrazione nella bella ed intima cappella del “don Vecchi”. Sennonché qualche giorno fa me li vidi in chiesa ad annunciarmi che avrebbero voluto celebrare le loro nozze d’argento nella mia chiesa, assieme all’assemblea che ogni domenica la gremisce, per cogliere il battito del cuore di Dio, dei fratelli e degli amici in cielo. «Don Armando, abbiamo scelto una soluzione semplice, informale: qui abbiamo i nostri due papà e mia mamma – mi disse l’ancor giovane sposa – partecipiamo alla messa assieme alla comunità e poi faremo una visita alle tombe dei nostri morti. Vogliamo sentirci in famiglia, vicini ai nostri cari, come è avvenuto venticinque anni fa».

Come avrei potuto obiettare di fronte ad un discorso tanto umano, saggio ed anticonformista? L’eucaristia in cimitero è sempre tanto cara; sentiamo ogni domenica sempre più tra noi lo sguardo di Dio, la voce di Cristo e il respiro dei fratelli, tanto che ho la sensazione che questo appuntamento sia atteso con desiderio da tutti, infatti ogni domenica c’è qualcuno in più che si aggrega alla nostra cara comunità.

Questa domenica la presenza di questi due giovani amici, per le loro nozze d’argento, ha rotto un antico pregiudizio che tiene lontano tanta gente dai luoghi da cui sono partiti i propri cari per il cielo. D’ora in poi credo che nella nostra chiesa della Madonna della Consolazione potremo benissimo celebrare il fidanzamento, il matrimonio e tutti gli eventi belli ed amari della vita perché quando si avverte su di noi la paternità di Dio e l’affetto dei fratelli, quel luogo diventa il più propizio per ringraziare e lodare il Signore per quanto di bello ci ha donato.

Una truffa da Internet

Negli ultimi anni del mio servizio pastorale come parroco, avendo intuito come l’informatica l’avrebbe fatta da padrone nei rapporti umani, ho tentato di accostarmi al computer, nonostante la mia veneranda età. Alle prime difficoltà ho voluto illudermi che non avevo proprio tempo per addentrarmi nel linguaggio che la gente, ma soprattutto i giovani, usano comcomunemente. Allora rimandai la decisione per quando sarei andato in pensione, ma di fronte alle prime difficoltà, mi ingannai una seconda volta dicendo che avrei realizzato di più continuando ad usare la mia amata biro.

Da questi antefatti si capisce che la posta via internet, le e-mail e tutte le diavolerie del genere, portano il mio indirizzo, ma giungono nel computer di suor Teresa e lei sfoglia la “posta”.

Qualche giorno fa lei si è precipitata a casa mia con un foglio in mano appena stampato nel suo computer, ma a me indirizzato: «Don Armando, ha vinto quasi un milione di euro, da una lotteria internazionale è stato estratto il suo nome»! Lessi, con comprensibile avidità la notizia, scritta in un brutto italiano; in verità si trattava di 950,210 euro, che avrei ricevuto in contanti una volta sbrigata una serie di adempimenti.

La notizia era troppo bella per essere vera, ma desideravo illudermi che finalmente avrei avuto una buona base di partenza per il “don Vecchi cinque”. Anche in passato, in momenti difficili per le mie finanze, m’ero illuso che il Signore non potesse che aiutarmi, data la causa nobile, per cui chiedevo la grazia e perciò tentai due o tre volte all’Enalotto, ma il Signore pare che non ci sentisse da quell’orecchio.

Tornando alla vincita, telefonai al mio tecnico specializzato in telematica, Gabriele Favrin, il quale, impietoso, mi disse: «Don Armando, si tratta di una bufala, non ascolti, perché perderebbe tempo e soldi!» “Ai periti in arte si deve credere” dicevano i romani ed io ho creduto al mio collaboratore esperto e fedele.

Riprendendo così la vecchia strada, che non mi ha mai tradito: lavoro, risparmio fino all’ultimo centesimo, vita sobria, coerente. Questa strada m’ha portato a delle splendide realizzazioni, che mi sono costate anche sacrifici, ma mi hanno dato anche delle grandissime soddisfazioni.

Mi resta però nell’animo la sensazione di sporco, di imbroglio, perpetrata da gente senza scrupoli disposta a tradire pure la loro madre pur di arraffare denaro. Mi sono inoltre sorpreso perché, pur avendo più di ottant’anni, mi sono lasciato ingannare dal canto delle sirene, pur sapendo fino dai lontani tempi del ginnasio, quanto sono ingannevoli le sirene.

NdR: don Armando è stato contattato dagli autori di questo tipo di truffa. Raccomandiamo attenzione anche ai lettori!

Il milite ignoto del bene

A Roma, presso l’Altare della Patria, in quell’enorme scenario di marmo bianco, riposa il milite ignoto, vegliato notte e giorno da due soldati in armi.

Questo monumento vuole rendere onore ed esprimere riconoscenza a quell’umile fante morto in guerra senza piastrina di riconoscimento, che rappresenta i milioni di giovani “caduti per la Patria” – almeno così si esprime la retorica di un nazionalismo presente anche nello Stato più civile.

Io ho estrema attenzione ed infinito rispetto per quell’umile fante che è morto perché qualcuno più forte e più in alto, che stava al sicuro, glielo ha imposto. Preferisco però gli americani che, almeno a parole, affermano che richiedono ai loro giovani “non di morire, ma di vivere per il bene della Patria”.

Nella Chiesa ci son pure momenti e celebrazioni, parallele a quelle civili, nelle quali si esprime stima e gratitudine per chi si pone a servizio del messaggio cristiano. Io rispetto e condivido queste celebrazioni quanto mai significative, ma vorrei pure io innalzare un monumento al milite ignoto dell’impegno a favore del Regno, un milite che rappresenti quei milioni di figli di Dio e di uomini e di donne di buona volontà che spessissimo nel silenzio, in umiltà e con sacrificio, operano per l’avvento del Regno e per un mondo migliore. Spessissimo si tratta di persone senza segni di riconoscimento, senza mandati ufficiali e senza divisa che, spontaneamente, per un impulso interiore, mettono a servizio del bene la loro intelligenza, il loro cuore e il loro tempo. Presso questo monumento ideale del milite ignoto del bene porrei non due angeli, ma un’intera legione di spiriti del bene perché queste persone che gratuitamente e senza riconoscimenti pubblici continuano in maniera indefessa e generosa a lavorare per il Regno, veramente lo meritano.

Io per fortuna e per grazia ne conosco a decine, o forse meglio a centinaia di questi militi dell’utopia cristiana. Oggi ne prendo uno tra i tanti per collocarlo nel mausoleo che io sogno per gli umili eroi del bene e che, perlomeno per me, possa essere il simbolo del cittadino e del cristiano che si spende per la causa e che non potrà mai aspettarsi un riconoscimento per il suo servizio se non dal buon Dio.

Scelgo un cristiano senza titoli e senza gradi che da una ventina di anni, estate e inverno, col solleone o col gelo, ogni settimana distribuisce per le strade della nostra città un periodico che tenta una lettura cristiana della vita e che semina speranza ed invito alla solidarietà. Non faccio il suo nome perché desidero che rappresenti quelle legioni di volontari che per spirito cristiano, o semplicemente umanitario, servono il Regno o semplicemente l’umanità e nel quale tutti gli operatori pastorali o sociali si riconoscono perché sappiano che perlomeno gli uomini che valutano il bene come valore assoluto, provano per loro stima e riconoscenza e che, nella scala dei valori, li mettono all’apice.

Diario di uno speciale mattino qualunque

Il tempo delle mie elementari risale agli inizi del secolo scorso. La didattica d’allora era, per certi aspetti, diversa da quella d’oggi; allora si cominciava con le aste, ora si legge dopo un mese di scuola. Per la pedagogia le cose andavano meglio: oggi il maestro, se è bravo, istruisce, allora educava, passava valori ed insegnava a vivere. Questa non è differenza di poco conto.

In classe ai miei tempi si faceva lettura, dettato, aritmetica e storia e le lezioni per casa andavano dal tema al problema, o più facilmente al diario. Ricordo come la maestra insisteva perché in questo diario non “snocciolassimo” le solite notizie monotone e ripetitive che contrassegnavano le nostre giornate sempre uguali, ma ci mettessimo un po’ di brio e di novità, almeno nel formulare e nel descrivere ciò che era accaduto.

Questa sera mi ritrovo a domandarmi: “Se qualcuno mi chiedesse il diario di questo giorno che sto chiudendo, mentre mi preparo per la notte, che cosa potrei scrivere di interessante?” Di fronte a questa domanda vedo, come in una carrellata rapida, il susseguirsi di accadimenti per nulla eccezionali, anzi monotoni ed abitudinari, però quanto mai interessanti, ricchi di problematiche, di prospettive che interpellano la mia coscienza e che mi caricano di responsabilità.

Mi piacerebbe, o meglio sarei molto curioso ed interessato, sapere come potrei riferire ciò che è passato sotto i miei occhi, dentro la mia testa e la mia coscienza in questo giorno, tra i tanti, tutti uguali, della mia vita. Oggi ogni gesto, ogni pensiero, ogni avvenimento mi colpisce e mi fa pensare, mi pone domande, mi indica prospettive, nulla mi pare banale e scontato. Credo che la mia vecchia maestra leggerebbe alla classe il mio diario perché sarebbe quanto mai originale, inaspettato, interessante, spero che mi darebbe come voto un 9 o un 10.

Mi fermo al risveglio, perché se dovessi continuare, riempirei tutte le pagine che mi sono state destinate per tutto il 2011. La sveglia è suonata come sempre alle 5,30 proprio nel momento in cui più volentieri avrei dormito. La suora è entrata nel mio appartamentino dolce e leggera ed ha alzato le tapparelle lievemente perché non mi svegliassi di soprassalto e qui cominciano le considerazioni: quanti sono gli anziani che hanno il privilegio di avere una mano amica ed un cuore caldo che si preoccupi perché aprano nelle condizioni migliori la nuova giornata?

«Com’è andata questa notte?» «Bene! Ho finalmente provato l’ebbrezza di non sentirmi in gabbia e mi sono mosso liberamente senza avvertire le stilettate acute di dolore. Finalmente ho ritrovato una libertà di muovermi che da un mese non avevo più!».

Non so cosa avverrà quando metterò i piedi a terra, ma l’essermi potuto muovere quasi a piacimento in letto durante la notte è stato un miracolo, una grazia ed un dono grande di Dio, per cui, appena aperti gli occhi, ho detto di gran cuore “Grazie o mio Signore!”

Quale guida per l’uomo di oggi?

Qualche settimana fa, precisamente la quarta domenica dopo Pasqua, la Chiesa m’ha fatto leggere ai miei fedeli della “Madonna della Consolazione”, una pagina del Vangelo di Giovanni. Gesù in quella pagina, rifacendosi alla condizione ambientale in cui vivevano i suoi ascoltatori, ha adoperato una immagine tratta dalla pastorizia.

La vita degli ebrei del tempo di Cristo aveva come supporto economico l’agricoltura e la pastorizia e perciò Cristo disse che se una persona voleva accettare la proposta che Lui faceva, doveva seguirlo con la fiducia e la docilità con le quali le pecore di uno dei tanti greggi che pascolavano sulle sponde del Giordano seguivano il pastore.

Nella mia infanzia, nella piccola parrocchia di campagna in cui vivevo, il parroco trovava comodo affermare che i fedeli dovevano seguire gli insegnamenti del loro parroco come le pecore di qualsiasi gregge seguivano il loro pastore. Era un buon parroco, ma mi pareva eccessivo dovergli affidare la mia vita. Evidentemente oggi questo discorso mi sembra terribilmente riduttivo e poveri mi sembrano questo paragone e questa lettura semplicistica del testo sacro.

Allora nel mio sermone ho tentato di affermare che anche l’uomo moderno non riesce, anche se lo vuole e si illude di poterlo fare, ad essere totalmente autonomo; è troppo fragile ed indifeso per impostare e risolvere i complessi problemi della vita basandosi solamente sulle sue forze e sulla sua intelligenza e perciò, lo voglia o no, fatalmente deve rifarsi ad una guida che abbia più risorse di lui; sarebbe già un punto positivo se una persona fosse cosciente di questa necessità e poi facesse la sua scelta lucida tra i tanti “maestri” che oggi si offrono più o meno scopertamente, come guide, sia a livello sociale che a quello esistenziale.

A questo punto ho tentato con tutte le mie risorse razionali di evidenziare quanto siano limitati i leaders di oggi e soprattutto quelli che abbiamo conosciuto nell’ultimo mezzo secolo. Nonostante la prosopopea e la supponenza con cui si sono presentati alla ribalta della storia, sono tutti falliti miseramente, siano essi stati filosofi, politici, sociologi. Gli ultimi di questi capi “carismatici” dell’Africa settentrionale stanno crollando miseramente ad uno ad uno in questi giorni.

Conclusi affermando ancora una volta che l’umile e indifeso Gesù di Nazareth rimane l’unico maestro che fa ancora una proposta comprensibile e valida per la vita; quindi feci mie le parole di Pietro: “Signore da chi andremo se soltanto tu hai parole di vita eterna?”, parole ben diverse da quelle fatue o arroganti, saccenti o illusorie dei leaders del nostro tempo.

La proposta che non farò

Ci sono certi eventi che producono nella mia sensibilità umana un impatto così forte da non essere capace di smaltirlo in poco tempo, anche perché ritengo doveroso tenermi nel cuore questa benefica sofferenza.

Ricordo di aver sentito di una certa querelle sorta tra gli alti ranghi del nostro Paese per il fatto che il presidente Napolitano insisteva con decisione per uno stanziamento consistente per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia – e la sfilata delle forze armate fu certamente un elemento clou di questa celebrazione.

Il presidente Napolitano è arrivato un po’ tardi all’amor di Patria perché nel suo passato le sue simpatie erano rivolte altrove, ma ora pare convinto quanto mai perché l’ho visto impettito e commosso di fronte al grande spettacolo di cinquemila soldati, ben vestiti e ben addestrati, alla sfilata (e d’altronde di tempo ne avevano a iosa per prepararsi a questa esibizione).

Io non sono estremamente esperto di conti, ma se comincio a pensare alle paghe da versare a cinquemila uomini, paghe che vanno da quella dell’ultimo volontario arruolato al Capo di Stato Maggiore dell’esercito, ai costi per i carri armati, i camion, i missili, i fucili e quant’altro, la mia mente si annebbia.

Mentre i miei occhi osservavano lo scorrere veloce dei vari corpi in armi, con le loro divise impeccabili e il portamento marziale, il mio animo andò alla proposta ingenua, ma sapiente, di Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi, che una quarantina di anni fa scrisse al presidente degli Stati Uniti e della Russia, dicendo loro: “Datemi ciascuno l’equivalente del costo di un cacciabombardiere ed io risolverò con quel denaro il problema dei milioni di lebbrosi nel mondo”. Non credo che abbia avuto risposta, era una proposta troppo saggia perché dei capi di Stato lo potessero prendere in considerazione.

Mentre io guardavo con curiosità la marcia dei vari corpi del nostro esercito, mi sono chiesto: “Se io scrivessi a Napolitano proponendogli: `Presidente, mi dia il costo della sfilata del 2 giugno, il costo delle paghe dei cinquemila uomini che hanno marciato e delle armi che orgogliosamente hanno mostrato ai ventimila romani che sono andati ad applaudirli, io le garantisco di costruirle tanti “don Vecchi” da accogliere tutti gli anziani poveri che vivono almeno da Napoli a Bologna!'”

Non ho però scritto a Napolitano perché penso che la proposta sia troppo valida perché possa essere presa in considerazione dal capo della burocrazia d’Italia!