Per le scuole oggi si deve chiedere parità!

Qualche giorno fa ho visto alla televisione il vescovo di Treviso che, con parole misurate e precise, ha denunciato ancora una volta la situazione tragica in cui si vengono a trovare le scuole materne, elementari, medie e superiori di indirizzo cattolico. Questo vescovo, dal fare dimesso e dalla parola pacata, ha prospettato l’eventualità che se la Regione e lo Stato non rivedranno i contributi, che già in passato costituivano le briciole del bilancio del Ministero della Pubblica Istruzione, ma che ora sono stati ridotti ulteriormente ed in maniera consistente, si prospetta la “serrata”.

Quello delle sovvenzioni dello Stato alla scuola, considerata privata, è sempre stato per me un cruccio ed un problema che non ho mai digerito perché è un sopruso di uno Stato illiberale, fazioso, ingiusto e per nulla democratico. Per me il discorso è semplice. Lo Stato stabilisca quanto viene a costare un ragazzo a scuola ed eroghi l’equivalente a qualsiasi ente, associazione o comitato gestisca quella scuola, riservandosi il diritto di verificare la serietà dell’insegnamento, lo sviluppo dei programmi concordati e l’idoneità degli ambienti. Punto e basta!

In Italia, sulla scia di un atavico anticlericalismo, forse anche storicamente meritato – ma questa non è una buona ragione perché lo Stato sia ingiusto e fazioso – non è mai stato così. La scuola di Stato è sempre stata privilegiata sotto ogni punto di vista e questo privilegio non solamente è stato una potente ingiustizia, ma anche ha prodotto una delle peggiori scuole d’Europa e del mondo.

La scuola statale italiana, in tutte le classifiche internazionali, occupa il fanalino di coda, nonostante lo Stato spenda per essa enormemente di più di quanto eroghi alla scuola privata e che in contrapposto risulta tanto migliore di quella pubblica.

Ora lo Stato, condizionato dal suddetto anticlericalismo, dalla sinistra, dal radicalismo e dalla massoneria, che hanno sempre pescato nel torbido di quella scuola, ha deciso di togliere anche le briciole. I vescovi farebbero mille volte bene se attuassero la paventata serrata caricando questo Stato di ulteriori costi e costringendolo ad essere ancor più illiberale, “confessionale” ed autoritario.

Il tragico sta però anche nel fatto che i cattolici in questi ultimi sessant’anni avrebbero avuto più di una volta l’opportunità di far giustizia, ma sempre, per l’eterno senso di pavidità e di sudditanza alla cultura laica, non hanno mai trovato il coraggio di farlo e la Chiesa di pretenderla.

Ancora una volta ripeto che, almeno io, non so che farmene di uno Stato che si mette sul bavero l’etichetta di democratico, perché la democrazia è sostanza e non forma solamente, come la sinistra e i presunti cattolici che le tengono la coda pensano che sia.

Oggi si deve chiedere parità, non elemosina. Se siamo poveri, lo dobbiamo essere tutti in ugual misura.

Se questa è la civiltà dell’Europa…

La gran parte degli aiuti alimentari che “Carpenedo solidale”, l’associazione di volontariato che ruota attorno ad “don Vecchi”, eroga ogni settimana a più di duemila concittadini in difficoltà, proviene dal “Banco Alimentare”. A sua volta il “Banco Alimentare”, che opera in tutta Italia e che per noi ha sede a Verona, ritira suddetti prodotti dalle grandi catene di distribuzione di generi alimentari e dalle fabbriche relative.

Si tratta quasi sempre di prodotti non più vendibili, o di produzioni eccessive che il mercato non riesce ad assorbire, o di prodotti che hanno qualche difetto nell’involucro o nei contenitori. Però la gran parte degli alimenti più importanti e più necessari, quali la pasta, il latte, il riso, il formaggio, ecc., provengono dalla Cee, organismo europeo.

Il banco alimentare, organismo collegato alla Compagnie delle Opere, a sua volta emanazione di Comunione e Liberazione, ha avuto una felice intuizione ed ha realizzato una poderosa ed efficiente organizzazione, gestita da volontari, la quale recupera migliaia e migliaia di tonnellate di generi alimentari più diversi e li distribuisce attraverso enti che si consorziano con questa organizzazione e che a loro volta distribuiscono direttamente alla popolazione in difficoltà quanto il Banco riesce a raccogliere dalle grandi aziende alimentari e soprattutto dall’Europa.

Qualche giorno fa, il responsabile della “agenzia del don Vecchi” mi ha comunicato, con preoccupazione, di aver saputo che a causa della crisi economica, l’Europa aveva deciso di tagliare di un terzo l’erogazione di questi prodotti di prima necessità e mi pregava di sensibilizzare, per quanto mi fosse stato possibile, l’opinione pubblica di questo pericolo incombente.

La notizia mi ha amareggiato quanto mai perché altro è parlare dei poveri in astratto, altro è vedere ogni giorno la lunga fila multietnica di persone che, pazienti e silenziose, scendono nell’interrato ove ci sono i magazzini e risalgono con le borse piene di quanto si riesce a dar loro.

Dopo l’amarezza è subentrata però la delusione e la rabbia: “Perché questa vecchia Europa, panciuta e mai sazia di rapinare le ricchezze ai popoli in via di sviluppo, arrogante per la sua presunta civiltà che dice che trae origine dal messaggio di Cristo, non ha pensato di ridurre i suoi eserciti, di tagliare sulle armi, di smobilitare i suoi aerei da guerra costosi e dispendiosi piuttosto che togliere il piatto dei suoi “rifiuti” non solamente alle nazioni che ha sfruttato, ma perfino alla sua gente meno fortunata?”.

Se questa è civiltà, credo che i poveri, che non sono pochi, non sappiano proprio cosa farsene della civiltà dell’occidente e alla prima occasione presenteranno il conto, che non sarà di certo leggero.

Il matrimonio del principe di Monaco

Credo che tutti l’abbiano capito che il mio diario è atipico sia nei tempi che nella forma. Nel tempo, perché fermo sulla carta sensazioni, riflessioni, reazioni e denunce, quando mi urgono dentro e perciò le butto giù anche con notevole anticipo sul tempo nel quale esce il periodico che le ospita. Nella forma, perché per me il diario è solamente uno strumento, o meglio un “pretesto” per offrire un apporto veloce e non troppo impegnativo sugli eventi della vita e sul modo con cui vi reagisce questo prete anziano.

Premesso questo, perché sono ben conscio che quando queste brevi note saranno pubblicate il fatto e le reazioni dell’opinione pubblica, recepite dalla stampa, saranno già roba vecchia buttata alla rinfusa in quell’enorme soffitta che accoglie i rifiuti ancora più consistenti delle tonnellate di “monnezza” di Napoli e della Campania.

“All’epoca” di quanto sto per annotare nel diario, mi è capitato di sentire un paio di battute tra due donne residenti al “don Vecchi”, persone che notoriamente hanno più di ottant’anni: «Puoi fermarti un po’ per sostituirmi nel servizio al bar?». «Mi dispiace, ma sono di fretta!». «Cos’hai da fare?». «C’è il matrimonio, e io sono già in ritardo!»

Ci misi un po’ per capire, pensavo che avesse un nipote o qualche parente che si sposasse. Ma poi, nel proseguo della conversazione della signora che richiedeva aiuto, compresi che si trattava delle nozze del principe di Monaco con la nuotatrice del sud Africa.

Questa conversazione, colta al volo, mi rese più attento all’evento. Da quanto ho capito il “principe”, grassottello e attempato, è stato uno scapolone impenitente, che ha lasciato sul suo sentiero due o più creature. Le nozze, si dice che siano state un’operazione di marketing, da un lato per rilanciare l’economia del principato di Monaco, dall’altra per avere un erede legale prima che fosse troppo tardi. Pare che la ragazza dello sport si sia trovata impigliata in queste nozze da operetta non riuscendo però più a tornare indietro.

La cosa non mi ha interessato per niente, anzi mi ha schifato quanto mai. Almeno i due principini inglesi erano giovani e capaci ancora di sognare, ma a Monaco non c’è stato neppure questo!

Del matrimonio regale io ho visto solamente qualche carrellata durante il telegiornale, che non potevo scansare, ma questa mi è stata sufficiente per vedere coinvolto nella sceneggiata un vescovo, parecchi sacerdoti e soprattutto delle formule sacre. Il tutto mi è sembrato una celebrazione folkloristica, opera di un regista che poteva spendere a volontà; però quanta tristezza nel vedere la chiesa e i suoi ministri coinvolti in questo spettacolo di cui la gente è ancora purtroppo ghiotta. Quanto senso di dissacrazione dell’amore e che cattiva lezione di vita per la gioventù!

I “misteri dolorosi” del nostro povero Stato!

Capisco sempre meno i comportamenti dello Stato e degli enti pubblici ai quali pure io appartengo. Più volte ho riflettuto a voce alta sugli sprechi colossali di queste strutture sociali, mentre siamo in una crisi economica tra le più gravi. Capisco sempre meno e mi indigno inutilmente sempre di più avendo coscienza di dover gridare ai miei concittadini la mia ribellione. Se ci penso m’accorgo che gli esempi di questo mal governo e gli sprechi del pubblico sono come i grani di un rosario.

Comincio a sgranare il primo mistero:

  • L’assessore alle politiche sociali, dottor Sernagiotto mi ha informato che la realizzazione di un posto letto per un anziano non autosufficiente costa alla Regione Veneto centotrentamila euro, mentre io informo i miei concittadini che la costruzione di un appartamentino al “don Vecchi” costa cinquantamila euro, quasi un terzo di meno.
  • Un anziano in casa di riposo per non autosufficienti costa alla Regione cinquanta euro al giorno ed altri cinquanta, circa, al Comune, mentre al “don Vecchi” un anziano costa alla Regione euro zero e al Comune un euro e venticinque centesimi (euro 1,25).
  • Le auto blu in Italia non si contano nemmeno, mentre in Germania, in Francia e in Inghilterra se ne usano meno di un decimo.
  • La regina d’Inghilterra con la sua corte e i suoi castelli e il presidente degli Stati Uniti costano forse metà o meno di Napolitano, il nostro presidente della Repubblica di nota estrazione politica, sensibile alle difficoltà dei poveri.
  • I graduati del nostro esercito, che sono talmente tanti da poter collocare un generale su ogni chilometro delle coste della nostra penisola, due giorni prima di andare in pensione vengono promossi di un grado superiore perché abbiano una pensione congrua.
  • Santoro, il conduttore della famigerata rubrica “Anno zero”, uomo di sinistra ed appassionato fustigatore dei ricchi e difensore dei poveri, riceve dalla Rai, ente di Stato, una liquidazione di due milioni e mezzo, il costo del “don Vecchi” di Campalto.
  • I nostri parlamentari e i consiglieri regionali sono i più pagati, non solo di tutta l’Europa, ma di tutto il mondo.
  • I magistrati all’inizio della carriera mi dicono che percepiscano cinquemila euro al mese.
  • Negli ospedali privati il costo di un degente viene riconosciuto e rimborsato dalla Ulss è di molto inferiore a quello sborsato per i degenti degli ospedali, in eterno passivo, gestiti dalla stessa Ulss.
  • I managers degli enti pubblici, che pur sono passivi e in condizioni fallimentari, percepiscono delle buonuscite da Paperon dei Paperoni.
  • Le intercettazioni telefoniche, delle quali la Magistratura italiana ha un bisogno dieci volte superiore a quello degli altri Paesi, hanno un costo abissale, mentre ci sono milioni di processi inevasi ed altri che durano decenni. Ho letto l’altro ieri sul Gazzettino che ad una vedova del Cadore si è fatta giustizia dopo 36 anni di attesa.

Potrei continuare, ma chi volesse avvelenarsi il sangue non ha che da leggere i volumi primo e secondo de “La Casta” del giornalista Stella che è più documentato di quanto non lo sia io.

Questa è solamente la prima decina dei grani dei misteri dolorosi, ma il rosario intero è composto da duecento grani!

Donne soldato

Non so fino a quando la televisione e la stampa continueranno ad incrementare la morbosità degli italiani con la triste e squallida vicenda di quel caporale che ha tradito e probabilmente assassinato la moglie, ha disonorato l’esercito e che sta rendendo ridicola la magistratura.

Tutti affermano che per diventare magistrato si deve studiare molto ed essere molto intelligenti, infatti la carriera forense è molto ambita per il prestigio e, temo, anche per la paga cospicua.

Questa campagna di stampa, anche se incrementa l’audience delle televisioni e la tiratura dei giornali, di certo erode ulteriormente la pubblica moralità, la sacralità della famiglia, la parola data, il senso dell’onore, la bellezza dell’amore, tutti valori che sono già fin troppo scossi ed intaccati.

Credo che anche se l’ultimo degli italiani fosse invitato ad indossare la toga e a sedersi in tribunale, sentenzierebbe la colpevolezza di quel bellimbusto, senza far perdere tanto tempo, spendere un’enormità di denaro e provocare un ulteriore danno alla pubblica moralità. Purtroppo anche lo Stato ha i suoi riti, spesso inutili e costosi e perciò continuerà ad osservarli anche se risultano platealmente superflui.

In occasione di questa triste e, ripeto, squallida vicenda, la televisione che ha un insaziabile bisogno di immagini sempre nuove, per illustrare le scappatelle coniugali del marito infedele e presumibilmente omicida, ci ha fornito più volte delle carrellate inerenti al “lavoro” di quel caporalmaggiore. Più volte mi è capitato di vedere delle giovani e belle ragazze, infagottate nelle tute mimetiche, marciare pestando i piedi, emettendo grida guerriere, o pancia a terra con i fucili spianati.

Io sono orgoglioso del nostro tempo che sta rivalutando la dignità e i ruoli della donna, ma mi sento avvilito per come essa stia rinnegando e soffocando la sua femminilità, la grazia, la leggiadria del suo corpo e del suo spirito.

Non mi si dica passatista se quello del mestiere di soldato lo ritengo un abbrutimento della donna piuttosto che una emancipazione. Anche però se me lo dite io non posso cambiare opinione e tacere. Povere donne! Che si preparano a uccidere piuttosto che a donare la vita, che si abbrutiscono piuttosto che ingentilire maggiormente il loro tratto e il loro cuore!

Già mi ripugna il pensiero di un uomo che uccida un altro uomo senza motivi. Mi basti andare al romanzo di Remarque “Nulla di nuovo sul fronte occidentale”, e ricordare l’episodio di quel soldato che salta dentro una buca, vi trova un altro soldato “nemico” e pensa in un attimo “Se non lo uccido io, lui uccide me!” e lo colpisce perciò con la baionetta ferendolo mortalmente, costretto poi a rimanere con lui rantolante per ore; gli toglie il portafoglio e vede la foto della moglie e dei figli che attendono il papà e il marito che lui ha ucciso senza mai averlo conosciuto! Per una donna ciò mi ripugna ancor di più.

Smettiamo di sprecare i soldi in armi e privilegi!

Ci sono certi pensieri che mi ronzano attorno come quei calabroni che ti tolgono la pace col loro ronzio fastidioso e soprattutto con l’insistenza con la quale tentano di posarsi vicino a te.

Qualche tempo fa scrissi che la sfilata militare del 2 giugno, piuttosto di riempirmi d’orgoglio come italiano, e piuttosto di unirmi ai ventimila romani che hanno applaudito la costosa sfilata voluta da Napolitano, mi hanno spinto a pensare di come sarebbero stati spesi meglio quei milioni di euro se fossero stati impiegati per aumentare le pensioni dei vecchi pensionati, per incrementare l’energia rinnovabile, o per sostenere il volontariato che avrebbe centuplicato il frutto di un eventuale investimento.

Ogni giorno di più ammiro il Lussemburgo che ha venduto per ferro vecchio cannoni e carri armati, facendo un atto di fede sul buon senso dei popoli. Non mi si dica poi che popoli più grandi e più ricchi di noi investono di più sull’esercito e sugli armamenti! Perché assai spesso i più ricchi sono quasi sempre i meno saggi. La parabola del Vangelo che racconta i progetti faraonici del signorotto di campagna, sta lì a ricordare agli uomini di tutti i tempi: “Stolto, stanotte morrai!”.

Io sono profondamente convinto che il Figlio di Dio è venuto in questo mondo per insegnare non solo ai singoli, la retta via, la sapienza e il bene, ma anche ai popoli e soprattutto ai loro capi. E sono ancora più convinto che Cristo è mille volte più saggio di Berlusconi, Napolitano, Obama o Putin e quindi bisogna ascoltare più Lui che dice: “Beati i pacifici! Riponi la spada nel fodero perché chi di spada ferisce di spada perisce!”. O la Bibbia che invita a “trasformare le spade in vomeri”, invece di chi sta perpetuando il disordine, le guerre e le ingiustizie.

Io, tra l’altro, non mi intendo di finanza o di economia, né sono un fan di Bossi o della Lega, però se Tremonti afferma che si devono reperire quaranta miliardi in poco tempo per non ridurci alla miseria, credo che “i padani” abbiano ragione quando dicono di smetterla di buttar bombe sulla Libia, perché esse non producono grano ma macerie. Quando dicono di iniziare a smagrire l’esercito, a licenziare generali, colonnelli e a mandare a casa una buona parte di quei politici rissosi ed inconcludenti, di ridurre gli stipendi a calciatori, managers degli enti statali e magistrati, perché le loro necessità sono le stesse di quelle degli operai e dei pensionati e perché il mestiere di ognuno è altrettanto importante e necessario sia esso quello del capo dello Stato che dell’ultimo netturbino.

So che mi si dirà che sono un sognatore; si, spero di continuare ad esserlo perché altrimenti sarei un disperato, o un cretino.

Cosa significa “democrazia”?

Ho “incontrato” anni fa un autore, di cui non ho mai conosciuto il nome, ma di cui ricordo lo pseudonimo un po’ particolare con cui si firmava, “Pittigrilli”.

Di questo scrittore ho letto “Uomini incontro a Cristo” di Genovese della Pro Civitate di Assisi. Il volume è un’antologia di una quarantina di testimonianze di persone, appartenenti ad ogni ceto sociale, che raccontano l’itinerario personale che li ha condotti alla fede.

Pittigrilli era uno di questi. Io lo ricordo per due motivi. Il primo, fondamentale: perché confessava che egli era giunto alla fede per una strada insolita, lo spiritismo. Il secondo, per una sua immagine che mi ha particolarmente colpito e che mi spinge ora alla denuncia che intendo fare e che assomiglia ad una puntura di spillo che fa scoppiare il pallone iridato che fa fin troppa bella figura di sé in un cielo terso.

Afferma Pittigrilli che ci sono certe parole magiche che ritornano di frequente, altisonanti e perentorie, quali; libertà, giustizia, solidarietà, democrazia, ecc., che in realtà sono dei paraventi dietro cui si nasconde la peggior spazzatura napoletana.

Mi fermo al termine “democrazia”, abusato specie dalla sinistra, ma non solo da essa.

Esempio: Napolitano sembra aver il mal di pancia per la democrazia nei Paesi dell’Africa settentrionale, proprio lui che ha plaudito i carri armati russi che hanno soffocato la primavera di Praga e l’insurrezione ungherese. Se c’è uno che non può parlare di democrazia, questo è proprio lui, perché poi anche oggi non può non sapere delle tresche che ci sono per appropriarsi del petrolio della Libia. Non so proprio quanto la povera gente di Tripoli gradisca che le bombe che sventrano le loro case giungano da chi vuole la democrazia.

Secondo esempio: l’altro ieri il referendum sull’acqua che ha raggiunto il quorum e tutti hanno affermato che il popolo sovrano s’è finalmente espresso in maniera democratica, mentre tutti costoro dovrebbero ricordare che in un precedente referendum lo stesso popolo sovrano aveva già bocciato il finanziamento dei partiti, mentre tutti, proprio tutti se ne sono strafregati altamente della risposta “democratica”.

Credo che neppure oggi quei milioni di italiani che campano con quattrocentottanta euro al mese siano interessati alla democrazia dei furbi.

Sono giunto alla conclusione che dovremmo pensarci mille volte prima di adoperare “queste parole magiche” e dovremmo arrossire quando sono usate come paravento di inganno e di sporcizia interiore.

Che gioia sentire ancora parlare in TV di Giorgio La Pira!

La televisione è piena di banalità, di chiacchiere, quando non trasmette violenze e meschinità. D’altronde non può essere che così, dovendo ogni emittente trasmettere qualcosa ventiquattr’ore su ventiquattro del giorno. Ogni emittente non usa poi solamente un canale, perché anche l’ultima arrivata, qual’è “Rete veneta”, trasmette contemporaneamente su tre, quattro, cinque canali, programmi diversi.

Fortunatamente tra tanta spazzatura talvolta, per caso, mi capita di scoprire qualche “perla” (non è facile, ma talvolta avviene). Una settimana fa accesi per caso il televisore e mi capitò di vedere il volto serafico di Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze, il politico dalle parole pulite ed oneste, dai pensieri sublimi e dalle utopie più impossibili.

Un tempo ritenevo che La Pira, nel mondo della politica, fosse quasi un signore ingenuo e fuori tempo che cercava di accalappiare le farfalle multicolori col suo retino, un uomo con la testa sulle nuvole che rincorreva la Fata Morgana. Ora ho mutato radicalmente giudizio. Reputo La Pira uno dei politici più realisti che non solo il nostro Paese, ma pure il nostro mondo abbia avuto.

Qualche tempo fa è morta la fedele segretaria di La Pira e in quell’occasione un giornalista ha ripreso il discorso della “politica” di quest’uomo di Dio che viveva ospite in una celletta di un convento di Firenze, povero, mistico, sognatore, ma soprattutto uomo che credeva a Dio, si fidava di Lui ed impostava la sua azione di sindaco e di deputato sulla Parola saggia e sapiente del Signore.

Il reportage televisivo che mi capitò di vedere, riportava l’immagine di La Pira in occasione della sua visita in Vietnam da O ci min, in quel momento tragico in cui, prima la Francia e poi l’America, una volta ancora tentarono, fortunatamente invano, di schiacciare, con le bombe al napalm e con la potenza militare, l’anelito di un popolo ad essere artefice libero della propria storia.

La Francia e l’America ebbero la peggio, ma se queste potenze avessero ascoltato questo profeta disarmato che credeva che non solo ogni uomo ma ogni città ed ogni popolo avessero un proprio angelo custode a parlare alle loro coscienze ed indicare la strada dritta, quante atrocità e quante rovine avrebbero evitato.

Ogni giorno di più mi pare di capire che gli uomini apparentemente più ingenui e più sognatori, quali sono i santi, gli innamorati e i poeti, sono quelli che hanno ragione, che comprendono il senso del vivere, mentre i furbi, i realisti e i forti sono quelli che provocano le più grandi rovine.

Sono stato contento di aver reincontrato alla televisione questo profeta disarmato del nostro tempo.

Il messaggio che cerco di trasmettere agli uomini di questo tempo

Ogni giorno di più colgo i segni di un mondo che sta evolvendosi in maniera veloce, tanto che mi pare mi dica apertamente: “Questo non è più il tuo tempo, sei ormai un ospite sopportato, un peso piuttosto che una risorsa!”. Mai come in questa stagione della mia vita il mio pensiero va al romanzo della mia prima giovinezza “Piccolo mondo antico” di Antonio Fogazzaro. Le atmosfere delicate e struggenti, il clima di dolce rimpianto per dei ricordi avvolti da calda malinconia, soffusa da un pizzico di romanticismo, dovuto al tempo che fugge veloce, mi rende più belli i giorni del passato e più scorrevoli e serene le vecchie vicende, mentre le attuali mi sembrano più angolose ed impervie.

Mi sono sorpreso a fare queste riflessioni e a cogliere questi sentimenti mentre oggi sceglievo la foto di copertina per “L’incontro”. Tra le tante immagini che rubo alla stampa che ricevo e metto nel mio disordinato archivio, ho scelto il volto pulito e bello di una ragazza impegnata a scrivere al computer, strumento che io non so usare e al quale mi accosto come ad un marchingegno misterioso ed impenetrabile. Mentre guardavo le dita che si posavano dolcemente sulla tastiera, mi ricordai di essere, io, della generazione in cui a scuola si adoperava l’abbecedario per la scrittura e il pallottoliere per l’aritmetica. Tra questi due sussidi didattici di un tempo e il computer, che oggi è adoperato con disinvoltura assoluta a casa e a scuola da tutti i nostri bambini, “ne è passata di acqua sotto i ponti”.

Ogni settimana mi ritrovo a comporre il menabò del nostro periodico, incollando le striscioline di carta prestampate, con tutte le difficoltà di comporre armoniosamente le pagine, dovendo spesso ricorrere al rimedio degli inserti per far tornare i conti.

Un giorno una mia nipote, vedendomi tanto indaffarato, mi disse sorpresa: «Perché, zio, non impagini tutto al computer, è più veloce!». Dovetti confessare, quasi arrossendo, che non avevo dimestichezza con quell’arnese. Mi accontento, alla mia età, di passare un messaggio che faccia conoscere ai nostri giovani “le radici” della nostra cultura. Se riuscissi a far ciò mi stimerei soddisfatto e mi riterrei ancora un po’ utile per i fratelli di questa stagione della vita che non è più la mia.

Un’altra scelta faticosa all’orizzonte

Quando sei anni fa insistetti col Patriarca per poter lasciare la parrocchia, avendo sorpassato di un anno l’età canonica fissata dalla Chiesa per chi ha responsabilità dirette nel campo della pastorale, lo feci per tre motivi.

Primo: avevo timore che tutto l’impianto organizzativo, allora complesso, mi cadesse addosso per mancanza delle forze fisiche e psicologiche necessarie per svolgere il ministero così complesso ed articolato qual’era quello della mia parrocchia.

Secondo: ritenevo di avere un’età e quindi una mentalità che difficilmente potesse comprendere ed accettare quei processi evolutivi che nel nostro tempo sono assai veloci, che caratterizzano l’evoluzione sociale, culturale e psicologica di ogni stagione della storia ed in specie di quella attuale.

Terzo: ritenevo di dover far posto alle nuove generazioni che devono fare esperienze, misurarsi con i problemi reali della vita e perciò occupare i posti di responsabilità.

Penso che pochi abbiano compreso e condiviso queste mie motivazioni d’ordine razionale e di coscienza. I superiori perché hanno difficoltà di rincalzi e gli altri perché abituati a vedere qualcuno che “tira la carretta” e vogliono illudersi che sia facile e doveroso continuare a farlo.

In fondo però alla mia coscienza, ero turbato da due motivi più reconditi: temevo che fosse un atteggiamento di superbia vedermi crollare addosso una bella impalcatura che avevo creato con tanta fatica e che, in fondo, mi dava lustro. Poi temevo che nel mio animo ci fossero solamente stanchezza e bisogno di riposo.

A distanza di sei anni mi ritrovo nella stessa situazione esistenziale, avendo accettato la presidenza della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri “don Vecchi” e che, tutto sommato, procede a gonfie vele.

Sento inoltre il peso e la responsabilità del periodico “L’incontro” che, sorprendentemente, si è affermato, ed è certamente il periodico della diocesi più diffuso e più capace di creare opinione pubblica. E c’è pure il polo solidale del don Vecchi, così solido e promettente, che comporta responsabilità, fatica e richiede nervi saldi, pazienza e coraggio.

Oggi sento, come allora, nuova stanchezza, stress, paura di non farcela, preoccupazione che l’avvenire promettente di queste realtà trovi un inciampo nella mia fragilità in fase di aumento. Soprattutto sono preoccupato che la mia presenza, in un settore così significativo nella vita della Chiesa veneziana, impedisca lo sbocciare di giovani sacerdoti che prendano il testimone e sviluppino ulteriormente l’aspetto solidale della nostra diocesi.

Rimando di giorno in giorno la decisione sul da farsi, perché difficile e faticosa, aspettando e sperando che il Signore mi dia un segnale forte ed incontrovertibile. Se poi i confratelli e i superiori mi dessero una mano, sarei loro molto grato. Vorrei continuare a servire la Chiesa e la città con le mie forze residue, ma senza responsabilità.

La fiducia che in tanti mi danno è uno stimolo a continuare

Qualche giorno fa mi ha telefonato un commercialista che, a suo dire, mi conosceva bene, preannunciandomi che una sua cliente, morta da poco, s’era ricordata di me nel suo testamento.

Il mio interlocutore mi ha anche fatto il nome di questa generosa creatura che si è ricordata di questo vecchio prete ma, sia perché sono un po’ duro d’orecchio, sia perché di primo acchito non sono stato capace di inquadrare la persona di cui mi parlava, essa mi rimane a tutt’oggi sconosciuta.

Il signore della telefonata mi ha anche informato che la pratica, giustamente, dovrà fare il suo iter e che la cifra si aggira sui ventimila euro, e quando gli chiesi se il beneficiario fosse la Fondazione, mi rispose, con mio dispiacere, che invece sono io l’erede. Il mio dispiacere nasce dal fatto che lo Stato, affamato di denaro come sempre, si prenderà una buona fetta di questa eredità, mentre se fosse stata destinata alla Fondazione, che è una ONLUS, tutto l’importo sarebbe giunto a giusta destinazione.

Più volte ho detto e scritto che, vivendo io al “don Vecchi”, anche la mia modestissima pensione mi basta e che tutto quello che ricevo a qualsiasi titolo lo passo al “don Vecchi” perché venga destinato agli anziani più poveri di me. Non nascondo però che la notizia mi ha fatto piacere perché essa mi rassicura che non ci sono, nella nostra città, solamente persone che diffidano o che criticano sempre, ma ci sono pure concittadini che condividono il mio sogno di creare una città solidale nella quale ognuno collabori ad aggiungere il suo piccolo tassello per vivere una vita più fraterna.

Talvolta vengo a conoscere critiche malevole e preconcette, ma più spesso mi giungono attestazioni di fiducia e di affetto. Ringrazio sempre il Signore perché i miei concittadini sono fin troppo buoni nei miei riguardi dimostrandomi tanto di frequente una fiducia ed un affetto che talvolta mi fanno perfino arrossire, perché sono cosciente che potrei e dovrei fare di più e di meglio perché, credenti o meno, anche in questo nostro tempo c’è bisogno di incontrare sacerdoti che si schierino con i più poveri e, soprattutto, escano allo scoperto, diano testimonianza tentando di giocarsi interamente sul valore della fraternità.

Queste attenzioni che, fortunatamente, non sono infrequenti, mi giungono come uno stimolo ed un invito ad un servizio sempre vigoroso e appassionato a favore dei fratelli.

Bepi Pistolato

Io, per il “mestiere” che faccio e soprattutto per la “specializzazione” che ne faccio nella mia chiesa al camposanto, ho purtroppo ormai dimestichezza con la morte e con il dolore. Non passa settimana che non mi sia richiesto di salutare a nome dei congiunti, gli uomini che partono da questo mondo. Tanto che spesso mi sembra di essere quasi un funzionario della “stazione di partenza per il cielo”.

Confesso che, fortunatamente, non ho fatto e non voglio fare l’abitudine a queste partenze; sempre vi partecipo infatti con tutta la mia umanità e con tutta la mia fede.

Eppure debbo dire onestamente che certe “partenze” mi coinvolgono più profondamente, mi scuotono e mi lasciano sgomento, quasi che da un punto di vista razionale ed esistenziale non riesca a recepire ed accettare la scomparsa di creature che m’accorgo che erano diventate parte integrante, quasi un tutt’uno con la mia vita.

Ricordo quando, tanti anni fa, l’aereo che trasportava l’intera squadra di calcio del Torino, andò a sfracellarsi contro il colle di Superga. Un appassionato di calcio intervistato dal solito giornalista su come vivesse quel dramma, affermò: «Quando succede un dramma del genere ti vien da dire “è una tragedia”, ma se in quel dramma sono coinvolte persone a cui vuoi bene è tutt’altra cosa».

A me è successo tutto questo quando il dottor Mario Carraro, maestro del coro nato con me a Carpenedo da più di trentacinque anni, mi annunciò con estrema amarezza: «E’ morto Bepi». Non servì che aggiungesse altro perché, pur se nella mia vecchia parrocchia i “Bepi” si contano a decine e decine, per tutti “Bepi” era l’organista, il mitico organista che per più di quarant’anni arrivava silenzioso e puntuale, saliva la stretta scaletta a bovolo per sedersi alla consolle e accompagnare tutti, assolutamente tutti gli eventi gioiosi o tristi che coinvolgevano la vita della parrocchia.

Bepi c’era quando ad ottobre del 1971 arrivai in parrocchia, Bepi c’era ancora quando il 2 ottobre del 2005 me ne andai. Bepi suonava tranquillo le canzoni gioiose e ritmate delle affollate messe del fanciullo, quando i nostri piccoli, guidati da don Adriano o don Gino facevano tremare il soffitto della chiesa battendo le mani e tirando fuori quanta voce avevano in corpo sotto la spinta dei ritmi veloci che Bepi pigiava sui tasti.

Bepi c’era alle prove e alle messe delle 12 quando, con Stefano o Fabio, sperimentavano i canti di una numerosa gioventù in ricerca. Bepi c’era due volte la settimana quando la corale faceva le prove e quando alla domenica cantava sull’altare e quei canti, mediante Radiocarpini, planavano su quasi tutto il Triveneto fino a Ravenna.

Bepi c’era sempre, con i suoi spartiti sotto il braccio, silenzioso, modesto, fedele. L’umile operaio della Montedison diventava il cuore pulsante della preghiera dell’intera comunità ogni volta ch’essa si riuniva per la lode a Dio.

Con la tragica morte di Bepi un altro pezzo di quella parrocchia che ho lasciato, scompare. Tra poco, di quella meravigliosa realtà non mi resterà che un nostalgico ricordo, ma forse la ritroverò presto tutta intera tra bianche nuvole del Cielo.

Quale carità?

Pur ricevendo da una vita le confidenze di tantissime persone, non so ancora se anche gli altri sono messi in crisi da verità che, giungendo da parti le più disparate, colpiscono la coscienza.

Alcuni anni fa ricevetti in dono un volumetto, stampato artigianalmente da due sorelle. Quando lo lessi rimasi sorpreso dal loro modo di procedere nell’ascesi interiore. Queste due donne di mezza età erano seriamente impegnate a crescere spiritualmente, cercando di conoscere la volontà del Signore nei riguardi delle situazioni esistenziali in cui venivano via via a trovarsi.

Il volumetto che mi avevano donato a livello confidenziale, quale segno di stima e di amicizia, era concepito quasi come un diario spirituale; c’era una premessa che descriveva la situazione esistenziale, il problema o l’interrogativo in cui ognuna di loro veniva a trovarsi; nella seconda parte c’era quella che, secondo loro, era la risposta di Dio, l’indicazione o la soluzione che il Signore indicava loro mediante l’apertura casuale del Vangelo o semplicemente quella rappresentata dai fatti o incontri che esse interpretavano in relazione al loro problema.

Non credo che si possa assumere questo metodo a regola generale, comunque ho avuto modo di constatare che, almeno per loro, rappresentava un aiuto ed una spinta per una crescita umana e spirituale.

Ho pensato a questa testimonianza avendo, questa mattina, fatto questa duplice esperienza. Dapprima ho letto la riflessione di una cristiana del sud Africa che aveva deciso di rispondere positivamente a qualsiasi richiesta che le fosse stata rivolta, indipendentemente dalla condizione del richiedente e dall’uso che avrebbe fatto del suo aiuto.

Più tardi, nelle letture della messa che ho celebrato, mi sono imbattuto in due frasi della Scrittura: “Chi semina generosamente, generosamente raccoglie” e “Benedetto chi dona con gioia”. Questi due “incontri” nella stessa mattinata mi hanno costretto a chiedermi: “E’ giusto che io limiti al minimo la carità spicciola, per preferire la nascita di una struttura a scopo solidale? Le mie due amiche non avrebbero certamente avuto dubbi sulla opzione della carità comunque. Io invece rimango ancora in crisi e forse ho bisogno di una spintarella ulteriore per fare la mia scelta.

“Un eremo non è un guscio di lumaca”

Un’alunna degli anni verdi della mia vita di prete, qualche tempo fa è venuta a farmi visita nel mio piccolo alloggio del “don Vecchi”. Questa cara “ragazza”, conosciuta sui banchi di scuola, ha sposato un medico tedesco ed abita in Germania, a Bonn, ha due figlie ed è ormai una nonna in pensione. E’ venuta perché conserva un bel ricordo del suo vecchio insegnante con il quale ha mantenuto un rapporto ancora vivo leggendo ogni settimana “L’incontro” su Internet.

Venendo quest’ultima volta, m’ha chiesto un piacere per la sua vecchia mamma che vive sola a Mestre e, come sempre, mi ha fatto un regalino. Evidentemente conosce i miei gusti ed ha quindi scelto in libreria due volumi della Einaudi, dicendomi che temendo che almeno uno l’avessi già letto, avrei potuto tenere l’altro. Era vero: “Il pane di ieri” di Enzo Bianchi, della comunità di Bose, l’avevo già letto. Quel volume è ricco di poesia, di spiritualità e di calda umanità. Il volume di padre Bianchi è veramente bello e m’ha fatto bene perché ho compreso da esso che “l’uomo di Dio” non è uno che si estranea da questo mondo e che non possa godere delle cose buone, anzi egli coglie con più intensità la poesia della vita e del quotidiano.

Ho tenuto quindi il volume alternativo: “Un eremo non è un guscio di lumaca” di Adriana Zarri. In questo volume la “teologa”, spesso critica e dissenziente dalle tesi ufficiali della Chiesa, racconta la sua scelta di vivere una vita eremitica “sui generis” in una vecchia cascina abbandonata, “Il molinasso”, sule colline piemontesi.

La Zarri, che è certamente una donna di fede, ma libera, anticonformista, attenta a cogliere gli aspetti positivi della cultura e dei movimenti del laicismo italiano, racconta il suo quotidiano con grande semplicità, ma con la sensibilità di un’intellettuale intelligente e di giornalista che conosce il mestiere dello scrivere.

La mia lettura procede lenta, ma con profitto. Mi interessa quanto mai questa religiosità o questo misticismo fuori delle righe della tradizione e del diritto canonico, perché confrontando la mia vita di oggi che passa dalla “celletta” dell’abitazione al tempio tra i cipressi, con un po’ di ascetismo potrei aspirare anch’io ad essere un eremita del nostro tempo.

Il dono per il quale non smetterò mai di ringraziare Dio

Io in verità non ho mai troppo apprezzato né invidiato quella gente che afferma d’aver scoperto una teoria, un’associazione o una qualche soluzione così appagante e risolutiva da non aver più dubbi, più incertezze e di aver quasi incontrato finalmente la verità e il bene assoluti.

Già in passato ho confidato a questo diario, a cui affido il bello e il brutto della mia vita, che andando a visitare le famiglie della parrocchia, ho incontrato un “parrocchiano” che non conoscevo e che era, come seppi in seguito, un “vescovo” dei testimoni di Geova. Questo signore “attaccò immediatamente bottone” per convincermi della bontà della sua fede.

Inizialmente, con cortesia, cercai di obiettare, in difesa delle mie convinzioni religiose, ma lui diventava via via sempre più perentorio nelle sue affermazioni, tanto che ad un certo momento gli chiesi: «Ma lei pensa di possedere tutta la verità?» E lui, pronto, rispose: «Si!». «Allora, risposi io, credo che non abbiamo più niente da dirci, perché io sono un povero mendicante della verità, e quando ne scopro anche solamente qualche stilla, sono enormemente felice!»

Tanta gente si rivolge a me con una fiducia disarmante che mi mette in imbarazzo e in crisi, ponendomi domande sui problemi più importanti della vita, supponendo che, per il fatto che io sono un prete, abbia una risposta sicura e pacifica per tutto. Magari fosse vero! Però posso affermare tranquillamente che sull’esistenza di Dio non ho proprio dubbi. Lo cerco ogni giorno battendo i sentieri impervi della verità, dell’amore e della bellezza, convinto che ogni passo, seppur minimo che compio in questa direzione, mi porta ad una conoscenza più approfondita ed entusiasmante del mio Signore.

La fede mi dona la certezza della presenza misteriosa, ma ineffabile, del Padre, del Creatore, mi fa sentire meno solo e alla deriva nella mia fragilità, mi sento amato ed avvolto da questo amore che si manifesta nel respiro della vita, mi dà la dolce serenità che qualcuno mi attende con l’amore del Padre della parabola in fondo a quella strada in cui non c’è il buio di una notte cupa e misteriosa, ma la porta aperta sulla luce.

Ogni giorno ringrazio il Signore per il dono della fede, che reputo il dono più grande tra gli innumerevoli doni che Egli mi ha fatto.