Per salvare il Paese servono laboriosità, parsimonia, sobrietà e riconoscenza per ciò che si ha!

Qualche volta mi compiaccio di non accettare ancora i comportamenti irresponsabili ed assurdi di una società che non tien conto delle difficoltà in cui vive e continua a comportarsi come se l’Italia fosse il Paperon dei Paperoni.

I discorsi sulla crisi economica, i giudizi degli organismi internazionali di controllo, le prese di posizione di Tremonti, pare ovvio che ottengano, pure loro, i magri risultati delle mie prediche, pur essendo sotto gli occhi di tutti i licenziamenti, le difficoltà delle industrie da un lato, e da quello religioso il crollo dei valori, il malessere morale e il fenomeno devastante della secolarizzazione.

Nei mesi scorsi mi ero meravigliato quanto mai per il comportamento incomprensibile dei greci, che sono alla bancarotta, ma nonostante ciò si oppongono in maniera violenta ed assurda ai provvedimenti con i quali il loro governo tentava di salvare il salvabile. Evidentemente la cattiva scuola dei sindacati e dei partiti all’opposizione è riuscita a passare l’idea che si possa dividere una ricchezza che non c’è e che lo Stato debba offrire quel benessere che non è stato ancora guadagnato: comportamento che porta ad una miseria ancor più rovinosa!

Non credo che noi italiani siamo tanto lontani da questo modo di pensare e di comportarsi. Il peggio poi è che non sono solamente i giovani a cullare queste illusioni, ma anche gli anziani dimostrano di condividerle queste illusioni.

Col “don Vecchi” si son fatti sacrifici enormi per offrire alloggi alla portata delle tasche di tutti e si continuano a far sacrifici perché gli “affitti” continuino a mantenersi a misura di pensionati poveri, però certe illusioni impossibili si continuano a manifestare anche fra gli anziani residenti nella struttura. Al “don Vecchi” c’è il verde, c’è la frescura, la pace e il silenzio, però durante questi mesi estivi mi è toccato vedere che tanti anziani, autoproclamatisi poveri, scompaiono alla chetichella per le ferie, sfruttando le amministrazioni pubbliche o attingendo dai gruzzoletti più o meno consistenti e gelosamente tenuti nascosti.

Credo di dover ripetere una verità che si dimostra sempre più valida: in Italia non bastano più riforme, leggi e leggine, ma serve recuperare valori veri ed un forte richiamo alla laboriosità, alla parsimonia, all’accontentarsi del tenore di vita possibile, al godere di ciò che ci viene offerto, alla riconoscenza verso chi si prende cura di noi e alla consapevolezza che “il richiamo delle sirene è ingannevole” perché molti dei pretesi bisogni sono effimeri e soprattutto sono un espediente di gente interessata che ci guadagna sopra.

Ci vorrebbe maggiore interesse per il bene comune!

Dietro ogni volto c’è una vita, una storia con i suoi successi e le sue sconfitte. Dietro il volto di un anziano c’è un passato ancora più vasto.

Io conosco appena il volto e il nome dei miei coinquilini residenti al “don Vecchi”, non certamente le loro storie e l’impressione che ne ricevo è solamente quella che appare dai loro capelli bianchi e dai loro volti ricchi di rughe. Però so da sempre che la nostra vita di oggi è la risultante dell’educazione e delle vicende del nostro passato.

Talvolta, partendo dall’oggi, mi viene l’istinto di indagare, o meglio di fantasticare sul passato della gente che vive con me. Ci sono persone che fin dal primo ingresso si mettono a disposizione e si danno da fare, probabilmente capendo che la vita e il benessere della comunità dipende dall’impegno e dalla collaborazione di ognuno. Ci sono altri che, pacificamente, danno per scontato che il “quasi Paradiso” che hanno scoperto e in cui sono entrati, senza merito alcuno, sia quasi un albero selvatico nato per caso nel terreno di nessuno e i cui frutti ognuno ha diritto di cogliere senza dover chiedere permesso e ringraziare alcuno.

Ci sono altri ancora che perfino accampano diritti fasulli e si pongono in posizione critica per ogni cosa che non risponde ai loro desideri. Altri ancora che vivono da stranieri, per nulla preoccupati del bene comune, del tutto impegnati a fare i fatti loro e infine altri che han ricevuto un benservito assai disinvolto dai loro figli e poi spendono ogni risorsa ed ogni tempo per continuare a servirli, trascurando in maniera spesso assoluta la comunità in cui hanno trovato rifugio e che altri mantengono in vita.

Io avevo sognato, avevo sperato, avevo tentato di farne una “famiglia felice” di amici e di fratelli, ma ogni giorno di più mi accorgo che questa era un’utopia e, come tutte le utopie, costituisce un obiettivo ed una speranza ideale a cui tendere, ma che realisticamente non possiamo pretendere che si realizzi, almeno in tempi brevi e compiutamente.
Sono rassegnato? Ancora no, ma dovrò rassegnarmi!

Questa analisi un po’ deludente e amara, quando la applico alla nazione, all’Italia, mi fa compatire i suoi governanti, perché anche quando essi fossero retti e capaci di governare gli uomini, senza usare la forza e la costrizione, il loro compito è così arduo se non impossibile. Comunque vale la pena tentare.

Perché questa guerra?

Berlusconi ha detto che è stato Napolitano a volere la guerra in Libia. Sono convinto che, almeno in parte, abbia ragione, senza però averne capito il perché, soprattutto conoscendo il passato del nostro presidente, il quale non ho ancora capito se oggi abbia le idee chiare sulla democrazia. Nel Passato certamente no!

Ma non ho capito neppure perché Berlusconi non abbia ascoltato la voce della sua coscienza e non abbia esercitato il suo ruolo di capo del governo per dire di no. Anzi oggi, in contrasto con i suoi colleghi di governo, ha loro strappato il consenso di proseguire il conflitto.

Il risultato di questa improvvisa e folgorante idea di esportare la democrazia nell’Africa settentrionale? Decine di migliaia di morti, odio e rancori tra le diverse componenti di quel Paese, distruzioni infinite delle strutture e delle cose di quella povera gente.

Se penso alla fatica di mio padre, di mia madre e di noi loro figli per costruirci la nostra modestissima casa di quattro stanze, facendo a mano i blocchi di cemento, lavorando, di domenica, con l’aiuto dei compagni di lavoro di papà che, a loro volta, avrebbe in seguito aiutato per contraccambiare sempre in giorno di festa! Non riesco a tollerare le chiacchiere dei nostri governanti e soprattutto le distruzioni che stanno facendo in quel Paese.

Berlusconi ha decine di ville in cui abitare, Napolitano ha il Quirinale, casa in cui non mancano le stanze, la tenuta di San Rossore per le vacanze estive e di certo avrà in banca quattro soldarelli, ma i cittadini della Libia di certo non hanno tutto quel ben di Dio che hanno loro.

Mi domando con sempre maggior insistenza, rabbia e angoscia, che cosa ci sta a fare quel migliaio di parlamentari in Parlamento; eppure quelli di destra sanno bene far i conti e quelli di sinistra dicono che hanno a cuore la sorte dei poveri!

Se penso che il mio Stato domanda ad ogni italiano di lavorare fino al 23 giugno per le spese generali e poi spreca in aeroplani da combattimento e in bombe tanta fatica e tanto sudore! Se poi aggiungo che in questi giorni Tremonti ci dice che deve spremere, mi pare, altri quaranta, cinquanta miliardi di euro, mentre il nostro Governo sta sprecando in maniera così disumana e criminale quel poco di denaro che dice di avere, non capisco proprio più nulla!

E’ vero che lo stesso ministro ha detto che per risparmiare avrebbe preso l’aereo di linea per andare a Bruxelles, però non credo che con quel risparmio compenserà lo spreco che stiamo facendo.

Sapersi fermare al momento giusto

Ho letto una notizia che mi ha fatto molto dispiacere e nello stesso tempo è stata per me un grave monito.

Il “Gazzettino”, con un articolo a tre colonne, ha annunciato che don Verzè, sommerso dai debiti, ha dovuto cedere.

Don Verzè è un prete ultranovantenne, nato in un piccolo paese del veronese, ma ha avuto la sua educazione, e poi ha svolto tutto il suo servizio di sacerdote, a Milano, realizzando un’opera veramente mastodontica: il San Raffaele, ospedale di eccellenza, istituto di ricerche sul cancro ed università. Questo complesso di carattere scientifico è certamente una struttura di livello europeo se non mondiale.

Don Verzè, sacerdote del quale almeno due volte ho scritto su “L’incontro”, esprimendo tutta la mia ammirazione, anche a livello sacerdotale è una persona libera, senza complessi, ricco di fede ma nello stesso tempo capace di filtrare la sua religiosità attraverso una coscienza critica.

Però il motivo della mia ammirazione nasce dal fatto che è riuscito a tradurre la sua fede in una carità concreta, espressa appunto dal San Raffaele, l’ospedale più all’avanguardia nella metropoli lombarda. A mio umile parere questo prete è un cristiano di eccellenza e credo che se i titoli ecclesiastici dovessero esprimere davvero il suo valore, dovrebbe essere un super cardinale. Purtroppo, pur essendo don Verzè un sacerdote capacissimo di dare un volto concreto alla sua carità, l’età – 91 anni suonati – l’ha tradito ed egli si è impegolato in un mare di debiti, per cui ha dovuto chiedere aiuto al Vaticano e farsi da parte.

Monsignor Vecchi mi diceva che quasi sempre i grandi realizzatori ad ogni livello non sanno fermarsi a tempo debito e finiscono spesso per rovinare ciò che di positivo avevano fatto precedentemente. Così è capitato a don Verzè.

Questa notizia è stata l’ultimo tassello per farmi decidere che ormai è giunta l’ora di farmi da parte. La mia opera è lillipuziana in rapporto a quella di don Verzè, però le regole della vita non cambiano.

Prima della fine dell’anno chiederò di passare la mano ad un prete della nuova generazione che creda che la fede senza l’amore è soltanto aria fritta.

Quanta burocrazia nella Chiesa!

Non posso non seguire le vicende della Chiesa veneziana che sta vivendo il travaglio della transizione tra il vecchio Patriarca Scola, che ci lascia per una sede più prestigiosa, e quello che è ancora “in pectore” del Vaticano.

Io mi illudevo che il codice di diritto canonico fosse un retaggio del passato e che ormai rimanesse, come lo studio del latino, il quale aiuta a sviluppare l’intelligenza, a far scoprire le nostre radici e ad offrire i criteri portanti del buon vivere. Invece no!

In questi giorni ho scoperto che questo diritto canonico stabilisce procedure precise, nel nostro caso per il trapasso dei poteri, e che i vertici sembra che applichino con rigore queste procedure e soprattutto ci credano, osservandole come precetti, che pur essendo di un rango un po’ più sotto dei comandamenti, debbano essere osservati con fedeltà e rigore.

Per me, che in questo campo sono “un libero pensatore”, la cosa ha destato un po’ di sorpresa e di meraviglia. Io di solito vado al sodo, poco preoccupato delle procedure, verso cui non nutro gran fiducia o meno riverenza. Infatti, anche per quanto riguarda il codice civile e penale rimango un po’ indifferente e sospettoso e spesso dissenziente, e talora perfino schifato dalle procedure lunghe, formali e soprattutto poco concludenti.

Il mio recente impatto col diritto canonico mi ha spinto a delle considerazioni ulteriori, che forse hanno poco a che fare con questi discorsi, ma che riguardano più a fondo la mia fede e il mio modo di stare nella Chiesa. Ho la sensazione che l’apparato ecclesiastico, regolato da un’infinità di canoni e uffici, che è il supporto e lo strumento mediante il quale la religione passa il messaggio e i valori evangelici, sia quanto mai macchinoso ed eccessivamente pesante.

Questi ingranaggi ecclesiali, che per certuni sono quasi la spina dorsale della Chiesa, io li guardo con gli occhi del giovane David quando gli hanno proposto un’armatura pesante ed ingombrante per affrontare il gigante Golia. Anch’io preferisco “la fionda e i ciottoli di fiume”. Perfino il Papa, che è il capo della “burocrazia vaticana”, recentemente, parlando del Web, ha affermato che è ancora la testimonianza personale lo strumento principe per trasmettere la fede.

Sto pensando che l’organizzazione attuale – dicasteri, curie, uffici, commissioni, e quant’altro – che assorbono tanto personale e denaro, avrebbero bisogno di una rinfrescata, di una bella potatura e una mano di bianco per far emergere più evidenti la fede l’insegnamento di Gesù, il quale fu abbastanza essenziale quando strutturò il germe della Chiesa universale. Un dato m’è certo: non avrei mai speso tre-quattro anni della mia vita per laurearmi in diritto canonico!

All’Italia serve una classe politica diversa!

Un tempo vivevo nella parrocchia di San Lorenzo, ove eravamo in parecchi preti. Un mio collega, che faceva l’uomo di sinistra a livello politico e di fronda a livello ecclesiale, affermava che lui era decisamente schierato per la democrazia, ma a patto che a capo ci fosse un forte leader.

A quel tempo io ero convinto che, tutto sommato, egli auspicasse una soluzione, che essendo difficile da realizzarsi, gli permettesse di fare quello che meglio gli comodava. Oggi invece penso che non avesse tutti i torti, perché oggi ci troviamo di fronte a governi che non sanno scegliere, non sanno imporsi sugli irrequieti, sugli eterni scontenti o sugli interessati di turno. Oggi pare che non nascano più dei Cincinnato che abbiano il coraggio di dire: “Io credo in questa soluzione, se non vi vado bene tornerò a lavorare la terra; se mai un giorno riterreste d’avere bisogno di me, sono disponibile a mettermi a disposizione del Paese!”.

Oggi l’opposizione ufficiale pare che pretenda che la maggioranza governi come vuole lei. Ma pure nella maggioranza c’è una minoranza che ha la stessa pretesa. Chi poi è stato designato dal popolo a governare non ha il coraggio, la forza o la dignità di portare avanti la linea in cui crede e per cui è stato scelto, disposto a farsi da parte qualora la minoranza, esterna o interna, gli impediscano di portare avanti i suoi progetti; la conseguenza di tutto questo la paghiamo con le chiacchiere, l’immobilismo, lo scontento e, peggio ancora, con la progressiva perdita di fiducia nella democrazia.

Questo stato di cose svuota dall’interno il regime democratico. Pur rimanendo vero che “la peggiore democrazia è ancora da preferirsi alla miglior dittatura”, credo che se vogliamo liberare il nostro Paese dall’empasse in cui è caduto e dentro cui sta avviluppandosi come una mosca nella ragnatela, dobbiamo trovare il modo per reperire dei governanti più liberi e con maggiore dignità e che abbiano una spina dorsale più consistente.

Il nuovo carcere a Campalto: perché non farlo?

Qualche giorno fa sono venuto alla conclusione che Marco Pannella, il radicale non credente ed anticlericale, sta guadagnandosi il Paradiso digiunando per umanizzare le carceri del nostro Paese, che hanno raggiunto una brutalità veramente incivile, e sta dimostrandosi un profeta che aiuta la Chiesa fustigando col suo prolungato digiuno noi credenti così maldisposti a pagare anche piccoli “prezzi” per affermare i valori cristiani, soprattutto quelli della solidarietà, nei quali diciamo di credere.

Un proverbio spagnolo afferma che “Dio scrive dritto anche quando le righe sono storte”. Ne ho la riprova in questi giorni dal fatto che provvidenzialmente sono saltati fuori i soldi per costruire a Campalto un nuovo carcere in sostituzione di quello antidiluviano di Santa Maria Maggiore.

Con questa operazione si occuperebbero operai, dando benessere alla zona, si recupererebbero i vecchi magazzini dismessi dell’esercito, si creerebbe una fonte di guadagno per Campalto, ma soprattutto i cittadini che hanno sbagliato potrebbero scontare la loro pena in un luogo civile e vivibile.

No signori! Il solito gruppetto di persone con la testa per aria, monta la testa ad un gruppo di persone un po’ più numeroso e da mesi in Comune di Venezia c’è un tiramolla di proposte e controproposte che paralizza l’operazione, mentre delle povere creature, che pur hanno sbagliato – ma chi non sbaglia mai nella vita? – sono costrette a vivere in maniera disumana.

Ho letto sul quotidiano “Avvenire” che in una cella di sette metri quadrati sono costretti a vivere 6 detenuti, in alcune celle ve ne sono stipati 12-14, bagno e cucinino compresi. Volete che un giorno il buon Dio, nel giudizio finalmente giusto, non ci domanderà: «Dov’era il tuo fratello?».

La partenza del Patriarca Scola

Il Patriarca se ne va. Non ho appreso bene la notizia. La stampa locale, sapendo la logica del “mondo”, ha fatto osservare che la nomina ad Arcivescovo di Milano rappresenta una promozione perché quella diocesi è la più grande e la più florida di tutte le Chiese d’Europa. Questo criterio non riesco ad accettarlo: la “carriera” ecclesiastica è una lettura del servizio pastorale che io rifiuto in maniera radicale.

Quando avevano cominciato a circolare le voci di un probabile trasferimento a Milano del Patriarca Scola, non ci avevo creduto per quattro motivi almeno.

Primo: il Patriarca ha concluso da poche settimane la sua visita pastorale e perciò, avendo conosciuto da vicino la sua gente e il suo popolo, era in grado finalmente di iniziare un servizio con conoscenze dirette e in grado di valutare con obiettività persone, situazioni, carenze e potenzialità che prima non conosceva e la conoscenza delle quali è basilare per un servizio pastorale serio, documentato e positivo.

Secondo: il Patriarca Scola, partendo dalle sue esperienze precedenti e soprattutto dalle sue frequentazioni accademiche, ha dato vita all’università cattolica di Venezia sulla punta della Dogana. Una realtà positiva per la cultura ecclesiastica e per il bene della città. Sarà ben difficile trovare chi accetti questa eredità bella ma infinitamente difficile, senza la clausola del “beneficio d’inventario!” Sto già pregando per il povero Cristo che gli succederà.

Terzo: il Patriarca ha riscoperto e valorizzato la posizione di Venezia quale cerniera tra la vecchia Europa e i popoli slavi e del Medio Oriente. Il Marcianum sta balbettando le prime parole di questo dialogo interculturale. Ora che il sindaco-filosofo se n’è andato e il Patriarca del dialogo con l’islam se ne va, credo che si arrischi che cali il sipario e Venezia riprenda la sua inesorabile decadenza.

Quarto e non ultimo: è appena partito per Vicenza il vescovo ausiliare mons. Pizziol; non c’è e non ci sarà presto un vicario generale e i vertici poi della Chiesa veneziana non mi pare brillino di personalità tanto autorevoli, motivo per cui si ha la sensazione di una Chiesa decapitata e senza guida.

In risposta a questi dati obiettivi, ci sono i discorsi di circostanza, ma questi sono discorsi ai quali non crede neanche chi li fa. Per fortuna il Signore trasforma le pietre in pane e le rocce in sorgenti. Speriamo che faccia un miracolo anche per questa “Venezia si bella e perduta!”.

L’esempio di coerenza di Marco Pannella

Credo che le persone che mi frequentano o che mi leggono sappiano fin troppo bene la mia assoluta allergia per i radicali. Sono convinto che essi abbiano determinato il fenomeno della secolarizzazione e dell’anticlericalismo più di tutti i partiti messi assieme e i movimenti dell’intero arco costituzionale.

Però devo confessare che la loro critica preconcetta e spesso esasperata, almeno per me, ha fatto del bene e vorrei sperare che così sia anche per i cattolici del nostro Paese.

I radicali mi hanno aiutato ad impegnarmi perché lo Stato garantisca a tutti la libertà di muoversi, di pensare e di agire come detta la loro coscienza; mi hanno aiutato a rifiutare uno Stato confessionale ed una Chiesa intrigante che si interessi non dei grandi valori, ma si immischi in tresche per ottenere privilegi e vantaggi – e questo non è poco!

Inoltre certe campagne di grande respiro dei radicali, le ho condivise e m’hanno quanto mai entusiasmato. Per esempio: un maggior impegno per i poveri del mondo, per l’abolizione della pena di morte, per la difesa dei diritti civili, in certe nazioni con regimi illiberali, la campagna per il rispetto della costituzione e delle leggi ed infine quella per l’umanizzazione delle carceri.

Al momento in cui scrivo, mi pare d’aver sentito che Pannella è al sessantesimo giorno di digiuno perché i carcerati non siano trattati come bestie in carceri sovraffollate, ma abbiano diritto alle cure mediche, all’assistenza di psicologi e soprattutto perché non siano detenuti per tempi lunghissimi in attesa di processo e possano riscattarsi e vivere una vita più decente attraverso il lavoro.

Non credo che Pannella vada a messa alla domenica e dica le preghiere la sera, ma la sua testimonianza e il suo “digiuno ultraquaresimale” spero gli aprano le porte del Cielo, anzi ne sono certo. Spero ancora che il suo esempio di sacrificio civile ci sproni tutti ad una solidarietà non fatta di parole fatue, ma di impegno concreto pagato con la propria coerenza.

A oltre ottantanni sono ancora felice custode della Casa del Signore!

Quando alle 7,30 precise si apre il grande cancello sul piazzale del cimitero, io sono ogni mattina pronto per entrarvi. Comincio così il mio ministero di prete anziano che fa servizio nelle retrovie della linea del fronte.

Per prima cosa butto uno sguardo compiaciuto e riconoscente per la cornice esterna della mia chiesa, povera ma quanto mai accogliente. Mi fermo un istante a rimirare le aralie, che come una trina verde, ricamano l’interno delle finestre. Mi fermo un altro istante a rimirare la fila continua di vaschette con le begonie rosse giganti che sembrano quasi uno squadrone della guardia svizzera che rende gli onori alla reggia del Signore.

Entro nella frescura mattutina del luogo sacro, raccolto, accogliente e profumato di silenzio. Uno sguardo alla lunga sequenza di sedie bianche che presto accoglieranno i fedeli: sembra che abbiano fatto compagnia per tutta la notte al Padrone di casa che attende di dare udienza dal Suo tabernacolo di marmo bianco, illuminato dalla lampada rossa che fa da sentinella.

Accendo poi le luci davanti ai santi che, ai lati dell’aula, sono già pronti a far catechesi con la loro testimonianza e il loro messaggio specifico. Le orchidee indicano le parole con le quali i fedeli possono chiedere i loro buoni uffici presso il Signore.

La mia chiesa è povera, ma pulita, ordinata ed accogliente e non appena si sono aperte le sue porte, inizia il pellegrinaggio ininterrotto dei fedeli che qui trovano pace e consolazione.

Uscito dalla “cattedrale” vado a riordinare la vecchia cappella che da duecento anni si offre ad accogliere e consolare. Ormai il restauro è completato ed una leggera musica di fondo accompagna la preghiera dei fedeli che entrano dal vecchio cancello di ferro battuto, accendono un lumino rosso e poi vanno a salutare i loro morti.

Ogni mattina si ripete questo rito ed ogni mattina il mio animo si riempie di conforto perché la casa del Signore è sempre viva, sempre aperta ed io, suo povero vecchio prete, sono tanto felice di essere il suo custode.

Un doveroso ringraziamento al prof. Sandro Simionato

Finalmente una buona notizia dal Comune! Qualche giorno fa un funzionario della pubblica amministrazione, che si occupa degli anziani e dei disabili, ci ha telefonato per informarci che nel bilancio approvato il 30 giugno, – l’ultimo giorno utile – il Consiglio Comunale, nel budget inerente al comparto della sicurezza sociale, è stata approvata la proposta di un finanziamento per l’assistenza notturna agli anziani che vivono nei trecento alloggi dei Centri “don Vecchi”, messi a disposizione dalla Fondazione Carpinetum.

Mai nella mia vita ho seguito con maggior attenzione e trepidazione le travagliate vicende inerenti, quest’anno, all’approvazione bilancio della pubblica amministrazione del Comune di Venezia. Ogni giorno leggevo con apprensione le notizie che apparivano sulla stampa locale concernenti i sempre nuovi “tagli” imposti dalla crisi finanziaria che investe l’intero Paese. La “coperta” era ed è veramente corta, per cui cultura, sport, servizi scolastici e tutti gli altri che dovrebbero godere della magra disponibilità finanziaria della pubblica amministrazione di Venezia, tiravano dalla loro parte, lasciando fatalmente scoperte altre parti.

Non avendo la Fondazione “santoli che contano” all’interno del Consiglio Comunale, temevo che proprio la realtà degli anziani residenti al “don Vecchi”, sarebbe rimasta allo scoperto. Invece no! Non so quale “santo” debba ringraziare, comunque ora avremo al “don Vecchi” un portierato sociale durante il giorno e pure degli addetti all’assistenza anche per la notte.

Nel numero consistente di anziani, quali sono quelli residenti al “don Vecchi”, anziani che superano poi tutti ed abbondantemente, gli ottant’anni, i malori notturni sono quanto mai frequenti, tanto che il 118 è di casa al nostro Centro.

Di certo dovrò “accendere una candela” alla dottoressa Francesca Corsi, che da sempre ha perorato la causa degli alloggi protetti in genere e in particolare di quelli del “don Vecchi”, ma un “moccolo” lo accendo pure volentieri all’assessore alle politiche sociali, prof. Sandro Simionato, che spesso è stato oggetto dei miei strali. Ora però, in questa situazione difficile, se non tragica, del bilancio comunale, l’esser stato capace di destinare nuovo denaro ad una voce per l’assistenza notturna, è certamente un merito ed io ritengo doveroso rendere onore a questo merito, seppur parziale e tardivo.

Il ruolo del clero veneto

Credo che tifare per la propria terra e per la propria gente non sia un gran peccato. Quando poi questo “nazionalismo veneto” abbia pure una dimensione pacata e solidale nei riguardi delle altre regioni, penso che esso possa diventare, tutto sommato, anche un merito.

Sono stato spinto particolarmente a questo attaccamento verso il mio popolo una quarantina di anni fa, in occasione di un convegno che si tenne a Gallarate e che aveva come tema lo studio delle problematiche che erano sorte per la consistente immigrazione proveniente dalle regioni del sud.

Al convegno partecipavano operatori pastorali, ma la gran parte eravamo sacerdoti. In quell’occasione ebbi modo di avvertire pesantemente la supponenza dimostrata in maniera plateale dai preti lombardi e piemontesi nei riguardi non solamente dei preti e della religiosità del sud, ma pure nei riguardi nostri, venuti dal Veneto “inerti e polentoni”.

In quell’occasione un prete bergamasco si rivolse ad uno del sud, che parlava delle feste patronali e delle confraternite, osservando in maniera ironica: «Ma voi del sud avete anche voi il nostro Dio?» Da allora non sono solamente guardingo e in difesa, ma in atteggiamento vigile e fiero verso un’arroganza non giustificata.

Ora vengo a sapere che le regioni del nordest stanno trainando l’economia nazionale e che, se estrapolassimo il nostro territorio da quello nazionale, avremmo un’economia forse superiore a nazioni estere quali l’Austria e la Germania.

Questo discorso credo che valga anche a livello religioso. Se il clero giovane non abbandonerà totalmente la tradizione religiosa delle nostre parrocchie, quale la catechesi, i patronati, l’associazionismo e l’impegno e lo sforzo perché la comunità cristiana coincida con quella anagrafica, sono convinto che potremo fare da traino anche a livello ecclesiale, checché ne possa pensare chi ingiustificatamente ci guarda dall’alto al basso.

E’ vero che noi veneti parliamo poco, però lavoriamo molto a tutti i livelli! Sono ben lungi dal proporre separazioni o lo spirito di rivalsa che oggi serpeggia in politica, però credo che la consapevolezza del patrimonio ideale che abbiamo acquisito col tempo e che ancora fortunatamente possediamo, ci debba rendere consapevoli che anche in questo caso “la nobiltà obbliga” e perciò dobbiamo svolgere con responsabilità il ruolo di traino che la provvidenza ci assegna.

Difficili riflessioni sui fatti di questi tempi

Com’è difficile avere un’idea obiettiva e prender posizione in relazione ad eventi che ci coinvolgono, non solamente a livello economico e sociale, ma anche a livello di coscienza.

Quante volte desidero e tento di confrontarmi con persone equilibrate ed oneste, ma questo è quanto mai difficile perché la documentazione dalla quale partono i nostri giudizi è sempre precaria e di dubbia onestà; infatti quasi sempre i mezzi di informazione che ci offrono “la materia prima” per il giudizio hanno un padrone che più o meno scopertamente detta le linee e gli indirizzi a suo vantaggio.

In queste ultime settimane mi sono arrovellato dentro di me a causa di certi eventi che mi hanno turbato ed hanno scosso l’opinione pubblica.

Primo: la battaglia per la Tav in val d’Aosta. Dicono che quest’opera sia necessaria per non essere tagliati fuori dalle vie del commercio e quindi del benessere. E’ comprensibile il disappunto di chi si vede “ferire” i propri prati e i propri boschi. D’altronde non si può pretendere che siano sempre gli altri a pagare; ognuno, prima o poi, deve fare la sua parte. Per quanto riguarda la guerriglia della teppaglia dei centri sociali italiani ed esteri, non so perché non si adoperino tutti quei militari che abbiamo visto sfilare impettiti il 2 giugno lungo i fori imperiali.

Una volta ancora un giovane caporalmaggiore è tornato dall’Afganistan nella bara, avvolta dal tricolore. Lui è morto e i suoi genitori e la sua giovane sposa piangono mentre laggiù si tratta sottobanco. Comunque tutti noi ci siamo accorti che è semplicemente assurdo pensare di convincere quella gente a vivere come noi; lo faranno di certo, ma ci vorranno ancora altri quattro, cinque secoli perché vi giungano. Allora perché mandare a morire i nostri ragazzi inutilmente?

A Venezia si continua a discutere ove collocare il nuovo carcere. La nostra gente, con le ultime votazioni comunali, ha delegato la maggioranza a governare il Comune, persone che si sono dette idonee a saperlo fare. Lo facciano allora! Se si illudono di ottenere il beneplacito di tutti, sono degli illusi, ed è quindi opportuno che tornino a casa. Nella vita ognuno deve avere il coraggio di fare il suo mestiere, non può rimanere in balia del primo Pincopallino. Governare comporta spesso essere impopolari, ma questo è il prezzo da pagare da parte di chi vuole fare questo nobile mestiere.

Il don Vecchi 4 nasce grazie a tanti gesti d’amore dei semplici

Era nei progetti che fra un paio di mesi – e precisamente alle ore 11 dell’8 ottobre, il Patriarca, cardinale Scola, avrebbe benedetto ed inaugurato il “don Vecchi” di Campalto – altri 64 alloggi per anziani poveri costruiti secondo la formula innovativa e vincente degli alloggi protetti.

Le cose però non andranno così perché a quel tempo il Cardinale sarà già a Milano. Il centro di Campalto si inaugurerà comunque: la benedizione del nostro vecchio patriarca Marco Cè o del giovane vescovo di Vicenza, monsignor Beniamino Pizziol, o comunque di monsignor Bonini o del neo monsignor Danilo Barlese, penso sia altrettanto efficace perché i nostri anziani si trovino bene nel nuovo Centro e vivano una vecchiaia serena.

Spesso in queste mie “confidenze”, ho parlato dei guai, degli ostacoli e delle difficoltà incontrate in questo ultimo paio d’anni in cui è compendiata la storia della nuova struttura. Io sono abituato a giocare allo scoperto e a parlare apertamente ai miei concittadini che considero da sempre miei compagni in questa avventura; non vorrei perciò che essi pensassero che io abbia incontrato solamente spine in questo percorso, perché in verità questa storia è stata una bella storia in cui non sono mancate “le rose”; anzi dovrei dire che in questo tempo il sogno è diventato un autentico roseto.

Voglio solamente accennare a qualche “sorpresa” bella, anzi affascinante, colta durante questo percorso. Da quella dello scultore veneziano Enrico Camastri, che ci ha offerto “La Madonna dell’accoglienza”, un altorilievo di due metri per uno in terracotta – impresa quasi leggendaria per uno scultore – alla signora dottoressa Elena Vendrame, mai vista e mai conosciuta, che ci ha regalato cinquantamila euro, alla nonna Rossi di Marghera, che ci ha lasciato un’eredità del valore di quasi mezzo milione di euro, al signor Mario Tonello di Mirano, che ci ha donato il suo appartamento, alla signora Amelia Conte che ci ha fatto un lascito di ventimila euro, all’Associazione “Carpenedo solidale” che ci ha messo da parte mobili pregiati da arredare un castello, all’altra associazione di volontariato “Vestire gli ignudi” che ci ha donato un finanziamento così consistente da portarci fuori dalle preoccupazioni e dai guai.

Accanto a queste “rose” così straordinarie ed esemplari, c’è stata poi un’infinità di “roselline” più modeste ma altrettanto belle e profumate: dalla pioggerella continua di offerte che da mesi continua a cadere dolce come quella “di marzo” del poeta della nostra infanzia, alla signora che s’è tolta i denti d’oro e ci ha mandato l’equivalente (100 euro per Campalto), alla giovane collaboratrice dal cuore d’oro e dalle mani prestigiose che sta restaurando, con una incredibile maestria, i vecchi lampadari che impreziosiranno la nuova struttura.

E’ stato un ininterrotto succedersi di gesti cari e gentili con i quali la città ha dato volto bello e cuore caldo alla nuova dimora per i nostri nonni.

E’ così difficile dare belle notizie?

Il bello e il brutto, il cattivo e il buono, si sono sempre incontrati e mescolati in ogni tempo e in qualsiasi società. Però mentre in tempi lontani, quando i mass-media non facevano la parte del leone nel comunicare alla comunità qualsiasi evento, c’era ugual spazio sia per le belle notizie che per quelle brutte, ora non è più così: la cronaca nera riempie tutti i giornali e tutti gli schermi televisivi, mentre la cronaca bianca è confinata in angoli oscuri e molto spesso non trova spazio alcuno nei mezzi di comunicazione sociale. Per questo motivo la nostra società di magagne e di brutture ne registra così tante da apparire perfino più brutta di quello che è, perché tra “nero” e “bianco” non vige assolutamente più la regola della pari opportunità.

Quando mi capita quindi di imbattermi in qualcosa di bello e di positivo, non ho quasi il coraggio di riferirlo perché la legge non scritta, ma assolutamente vigente, è che il positivo non fa notizia e perciò non fa vendere il giornale; tutto ciò quasi mi paralizza, facendomi capire che è fatica sprecata e fuori tempo segnalare quanto di buono avviene ancora nella nostra società.

Recentemente un mecenate del contado s’è fatto carico del restauro della vecchia cappella ottocentesca del nostro cimitero, ridotta in male arnese dall’incuria e dalle infiltrazioni di umidità. M’è parso giusto e doveroso segnalare alla città il nobile gesto di questa persona del contado, mentre la ricca borghesia mestrina se n’è stata, ancora una volta, alla finestra nonostante le ripetute segnalazioni di quel degrado da parte del Centro di Studi Storici di Mestre.

Ho preparato una relazione della benefica operazione e l’ho mandata al “Gazzettino”, alla “Nuova”, al “Corriere del Veneto” e al settimanale della diocesi “Gente Veneta”, con i quali collaboro da mezzo secolo. Con mia amarezza e sorpresa ho potuto constatare che solamente il settimanale ha pubblicato un bel servizio a firma del dottor Paolo Fusco, mentre gli altri se ne sono stati in assoluto silenzio. Evidentemente pare che a costoro non interessi affatto che ci sia ancora qualcuno che abbia una sensibilità sociale ed artistica, mentre in questi ultimi tempi si sono spese colonne su colonne per delitti, imbrogli, soprusi e via dicendo.

Il bene è difficile da farsi e pare che trovi difficoltà anche a proporsi all’attenzione dei cittadini.