Il fondamentale pensiero del vescovo Hedel Comara

Talvolta ho la sensazione che qualcuno mi ritenga un sognatore, che col retino in mano cerca di acchiappare farfalle sul prato, o il filosofo che con la candela in mano cerca l’uomo in pieno giorno. Tento però di non lasciarmi mai condizionare da quello che pensano gli altri, ma di ascoltare invece la voce del cuore e di quell’istinto profondo che certuni possono pensare irrazionale, ma che per me è la freccetta che, magari tremolante, mi indica il nord.

Da sempre, specie in questi ultimi anni, sono un appassionato cercatore di gesti belli, di persone care ed oneste, di pensieri sublimi – realtà che sono tanto più belle delle ali iridate delle farfalle – per metterle nel profondo del mio cuore perché anche nei momenti di stanchezza, di amarezza o di delusione riaffiorino dall’intimo del mio essere e mi offrano, nonostante tutto, speranza ed una visione positiva della vita.

Questa mattina un amico mi ha passato una fotocopia di pensieri del vescovo dei poveri dell’America latina, Hedel Camara, che lui stesso aveva ricevuto da una donna amica, quel vescovo che di contrarietà dai colleghi vescovi e dai prepotenti del suo paese ne aveva ricevute fin troppe.

La pagina, che avrei il desiderio di ricopiare tutta intera per gli amici – ma lo farò di certo nell’opuscolo mensile “Il sole sul nuovo giorno” – ruota tutta su due concetti. Il primo: “non scoraggiarti mai qualunque siano le difficoltà e le avversità che incontrerai – e le enumera quasi in maniera ossessiva – perché tanti sono gli ostacoli e le difficoltà quotidiane anche se tu fai del tuo meglio per non meritarle e per risolverle”. Il secondo – una verità splendida e luminosa: “Vivi nella certezza che Dio ti ama”.

Ha ragione Hedel Comara, il vescovo dei poveri: l’amore di Dio è più caldo, più dolce, più rassicurante dell’amore che anche la donna più affascinante ti possa offrire.

Nel leggere questi pensieri, mi vennero alla mente quelli di un giovane d’oltralpe, Guy de Larigaude: “Qualunque cosa possa succedermi, io sono sereno perché Dio mi ama, perché Egli è mio padre, colui che mi ha donato la vita”.

La diversità di opinioni è davvero una ricchezza!

Credo che sia naturale sognare ed anche perseguire l’obiettivo della unanimità di pensieri e di progetti. Ogni movimento politico, religioso ed anche associativo tenta in tutti i modi di aggregare persone che accettino gli stessi obiettivi e la pensino alla stessa maniera. Ogni forma di proselitismo nasce da questo desiderio e forse dall’inconscia sensazione che più si è, più si ha forza e più si può imporre quel tipo di società che, a nostro parere, sia la migliore.

Tutto questo porta al tentativo di convincere, prima, da un punto di vista razionale, e poi dal punto di vista meno nobile – anche se camuffato da altri motivi pretestuosi – di imporre le nostre soluzioni.

Di tutto questo i partiti e i movimenti politici degli ultimi due secoli sono stati l’esempio più eclatante e più tragico; basti pensare alla rivoluzione sovietica che, per raggiungere questa conformità sociale, ha fatto decine di milioni di vittime. Altrettanto è stato per il nazismo ma, anche se in misura minore, lo è stato pure il fascismo ed il franchismo.

Oggi, in maniera un po’ ipocrita e formale, va di moda affermare che la diversità di opinioni e di pensiero è invece ricchezza. Mi auguro che questa visione della vita sociale si possa affermare – però ho i miei dubbi – perché è difficile redimerci dal “peccato originale” del voler tutti fatti “a nostra immagine e somiglianza”. Che la diversità sia ricchezza piuttosto che intralcio alla vita sociale, pare sia una scoperta recente della quale molti se ne fregiano per far bella figura, anche se in realtà è una posizione difficile da accettare e da perseguire.

A dire il vero anche per me questo discorso è stato una “scoperta” recente. Di questo però mi vergogno perché Cristo, nostro maestro, da venti secoli ci ha insegnato la tolleranza, il rispetto verso non solamente i diversi, ma pure i perversi.

Pensavo a questi discorsi qualche settimana fa quando, nella parabola del grano e della zizzania, Gesù dissuade i servi troppo zelanti che proponevano di estirpare la “gramigna”. Nonostante questo discorso così chiaro del Maestro, durante i venti secoli di storia noi cristiani ne abbiamo fatte di tutti i colori con le crociate, l’inquisizione e le repressioni nei riguardi dei dissenzienti. Mi auguro che la nuova moda di pensiero ci renda più lucidi e docili all’insegnamento di Gesù.

Renato

Di primo mattino la voce dolce e pacata della signora Luigina mi ha raggiunto attraverso il telefono per dirmi che Renato non c’era più. Erano ormai molti mesi che questo vecchio parrocchiano, già duramente provato dalla sorte, non stava bene. Più di una volta comuni amici mi avevano fatto capire che lui era in grosse difficoltà.

Ultimamente andava su e giù dall’ospedale, ma la sua grinta e la sua voglia di vivere, nonostante tutto, finiva sempre per avere la meglio. Renato, quando lo incontravo, mi metteva paura perché mi costringeva a domandarmi se io avrei avuto la forza di vivere nelle sue condizioni.

L’avevo conosciuto decine di anni fa: brillante ufficiale d’artiglieria, sportivo, amante della bicicletta, del pianoforte e della fisarmonica, cantava, sorrideva, mangiava e chiacchierava sempre, con una passione intensa. Nel mio animo lo vedevo più come un bersagliere di corsa, con la tromba e le piume al vento, che non come ufficiale dentro, o fuori dalla caserma ad ordinare: “fuoco!”.

Viveva sempre con entusiasmo, con ebbrezza, in maniera così giovanile che pareva che il tempo non lasciasse segno sulla sua indole e sulla sua volontà.

Lo ricordo ai tempi della polisportiva, quando galvanizzava la sua squadra di pallacanestro. Con lui non si discuteva: dovevano giocare come stessero compiendo la più sublime delle attività umane. Lo ricordo spassoso e gioviale, scanzonato e brioso, suonare al pianoforte pezzi che sembravano sempre un invito alla carica, e il suo cantare con la fisarmonica tra le braccia come fosse su una tradotta di giovani coscritti.

Poi quella terribile e assurda caduta nel rifugio di montagna dove aveva portato i suoi nipoti. L’ho visto tra la vita e la morte. Vinse anche quella terribile battaglia e la vita riprese, tanto che in ospedale infilava i corridoi con la carrozzella facendo finta di investire infermiere e poveri grami come lui.

Nonostante mille difficoltà non smise mai di combattere, di vincere sempre, anche immobile in carrozzella era un vittorioso, gli occhi vivi e sorridenti, la voce roca ma la battuta sorniona.

Il Signore ebbe pietà di lui e gli volle bene forse perché superò perfino Giobbe nel credere, pur nelle più grandi avversità fisiche e morali, e per tutto questo gli mise accanto angeli supplementari che rasserenarono il suo cuore fino all’ultimo respiro.

Renato, pur essendo in artiglieria, “è andato avanti” come gli alpini. Gli ho chiesto di aspettarmi, non lo farò certo attendere molto, vecchio ed accidentato come sono. Sento però il bisogno di ringraziarlo per la sua testimonianza di coraggio e di volontà di vivere nonostante tutto. So di aver bisogno di questo esempio perché il tempo del passaggio è difficile per tutti.

Una lettura che mi ha messo in crisi

Io sono lento nella lettura e poi leggo solo per breve tempo negli scorci che mi rimangono liberi durante il giorno. Ci sono alcuni che affermano di divorare i volumi e di arrivare a leggerne perfino tre o quattro al mese. A me capita esattamente il contrario, mi ci vogliono due o tre mesi per finirne uno soltanto.

Ho cominciato da alcune settimane il volume “L’eremo non è un guscio di lumaca”, edito dalla Einaudi, di Adriana Zarri, la scrittrice, teologa del dissenso cattolico, o perlomeno abbastanza libera e talvolta dissenziente dalle linee portate avanti dalla gerarchia della Chiesa, ed ho appena passato la metà del volume.

Credo che sia stato nelle intenzioni di questa donna narrare la sua scelta di vivere in maniera eremitica. Essa ha ottenuto, non so come, un vecchio cascinale abbandonato sulle colline piemontesi ed ha scelto di vivere sola, mantenendosi coltivando la terra, allevando conigli e galline e scrivendo qualche articolo per “Il Manifesto” o facendo qualche lavoro di recensione per qualche casa editrice.

In verità il volume che sto leggendo non è un diario e, meno che meno, un racconto della sua vita, ma una riflessione approfondita e critica su tutto quello che noi comuni mortali diamo per scontato circa il rapporto con Dio, con la natura e con gli uomini. Una analisi puntuale, talvolta perfino spietata sul concetto di silenzio, solitudine, sul concetto di sacro, di profano, di rapporto con gli uomini, con la terra, con gli animali.  Dalla lettura emerge una figura di eremita profondamente intellettuale, in costante verifica dei contatti e i rapporti del vivere quotidiano.

Man mano che vado avanti nella lettura, le riflessioni della Zarri mi mettono in crisi, perché mi fanno capire quanto superficiale, scontato, sia il mio vivere, il mio credere, i miei rapporti con le cose, gli uomini e la natura. La Zarri mi costringe a fermarmi, a verificare, a guardare dentro e a prendere posizioni nuove di fronte alla realtà del vivere. Le pagine intense e turgide di pensiero mi fanno cogliere la testimonianza di questa donna per la quale Dio è veramente tutto, emerge da ogni respiro, da ogni esperienza e da ogni lavoro.

Di certo, quando avrò finito il volume, io forse non mi ritirerò in una grotta o in una caverna di un monte, ma certamente non potrò più vivere in maniera scontata come prima e Dio non lo penserò solamente in qualche momento del giorno e non lo vedrò solamente nei riti, ma spero che diventerà per me, come per la Zarri, “il respiro” della vita.

Ancora una volta deluso da taluni politici cristiani

Nota della redazione: come consuetudine i commenti di don Armando, scritti in gran numero e largo anticipo, arrivano “alle stampe” con un certo ritardo. Nello specifico il disegno di legge cui fa riferimento non è ancora stato approvato.

In queste ultime settimane il nostro parlamento si è impegnato finalmente, in maniera un po’ meno esasperatamente polemica del solito, per salvaguardare la nazione da attacchi speculativi che la potevano mandare a picco: un’operazione finalmente riuscita. Ma contemporaneamente è pure giunto alla conclusione di un argomento che interessa meno l’opinione pubblica, che però è quanto mai importante, qual’è quello del “fine vita”.

Io, purtroppo, non sono un esperto neppure in questo settore, pur avendo qualche convinzione ben ferma e radicata in proposito. Radicali, in maniera particolare, ma pure una grossa fetta della sinistra e della destra liberale, per un’ennesima volta hanno tentato di darsi da fare con quella passionalità e faziosità che sono loro proprie, per introdurre nel nostro Paese l’eutanasia, ossia la “dolce morte” garantita e favorita dallo Stato, come è avvenuto per l’aborto.

Lo Stato laico pare che voglia scardinare i valori fondamentali della vita trattandola come una realtà in balia e in totale arbitrio dell’individuo, e così intaccare ulteriormente la sua sacralità difesa dal Cristianesimo.

Da quanto ho potuto apprendere dalla stampa in generale, e da quella cattolica in particolare, quale “L’avvenire”, la legge che ne è uscita pare accettabile. La Chiesa, nella sua globalità, s’era decisamente opposta con ogni mezzo alle tesi dei radicali, dei liberali e dei marxisti. Ora, grazie alle forze del centrodestra e dell’UdC, si sarebbe ottenuto questo risultato che pare rispettoso della vita e che non permette ad alcuno di sopprimere anche chi viva in maniera, almeno apparentemente, vegetativa.

In questa occasione ho avuto però un’ulteriore delusione ed amarezza. S’era detto che i cristiani, in qualunque partito militassero, sui valori fondamentali si sarebbero sempre trovati uniti e concordi. Mentre questo è avvenuto per i seguaci di Casini, non mi pare che sia successo per i cattolici militanti nel partito democratico. Credo che la Bindi, Fioroni, Franceschini ed altri ancora, abbiano votato per disciplina di partito assieme ai loro amici miscredenti.

In tempi ormai lontani il cardinal Ottaviani aveva definito personaggi del genere “comunistelli da sagrestia”. Ho l’impressione che questa definizione sia ancora valida. Mi dispiace tanto perchè, avevo sognato che i cristiani avrebbero potuto militare in ogni partito senza tradire la propria coscienza.

La Comunità che ho sempre tentato di promuovere

Io non ho mai creduto a quelle catechesi nelle quali un gruppetto di superpraticanti s’incontrano ad ogni pié sospinto per dirsi sempre le solite cose e per scambiarsi discorsi scontati e poco esaltanti. In realtà non mi sono neanche mai dato troppo da fare per mantenere in essere un apparato formale voluto da chi vive lontano dalla gente. Ho invece sempre tentato di incontrare gli uomini ove li potevo trovare, di fare i discorsi che essi potevano capire e di trattare le verità che a loro potevano interessare. In una parola ho sempre abbandonato una pastorale artificiosa ed aristocratica favorendo una fede ed una religiosità popolare.

A dire la verità mi sono sempre trovato bene e nella mia parrocchia di un tempo ho avuto la conferma di muovere le pedine giuste quando, nel sondaggio promosso dal Patriarca Scola, per verificare la frequenza al precetto festivo nelle varie comunità della diocesi, la mia parrocchia ha registrato uno degli indici di frequenza tra i più alti. E’ risultato che ben il 42% dei fedeli alla domenica frequentava la messa.

Ho cercato di parlare alla mia gente della fede di Dio e dell’amore al prossimo quando li potevo incontrare: alla messa festiva, durante i matrimoni, ai funerali. Ho dedicato meno tempo possibile ai pochi eletti e il più possibile, non dico ai lontani, ma agli uomini, quelli senza aggettivi qualificanti.

Ho usato tutti i mezzi a mia disposizione per tenere aperto costantemente un dialogo fraterno, tramite la visita annuale a tutte le famiglie e il settimanale che informava in maniera dettagliata sulla vita parrocchiale, con una descrizione attenta dei problemi aperti, in maniera che tutti ne fossero partecipi. Ho promosso la musica, l’arte, la ricreazione e l’associazionismo giovanile e dei ragazzi, una rete di servizi a favore degli anziani, dei poveri, degli ammalati, ho dato vita ad una serie di strutture per le vacanze e per la residenzialità e la vita degli anziani.

Non tutti i parrocchiani partecipavano agli incontri e alle iniziative, però tutti le conoscevano e tutti erano coinvolti e ne erano idealmente partecipi.

Ho tentato in tutti i modi di promuovere un sano umanesimo cristiano che desse risposte globali alle attese e alle problematiche esistenziali di tutti.

La comunità che ho sempre tentato di promuovere e che forse qualcuno ha pensato che si rifacesse alla cristianità di Costantino, non era una accolita di eletti, ma una famiglia di uomini e di donne vere che tentavano di vivere al meglio.

Don Gianni a Carpenedo

Mentre ero a tavola mi ha raggiunto la telefonata di un mio caro amico, giornalista al “Gazzettino”: «Don Armando, questa sera sarà formalizzata la nomina di don Gianni a parroco di Carpenedo!»

Per me è stata veramente una bella notizia! Mi spiace per don Gianni, il parroco – diciamo pure – “vulcanico” di San Lorenzo Giustiniani, che in pochi anni ha galvanizzato quella parrocchia quieta e sonnacchiosa, facendone una comunità nuova, rigogliosa e promettente, e che ora dovrà bruscamente abbandonare.

Più volte mi ero recato a vedere come don Gianni aveva trasformato ed abbellito la chiesa e trasformato quel fazzoletto di scoperto adiacente alla canonica in una specie di arca di Noè per i suoi ragazzi. A molti sembrava che quella parrocchia, nata da un dono di Papa Roncalli e dalla furbizia di un proprietario di terra, il quale valorizzò il suo terreno donandone un pezzettino per la chiesa, fosse destinata ad una vita striminzita e senza domani.

A tutti, per molto tempo, parve una parrocchia decentrata e destinata alla solitudine, ma l’arrivo di questo giovane prete, che aveva fatto una splendida esperienza nella comunità di Chirignago, fece il miracolo di “far fiorire il deserto”.

Mi è capitato di vedere il grest, il patronato, le prime comunioni, la canonica sventrata per far sedi per i ragazzi e m’è parso di vedere vita, innovazione, fiducia nel domani ed ho capito che quel giovane prete spilungone e dagli occhi un po’ spiritati, che spesso porta la tonaca e d’inverno il tabarro, aveva anima e coraggio, determinazione e volontà di spendersi. Più di una volta ho avvertito che eravamo sulla stessa lunghezza d’onda.

Venendo egli a Carpenedo, mi sembrerà che il vecchio cuore della parrocchia che fu mia per tanti anni ricominci a battere a ritmo intenso, quel ritmo che ho avvertito per quasi mezzo secolo. La notizia mi ha rallegrato, ho avuto la sensazione di aver ritrovato la famiglia di un tempo, di cui potrò essere anche un trisavolo che guarda, seduto nella seggiola accanto al fuoco, però compiaciuto e felice di respirare aria di casa.

La notizia poi mi ha fatto riaffiorare il vecchio sogno e il progetto, non totalmente abbandonato, che finalmente Dio e il prossimo possano tenersi per mano e che la comunità parrocchiale possa camminare finalmente in maniera armoniosa in modo che il passo della fede e quello della solidarietà si alternino e procedano in perfetta armonia sorreggendo il corpo di Cristo che finalmente s’offre agli uomini di oggi nel suo vero splendore di figlio di Dio e di figlio dell’uomo.

Il dolce ricordo di una pagina meravigliosa della mia vita di giovane prete…

Qualche giorno fa è venuto a Mestre a visitare sua madre Rachele, che vive con me al “don Vecchi”, un mio nipote che abita a Pisa, ma vi starà ancora per poco tempo perché si trasferirà per lavoro nel Qatar.

Angelo è uno di quei piloti dell’Alitalia che la triste vicenda della compagnia di bandiera ha lasciato a terra. Giovanissimo e brillante comandante, senza appoggi politici, è stato uno di quegli aviatori sacrificati dalla politica dissennata e dall’azione irresponsabile dei sindacati. Oggi non è facile volare, con la crisi di tante compagnie e questo “ragazzo”, che s’è fatto tutto da sé, pur di garantire un avvenire sicuro al suo piccolo, andrà tra gli arabi nel deserto, ove il petrolio offre ancora una speranza di lavoro.

Prima di partire ha voluto che il suo bimbetto e la vecchia nonna potessero riempirsi gli occhi e lo spirito di quelle Dolomiti legate alla sua infanzia.

Suo padre Amedeo, capomastro capace e generoso, aveva restaurato la “vecchia dogana” a Misurina, che con monsignor Vecchi ribattezzammo con disinvoltura “Rifugio San Lorenzo”. Mentre mio nipote mi raccontava, quasi sognante, la sua gita a Misurina, riemergeva nella mia memoria una pagina fantastica delle avventure di giovane prete con i ragazzi di San Lorenzo.

La telefonata del mio parroco, mentre insegnavo alle magistrali: «Vieni, Armando, ho trovato una casa per i nostri ragazzi!».

Girammo una giornata intera per convincere i 12 proprietari a venderci la vecchia casa. Poi il restauro. Mio padre che costruì i tavoli, i letti a castello. Le squadre di ragazzi e ragazze che ogni quindici giorni si avvicendavano. Le messe in quella Valbona che credo sia una dépendance del Paradiso terrestre, i rifugi, le Cime di Lavaredo, i canti del dopo cena. Quanta fatica! Quante avventure, quanta gioia!

Ora non so come sia andata a finire, chi vi abiti; comunque nel mio cuore rimarrà per sempre una pagina meravigliosa della mia vita di giovane prete.

Il piccolo pronipote ascoltava incantato la nostra conversazione che ricordava episodi e sensazioni belle del nostro passato.

Chiesi curioso: «Nella parrocchia dove abiti a Pisa, fate qualcosa del genere?». «Purtroppo no!» Una volta ancora debbo constatare che per molti preti l’educazione alla fede si riduce ad un minuscolo ingranaggio della vita, e non, come lo intendo io, ad un “abbraccio caldo e profondo di Dio” e a tutto quello che interessa l’uomo, il presente, il domani, la terra e il cielo!

L’antica cappella del cimitero di Mestre

Mi sento un po’ come Salomone che riuscì a costruire a Gerusalemme il tempio, la dimora di Dio in terra. David l’aveva sognato, mentre suo figlio ebbe il compito di realizzare il sogno di suo padre per riporre nella “Sancta sanctorum” le tavole della legge e il bastone di Aronne.

Così è avvenuto anche per me. Il tempietto ottocentesco, che per due secoli ha raccolto le preghiere e le lacrime dei mestrini, dopo la costruzione della nuova chiesa prefabbricata, nella quale ora celebriamo le sacre liturgie, arrischiava di rimanere in un inesorabile degrado ed abbandono. Il signor Mario De Faveri, imprenditore illuminato e generoso del contado, ha avuto il coraggio di affrontare la burocrazia sia della Veritas che della Sovrintendenza alle Belle Arti, che finalmente gli hanno “concesso la sospirata grazia” di poter pagare in proprio il restauro della “cappella della Santa Croce”.

Ne è venuto fuori un luogo pulito ed in ordine, che in verità avrebbe potuto anche essere migliore se i “competenti” non avessero messo lingua. Per il resto ci hanno pensato i fedeli, dotando la chiesa di ceriere elettrificate per non sporcare di nuovo il soffitto. Io ho avuto il “coraggio” di rimuovere una vecchia e mastodontica copia della Madonna del Raffaello che però era molto amata, sperando che ora si innamorino della copia della Madonna della Consolazione che ho installato al posto della brutta riproduzione, in modo che, almeno in cimitero, non ci siano conflitti o concorrenze tra Madonne diverse!

Un amico, già prestigioso tecnico di Radiocarpini, ha rinnovato l’impianto fatiscente di amplificazione sonora ed ora sta lavorando ad un collegamento via ponteradio tra la vecchia e la nuova chiesa in maniera che ci sia sintonia di messaggi spirituali in tutto il camposanto.

Ora abbiamo riportato “il Signore” nel tabernacolo e suor Teresa ha provveduto all’arredo sacro e floreale, più ordinato e sobrio di quello di prima.

La “vecchia cappella” è diventata veramente “l’antica cappella” acquistando dignità e sacralità. Il vecchio porticato che rappresenta “le braccia aperte” della Chiesa, sta aspettando l’intervento promesso dalla Veritas per essere un degno prolungamento ideale della “casa del Signore” per accogliere i resti mortali dei figli di Dio.

Devo imparare a lasciarmi trasportare fiducioso dalla misericordia del Signore!

Renzo Tramaglino, il famosissimo personaggio dei “Promessi sposi”, impegolato fino al collo in eventi più grandi di lui, pur essendo un sempliciotto, constatando come lassù ci sia Qualcuno che manovra i fili, non soltanto della grande storia, ma anche di quella piccola intessuta dalle banalità del quotidiano, ha avuto la sapienza di concludere “La c’è la Provvidenza!” quando, attraversato l’Adda, mise piede nel terreno sicuro della Serenissima. Meglio sarebbe dire che la fede di Manzoni sapeva leggere nella trama complicata, e spesso aggrovigliata, degli avvenimenti, che spesso sembrano assurdi, ingiusti e crudeli, una regia saggia e generosa che pian piano sbroglia la matassa ed apre sentieri fin poco prima sconosciuti. Così è capitato anche a me, che sono un povero diavolo indifeso e sempliciotto quanto il promesso sposo di Lucia.

La Regione, ch’era rimasta assolutamente sorda alle richieste d’aiuto, in modo insperato s’è offerta di finanziare un progetto pilota per gli anziani in perdita di autonomia. Nonostante questa Provvidenza mi rimaneva scoperto il tassello essenziale: reperire un terreno per dar vita a questa nuova struttura provvidenziale. Non sapevo più da che parte girarmi, sennonché l’ANAS, improvvisamente ed inaspettatamente, ha comunicato al Comune di Venezia di dover rinunciare alla nuova bretella che doveva costruire parallela a via Orlanda. Tutto questo mi potrebbe rendere fortunatamente disponibile cinquemila metri di proprietà della Fondazione, sui quali possiamo tranquillamente costruire la struttura pilota.

Stesso discorso dicasi per i magazzini della solidarietà. Il Patriarca ha ripreso in mano l’iniziativa e con un colpo di reni ha organizzato una “cordata” di piccoli imprenditori del privato sociale reperendo la somma necessaria per costruire i magazzini.

In una mezza giornata la Provvidenza ha messo assieme una serie di tasselli sufficienti per dar volto al mosaico di queste realtà solidali che fino al giorno prima ritenevo inimmaginabili.

Non ho ancora imparato ad abbandonarmi alla sapienza e all’onnipotenza del buon Dio! Spero che almeno prima di morire imparerò finalmente a rimanere a galla “facendo il morto”, ossia lasciandomi portare dall’onda del mare della misericordia del Signore.

Una nuvola

Leggo sempre con curiosità ed attenzione i periodici delle parrocchie della nostra città. Confesso che io sono esigente e mi aspetterei di più e di meglio, mentre invece molto spesso ho di che rattristarmi.

Al di fuori di cinque o sei “Foglietti parrocchiali” nei quali s’avverte un qualche impegno per curare la forma e i contenuti, per il resto avverto una vera desolazione per la sciatteria nell’impostazione grafica e per il deludente squallore del messaggio e delle riflessioni contenute.

Seguo però con particolare interesse il foglio “Proposta” della parrocchia di San Giorgio di Chirignago nella quale è parroco il mio fratello minore don Roberto.

A don Roberto non mi lega solamente il fatto che è mio fratello più piccolo, ma anche perché nutro una stima grande per la sua opera pastorale intelligente, generosa ed incisiva.

Sono convinto che la sua parrocchia sia una delle migliori del Patriarcato, per il vasto vivaio giovanile, per la partecipazione alla liturgia e per la vivacità pastorale. Don Roberto parla bene e scrive meglio, ha un preriodale vivace, immediato, fresco e scorrevole, credo che lui sia contento del suo foglio “Proposta”, mentre io penso che con le doti che possiede, potrebbe essere anche migliore, comunque è un foglio in cui si avverte un dialogo aperto con la sua comunità e da cui traspare l’intensità delle iniziative pastorali.

In un numero di qualche tempo fa ho però letto un editoriale in cui si avvertiva la sua stanchezza, il suo logorio per un’attività frenetica e soprattutto la sua solitudine ideale, motivo per cui faceva trasparire quasi il desiderio di un trasferimento perché deluso dalla sua gente che a suo parere da per scontato la sua fatica e pretende sempre di più.

E’ un luogo comune che tutti diano per scontato la generosità a cui qualcuno particolarmente convinto ed impegnato, abitua la sua gente, mentre tutto ha un prezzo e talvolta salato.

Spero che quella di mio fratello sia solo una nuvola da stanchezza però da un lato è doveroso che è ben difficile rispondere alle attese al bisogno o ai “grilli” di una decina di migliaia di abitanti, e dall’altro lato sarebbe necessario che il vescovo (che ora non so perché non lo mandino) fosse più paternamente vicino e partecipe alle difficoltà dei suoi preti; cosa che avviene di rado!

°Il virus delle vacanze° non smette di contagiare neanche in tempi di crisi!

I giornali insistono nel ripetere che la crisi crea milioni di nuovi poveri, che la gente non arriva alla fine del mese, che non è ancora passato il tornado della speculazione finanziaria, che l’industria non decolla, che tante imprese chiudono, che ora anche i cittadini che un tempo vivevano in maniera modesta, ma autonoma, sono costretti a ricorrere alle mense popolari.

Altri articoli forniscono a getto continuo statistiche su statistiche che dimostrano il deprezzamento della moneta, la perdita del valore d’acquisto delle paghe degli operai e degli impiegati, ma soprattutto dei pensionati.

Tutto vero, anche al “don Vecchi”, se mi capita di parlare di pensioni, c’è un immediato riscontro delle difficoltà per la modestia delle stesse. Però gli stessi giornali, giorno dopo giorno, ci forniscono il numero dei milioni di automobilisti che si mettono in strada per le vacanze, mostrano spiagge talmente sovraffollate da farti venire un sentimento di compassione per i “condannati” al mare o per chi deve affrontare i lavori forzati per raggiungere la sospirata meta per la villeggiatura.

Anche al “don Vecchi”, nonostante che per statuto tentiamo di accogliere i più poveri, mi accorgo che alla chetichella, senza quasi darlo a vedere, con le soluzioni più disparate, i residenti sono scomparsi per ritornare dopo qualche settimana tutti abbronzati.

Una volta ancora ho avuto l’impressione che i mass-media “impongano” le ferie a qualunque costo. Questo passi pure, può far parte della fragilità umana, ma il fatto che le parrocchie abbiano smesso ogni attività, ridotto in maniera vistosa il numero delle messe, sospendano le pur modeste pubblicazioni dei settimanali, aprano le chiese tardi e chiudano presto, mi dà l’impressione che “il virus” delle vacanze abbia la meglio anche in questo settore.

Quello poi che mi stupisce ancora di più, è che non si avverta una sola voce, in alto ed in basso, che inviti alla sobrietà, al risparmio e a non sprecare, a godere delle cose semplici, della vita in famiglia, di accontentarsi di quello che ci si può permettere. Mi pare che oggi taccia perfino la voce solitaria “che grida nel deserto”.

Per me è preoccupante che siano venuti a mancare anche i profeti, seppur inascoltati. Per quel che mi riguarda, anche se sono vecchio, con compiti ben modesti, per coerenza alle difficoltà del momento e soprattutto ai dettami evangelici della solidarietà verso gli ultimi, non solo me ne sono stato a casa durante l’estate, ma ho persino la presunzione di essere più contento ed avvantaggiato da ogni punto di vista rispetto a chi è andato in ferie ad ogni costo.

Un richiamo di Gesù

Ogni giorno ho modo di confrontare la fatuità e la miseria dei discorsi dell’uomo con la consistenza e la validità dei discorsi di Cristo.

I miei amici conoscono le mie abitudini, i ritmi e le mie scelte esistenziali. Al mattino, con un rapido succedersi di passaggi, comincio prima la preghiera personale e dopo quella liturgica del breviario, per passare ad una rapida scorsa del quotidiano e proseguire poi con la lettura e la meditazione sul brano del Vangelo che la Chiesa offre all’attenzione dei cristiani appartenenti alle infinite comunità sparse in tutto il mondo che ogni giorno si incontrano per celebrare i santi misteri della nostra salvezza.

Questa mattina il breviario mi ha fatto conoscere miserie antiche dell’uomo, la sua sete di potere, di abuso della fede per fini personali. Tutto però in un ambiente chiuso, angusto e, tutto sommato, timorato di Dio anche se disobbediente ai suggerimenti del Signore.

Son passato poi allo sfoglio del quotidiano: una vera rassegna di miseria, di imbrogli, di misfatti d’ordine personale e soprannazionale. Il “Gazzettino” sembrava un’antologia delle peggiori nefandezze ed imbrogli dei quali è capace l’uomo del nostro tempo.

Infine ho letto il brano del Vangelo nel quale Gesù se la prende con le città della Palestina nelle quali Egli aveva maggiormente offerto il suo messaggio ed aiutato le persone in difficoltà. Le argomentazioni e pure le minacce di Gesù mi sono suonate amare e taglienti nei riguardi di questo nostro vecchio mondo occidentale che ha ricevuto per primo “la buona notizia” e che oggi ignora o ne fa un cattivo uso. E più ancora mi sono sembrate dure nei riguardi di me stesso e di noi praticanti cresciuti fin dalla prima infanzia con un’educazione religiosa.

Oggi le nostre parrocchie, le nostre associazioni e i nostri preti, pare quasi che si trastullino e che sonnecchino sopra il patrimonio evangelico che ci è stato donato con tanta abbondanza e generosità e se ne stiano pressoché inerti senza “buttare la rete” a destra e a sinistra.

M’è parso che Gesù desse almeno a me un “cicchetto” forte e deciso, facendomi capire una volta ancora le mie responsabilità verso il Vangelo e verso i fratelli. Una volta ancora ho avvertito il messaggio mordente della parabola dei talenti.

Avanti nonostante tutto e tutti

Ogni tanto mi vengono a galla delle vecchie reminiscenze di letture lontane. Ai tempi della “cortina di ferro” e delle “purghe” da parte del regime sovietico, giravano, nel nostro Paese, due romanzi che mettevano in luce la stupidità e la spietatezza di quel regime. D’altronde tutti i regimi totalitari, dietro le facciate piene di retorica, di frasi altisonanti e di ideali validi soltanto per i sudditi, si nascondevano, e si nascondono ancora, meschinità miste a stupidità, inganno e schiavismo. Così è stato per Hitler, Franco, Mussolini e Stalin, i despoti dei tempi della mia giovinezza.

Ricordo a proposito queste due opere: “Buio a mezzogiorno” di Kestler, romanzo che raccontava l’atrocità delle purghe di quel sadico che fu il capo del regime sovietico, e “La fattoria degli animali” – altro stile, altro modo di far denuncia – altrettanto efficace perché, attraverso lo stile della favola, credo che lo stesso autore – se ben ricordo – denunciasse l’assurdità dell’utopia comunista.

Queste reminiscenze però mi portano a pensare che quei regimi e quei capi hanno portato a forme parossistiche il loro sadismo. A questo mondo però in tutti i comparti della società si verificano in maniera molto più tenue e velata le stesse miserie.

Nella “Fattoria degli animali” l’autore denuncia che nel regime dell’eguaglianza eretta a sistema ci sono degli animali-uomini “più uguali” degli altri, che campano sulla fatica e sul sudore altrui che prendono sul serio la proposta e l’utopia. Ricordo ad esempio il cavallo stacanovista che in ogni situazione, talvolta per scelta ideale e talvolta per costrizione psicologica, si metteva sempre alle stanghe e tirava la carretta, finché un brutto giorno non ce la fece più e “scoppiò” dalla fatica.

Ho paura che questi processi facciano parte della dinamica della storia: c’è chi per convinzione e per coerenza ideale abbraccia un sogno, un progetto e vi spende ogni sua risorsa vitale, mentre altri, i soliti furbi, fan finta di credere a queste visioni ideali, si vestono con questi progetti di profondo respiro sociale e perfino religioso, e poi vi campano sopra, facendosi belli della fatica e dei sacrifici di quegli umili stacanovisti che si giocano la vita per raggiungere mete belle, ma il cui prezzo debbono pagare solo loro. Ogni tanto, in rapporto a certe vicende e certe carriere, fa capolino anche nel mio animo il dubbio che qualcuno possa usare la mia buona fede a proprio basso interesse. Poi, almeno finora, ho concluso che io debbo dare la mia testimonianza nonostante tutto e tutti.