La visita del Sindaco Orsoni al don Vecchi

Il dottor Boldrin, membro della Fondazione che governa i Centri “don Vecchi”, qualche tempo fa ci ha portato il sindaco Orsoni.

Il noto avvocato veneziano era già venuto al “don Vecchi” per la campagna elettorale. In quella occasione gli avevamo prospettato le problematiche del Centro, ma m’era parso così sperduto, frastornato per i tanti incontri, per i tanti problemi che il Comune di Venezia ha da sempre.

In verità gli avevo già mandato nei mesi scorsi, quando ero pressato dalla gran paura di non farcela a pagare Campalto, due lettere accorate per chiedere aiuto. Non avevo ricevuto risposta alcuna e ciò mi aveva un po’ indispettito e deluso. Poi, leggendo i giornali, che da mesi e mesi non hanno fatto che parlare della crisi finanziaria in cui il Comune di Venezia si dibatte, e conoscendo purtroppo, per esperienza diretta, la burocrazia comunale, dispersiva ed inefficiente – infatti i giornali in questi ultimi tempi ci hanno informato che è pure corrotta – ho provato un po’ di pena, immaginandolo indifeso ad annaspare fra infiniti problemi. Motivo per cui l’ho risparmiato dalla mia critica che non vorrebbe guardare in faccia nessuno e che esige efficienza, servizio e attenzione particolare per i più poveri.

Il sindaco ci ha ascoltato paziente; mi è sembrato che abbia condiviso i nostri sforzi tesi solamente a dare una mano al suo e nostro Comune, per cui l’amministrazione dovrebbe esserci eternamente riconoscente, perché noi facciamo presto, a poco prezzo e in maniera efficiente, quello che per il Comune richiederebbe anni e a costi astronomici.

In verità l’avvocato Orsoni non si è compromesso più di tanto, comunque credo che almeno egli ci abbia aperto la porta perché il discorso possa continuare con i suoi collaboratori.

Anche in questa occasione il sindaco mi ha ripetuto che gli ho fatto catechismo quando era bambino. Io non ricordo il bimbetto di cinquant’anni fa, ma di certo gli ho insegnato che il buon Dio vuole che amiamo il nostro prossimo, specie quello più indifeso e quello più povero. Spero tanto che egli non abbia dimenticato questo insegnamento del suo prete-catechista e mi dia una mano per aiutare i poveri.

Profumo di fraternità

Recentemente mi sono recato al “don Vecchi” di Marghera per informare i residenti che i due volontari che quattro anni fa si sono assunti la responsabilità di gestire il Centro, lo hanno avviato e seguito fino ad oggi, se ne andavano da Marghera per aprire il nuovo Centro e far nascere la nuova comunità di Campalto.

Lino e Stefano in questi quattro anni hanno donato il loro tempo e le loro energie perché il “don Vecchi” di Marghera crescesse in un clima di fraternità e in un ambiente signorile e sereno. Ora che stanno raccogliendo i frutti dell’impegno non facile di far convivere persone provenienti da ambienti e da esperienze le più diverse, e non tutte facili, hanno sentito il dovere di rendersi disponibili per aprire la nuova comunità di Campalto. Senza batter ciglio e pretendere riconoscimenti di sorta hanno fatto fagotto e sono partiti verso una realtà che ora assomiglia più ad un cantiere che ad una convivenza per anziani. Non ci saranno né fanfara, né sindaco, né Patriarca a riconoscere i loro meriti, devono accontentarsi del grazie di questo povero vecchio prete che non cessa di sognare la Terra Promessa. Essi lasciano una dimora avviata per sobbarcarsi l’impegno di dar vita ad una comunità di cui, per ora, ci sono solo i muri; impegno certamente arduo!

Nel contempo essi hanno preparato, a sostituirli, una coppia di sposi, Teresa e Luciano ai quali ho chiesto di diventare padre e madre della grande famiglia di soli nonni che ha dimora presso la chiesa dei Santi Francesco e Chiara di Marghera. Neanche per queste due care persone ci saranno mandati ufficiali, contratti per remunerazioni adeguate, ma solo l’onore di poter servire anziani, vecchi genitori dei quali molto spesso i figli non si sono fatti carico.

In questo passaggio di consegne senza difficoltà s’è respirato solamente profumo di fraternità, sogno di un mondo nuovo, desiderio di far felici gli infelici.

Il tutto si è svolto in un ambiente quasi incantato, prato verde rasato come un tappeto, pavimenti lucidi, quadri alle pareti, silenzio e buon gusto. Me ne sono tornato a casa con la sensazione che il “Regno” di cui Cristo parla di frequente nel Vangelo sia del tutto simile, se non uguale, a quello che già esiste in via Carrara 10 a Marghera, accanto alla Chiesa dei Santi Francesco e Chiara.

La caduta di don Verzè

Lo stato d’animo con cui apprendo il susseguirsi di notizie sulla voragine di debiti del San Raffaele di Milano e della conseguente notizia del suicidio del braccio destro di don Verzè e defenestrazione di questo prete, mi ha portato dalla sorpresa alla delusione e quindi allo sconforto. Questo succede ogni volta che s’apre una crepa e frana un’istituzione che tutti per molti anni hanno creduto meravigliosa e viene fuori una serie di notizie che nemmeno potevamo immaginare.

Io non ho certamente modo di verificare ciò che afferma la stampa, che cioè la Fondazione di don Verzè aveva investito in alberghi, in fazendas e che questo prete aveva un suo aereo personale, ma se ciò fosse vero ne sarei ulteriormente rammaricato e sarei quanto mai deluso che dietro ad una così bella facciata ci fossero affari e sperpero non conciliabili con la vita di un prete che è chiamato ad essere povero e a cui il diritto canonico vieta il commercio.

Due altre volte ho parlato su “L’incontro” di don Verzè e le sue opere e sempre con grande ammirazione per la sua testimonianza di fede e di carità cristiana; ora mi ritrovo a constatare che ho preso un grosso abbaglio che turba la mia già fragile stima sul comportamento di tanti preti e che mi costringe a ribadire, per me ma anche per tutti gli operatori ecclesiastici e civili, che quando le parole e le opere non sono accompagnate da una coerenza e da una sobrietà di vita personale, esse spesso sono effimere e per nulla credibili.

Cristo, maestro mio e di don Verzè, ma anche di chi si dichiara cristiano, ci ha detto chiaramente: «Andate, non portate due tuniche o denaro nella cintola ed annunciate che il Regno è vicino, e siate solidali con chi soffre». Questo monito vale per la “casta politica”, ma più ancora per la “casta ecclesiastica”. Quando il meccanismo di certe opere e di certe persone si inceppa, vengono fuori inaspettate magagne che scandalizzano “i poveri”. Purtroppo di queste sorprese ne sono venute fuori fin troppe dal mondo della politica, della Chiesa e della magistratura.

E’ male quando si scopre qualcosa di poco chiaro, o peggio di marcio, nel mondo dell’industria e del commercio, ma quando questo capita nei capisaldi della società – i governanti, gli ecclesiastici e i magistrati – è veramente rovinoso perché queste istituzioni dovrebbero rappresentare la coscienza sana del Paese.

I costi che gravano sulla solidarietà

Per grazia di Dio in questi ultimi tempi un signore di Mirano ha lasciato in eredità alla Fondazione l’appartamento in cui viveva: un bell’appartamento, anche se un po’ vecchiotto, di 140 metri quadri di superficie e in bella posizione.

L’intenzione era di lasciarci la casa che si era costruita in una vita di lavoro, purtroppo l’imprecisione con cui ha scritto il testamento non ci ha permesso di beneficiare di tutto ciò che intendeva destinare agli anziani in difficoltà, ma solamente dell’appartamento in cui abitava. Pazienza! Quello che la Provvidenza ci ha fatto avere è stata già una vera manna del cielo che ha concorso in maniera determinante a coprire i costi del “don Vecchi” di Campalto.

Ora, espletate le pratiche non facili per la successione, affronteremo l’impresa di venderlo – in questo momento, il più infelice per alienare una casa. Oggi ho pagato la parcella del professionista che ha seguito la pratica. In Italia un povero cittadino normale viene a trovarsi in un labirinto di pratiche per cui è praticamente impossibile fare da sé; devi sempre ricorrere all’esperto che ti aiuti.

Il nostro esperto, che ci ha detto che ci ha trattato bene perché sa che cosa stiamo facendo, ci ha chiesto cinquemila euro. Il costo non si ferma qui perché su questa somma lo Stato, che pure sa quanto stiamo facendo avendoci inseriti nel catalogo delle Onlus – cioè degli enti di beneficenza – ha preteso, su questa parcella, il 20 per cento di Iva ed un altro 20 per cento per la trattenuta d’acconto.

Io so, per motivi di giustizia e di solidarietà e perché devo insegnare la morale, che è giusto pagare le tasse, ma credo che sia sacrilegio che lo stesso Stato butti questi soldi, che andrebbero direttamente ai poveri, li sprechi e li consegni ai burocrati inconcludenti che passano le giornate per complicare la vita ai cittadini che lavorano e più ancora a quelli che per scelta si fanno carico delle difficoltà dei meno abbienti.

Brunetta ha fatto qualche sparata iniziale, però ho l’impressione che ad esempio l’assenteismo, dopo il primo momento di resipiscenza, continui pacificamente – vedi Rovigo dove più della metà dei dipendenti della Regione vanno pacificamente a farsi le spese in orario di “lavoro”.

Don Bruno Bertoli, un prete libero

Il Gazzettino di un paio di mesi fa ha dedicato un piccolo riquadro, nella parte alta della pagina della cronaca di Venezia, alla morte di Bruno Bertoli. Una notizia scarna e sbrigativa sulla vita e sulla fine di questo sacerdote veneziano.

Don Bruno meritava certamente molto di più perché è stato un protagonista nella nostra Chiesa, soprattutto nell’epoca immediatamente successiva al Concilio Vaticano Secondo, quando la Chiesa sembrava un prato tutto pieno di germogli.

Don Bruno s’era schierato dalla parte di chi ha sognato un rinnovamento radicale e che fu soccombente, non per questo non rimase fedele al suo servizio pastorale e non per questo cessò di dare il meglio di sé, anche se la Chiesa veneziana prese un indirizzo diverso da quanto questo sacerdote serio ed intelligente sognava.

A quel tempo don Bruno seguiva la gioventù studentesca e in particolare la Fuci, movimenti che in quella stagione della Chiesa volevano una svolta estrema, significativa e la volevano subito e decisa.

Il Patriarca di allora, che era il cardinale Luciani, credo con vera sofferenza, non poteva recepire completamente le attese di questo gruppo di avanguardia, perché non poteva rompere col gruppo più numeroso della tradizione. Lo scontro fu aspro e l’incomprensione forte, tanto che il Patriarca Luciani si vide costretto a chiudere quel movimento e quella associazione giovanile.

Don Bruno chinò il capo e, pur con infinita difficoltà a comprendere e condividere, tenne per sé le sue convinzioni e continuò a servire con umiltà e fedeltà la Chiesa veneziana.

Il dramma di questo sacerdote colto, intelligente, esperto della storia e della Chiesa, fine biblista e capace di dialogo con i giovani, si sviluppò anche a livello famigliare, in quanto il fratello don Giuliano, rettore del seminario, si schierò su posizioni opposte, seppure moderate, per non mettere a repentaglio la sopravvivenza del seminario.

La Chiesa veneziana perde con don Bruno Bertoli un sacerdote di vero spessore spirituale e culturale, un prete libero, profondamente partecipe della vita della Chiesa, certamente non allineato, per motivi di convenienza e, meno ancora, di carriera.

Ho la sensazione che con la morte di questo prete la Chiesa di Venezia sia più povera. Non mi resta che sperare che la sua splendida testimonianza sia d’esempio e di stimolo per chi rimane.

“Non è l’abito che fa il monaco”!

Qualche domenica fa sono andato in una chiesa della città per celebrare una liturgia. Ho incontrato, purtroppo, una suora, che fungeva da segretaria, talmente indisponente, angolosa, autoritaria ed acida che mi ha lasciato veramente male e mi ha tolto la gioia della funzione per cui ero stato richiesto.

Proprio un paio di settimane dopo l’impatto deludente con quella consacrata, m’è capitato di incontrare, nell’ufficio di un ente pubblico, la segretaria di un dirigente, vestita, o meglio svestita, all’ultima moda, truccata abbondantemente, anche se non ne aveva bisogno perché era giovane e bellina, la quale, pur non conoscendomi, mi ha accolto e trattato con tanta disponibilità e cortesia, s’è interessata al problema che volevo esporre al suo superiore, mi ha richiamato al telefono per darmi una risposta, tanto che sono rimasto felicemente sorpreso di avere un trattamento così cordiale da una persona che sembrava effimera e solamente preoccupata di apparire bella.

Siccome questi due incontri si sono succeduti a breve distanza di tempo e siccome ambedue, per motivi diversi, mi avevano fortemente impressionato, pur essendo, questa, una suora con i voti di castità, povertà e obbedienza – quindi una “sposa di Gesù”, come si suol dire in certi ambienti ecclesiastici – e l’altra una donnina all’ultima moda con i pantaloni all’islamica, m’è venuto da chiedermi chi in realtà fosse la donna religiosa, la discepola di Cristo: chi aveva l’etichetta sulla tonaca o quella che invece sul vestito aveva l’etichetta di una casa di moda? Confesso che, nonostante le apparenze, sono convinto che la seconda interpretasse il linguaggio di Cristo meglio della prima, che ne aveva il distintivo ma non la sostanza.

Una volta ho sentito un frate che affermava che i cristiani si contavano alla balaustra, ossia erano quelli che ricevevano l’Eucaristia. Io, da un pezzo, non ne sono proprio convinto perché ritengo, come si diceva una volta, che “non è l’abito che fa il monaco” ma chi è dentro all’abito che fa o non fa il cuore e lo stile di Cristo.

Oggi pare che gli uomini del nostro tempo esigano autenticità piuttosto che maschere che nascondono il nulla o il peggio.

La risposta è nella conversione personale

Spesso, nei momenti di maggior onestà intellettuale, fa capolino nel mio animo un pensiero flebile, quanto mai scomodo, che mi tormenta e mi turba. Purtroppo, senza darlo a vedere anche a me stesso, lo allontano dolcemente, ripromettendomi di esaminarlo e di trovare le soluzioni del caso in momenti più opportuni, pur avendo la sensazione che questi momenti non arriveranno mai.

Ecco il pensiero che spesso mi ronza come un moscone e che non si rassegna ad andarsene: che la soluzione per una nuova pastorale e per la rievangelizzazione della cristianità non consista in nuove strategie pastorali e nel dar vita a nuove associazioni o a nuovi strumenti, ma nella conversione personale.

Oggi gli apparati della Chiesa non si può dire che se ne stiano quieti; dalle alte gerarchie alle curie diocesane o ai consigli pastorali delle grandi o piccole parrocchie, tutti si danno da fare per scoprire ed attuare soluzioni che facciano “il miracolo” di suscitare comunità cristiane vive, coerenti, presenti nel territorio ed incidenti sulla vita sociale e di generare fedeli che abbiano una coscienza ed un modo di agire da veri discepoli di Gesù.

Il mio “grillo parlante” però sta tentando, ad intervalli sempre più frequenti, di farmi capire che invece sono io a dover cambiare, ad essere cioè un vero discepolo di Gesù che testimonia fede, speranza e carità. Chiedere la conversione degli altri non è impossibile, mentre cominciare solamente ad essere il prete che Gesù descrive quando dà il mandato ai discepoli: “Partite poveri, senza vesti di ricambio e senza soldi, senza fidare sui mezzi a disposizione, ma solamente nella validità del messaggio che annunciate, accontentatevi di quello che vi danno, fatevi carica di chi soffre, annunciate che il Regno è vicino; gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, questo è tanto impegnativo, terribilmente impegnativo!

I venti secoli di storia cristiana stanno a ripetermi che i segni delle catene e il sangue dei martiri hanno fatto e fanno germogliare nuovi discepoli del Regno. E la vita dei santi mi sta a ripetere che la loro testimonianza ha dato volto religioso ad un’epoca o ad un popolo.

San Francesco d’Assisi sta ancora a testimoniare la validità del messaggio di Gesù più di tutti gli apparati ecclesiastici, tutte le curie, le parrocchie e le congregazioni dei preti.

Il “grillo” è certamente scomodo, ma ha ragione!

Come rendere la proposta evangelica comprensibile oggi?

Più volte ho ripetuto il mio disagio di vivere in un mondo che non è più il mio, o perlomeno che è diverso da quello che io ho conosciuto durante la gran parte della mia vita e per il quale ho speso tutte le risorse della mia esistenza. Credo che questo disagio, e forse il pizzico di rimpianto per “il piccolo mondo antico” conosciuto nella mia giovinezza e pure nella maturità, sia il prezzo che tutti noi vecchi dobbiamo pagare al tempo che passa.

Questo stato d’animo riguarda tutti gli aspetti della vita, ma io lo sento maggiormente per quello che riguarda la vita religiosa e il mondo ecclesiale. Io voglio pagare questo prezzo, ben conscio che dovrei pagarlo anche se non lo volessi, però mi struggo al pensiero di quale possa essere la “traduzione” attuale della proposta cristiana. Ci sono troppi preti che non vogliono guardarsi realisticamente attorno e preferiscono nascondersi dietro un dito tentando di perpetrare le soluzioni ricevute dalla tradizione applicandola ad un nucleo sempre più ridotto di praticanti, arrischiando di trovarsi un giorno con in mano un pugno di mosche e ad offrire la proposta cristiana ad uomini che non sono neppure un campione autentico dell’umanità che vive nel nostro tempo.

Credo che perlomeno sia onesto prendere atto della situazione reale e porsi alla ricerca di soluzioni nuove che salvino almeno e soprattutto la sostanza. Siamo finalmente onesti: oggi la confessione è saltata, la frequenza al precetto festivo è ridotta al 15-20 per cento della popolazione, il matrimonio celebrato in chiesa è al disotto del 50 per cento dei matrimoni e comunque il divorzio dal vincolo religioso o civile è dilagante. La famiglia, nel senso tradizionale, è malconcia, lo spartiacque della morale segnato dal decalogo è confuso e quanto mai aleatorio, la presenza attiva della realtà parrocchiale sul territorio geografico è pressoché inesistente e le parrocchie sono ormai arroccate all’ombra del campanile.

Ora il mio dramma è questo: come tradurre la proposta evangelica perché sia comprensibile e accettabile oggi? Di certo in questa operazione gli anziani sono i meno adatti a proporre soluzioni alternative, perché legati al passato, temo però che i giovani siano affetti dall’atteggiamento di controriforma piuttosto che apripista di una nuova pastorale.

So che c’è e si troverà una soluzione, s’è trovata anche nell’incarnare il messaggio cristiano in culture tanto diverse dalla nostra, però il trovarmi nel guado mi pesa alquanto, talvolta perfino mi angoscia.

Insinuazioni e accuse

Sono stato vicino per molti anni a monsignor Vecchi, ho conosciuto bene questo prete che io considero il fondatore della “Chiesa mestrina”, perché prima di lui, a livello religioso, Mestre era solamente un arcipelago di parrocchie senza legame alcuno fra di loro. Ebbene monsignore, che in realtà ha pure realizzato nella nostra città parecchie strutture – basti pensare a Villa Giovanna, Ca’ Letizia, il Palazzo delle comunità, la struttura delle associazioni accanto alla canonica, ecc., ha sempre sofferto perché molti concittadini volgarmente andavano dicendo che era un “affarista” e qualche altro, in maniera un po’ più elegante, ma non molto diversa, diceva che era un bravo “manager”.

A me è parso un prete distaccato dal denaro, un uomo che visse in maniera veramente povera, ma che non ebbe paura di sporcarsi le mani dando espressione reale al suo zelo pastorale di dotare la comunità cristiana degli strumenti indispensabili per rendere realistica la carità, facendone una risposta concreta e non limitandosi ad un’enunciazione formale, comoda ed inconcludente.

Io non avrei mai immaginato che avrei avuto la stessa sorte facendomi la fama di costruttore. Nel mondo dei preti poi vige una certa convinzione, forse propagandata dai pigri, dagli inetti o dai parolai, con cui si bolla chi tenta di dar volto, respiro e concretezza alla solidarietà, come malato “del male della pietra”.

L’epiteto e la definizione non mi lascia indifferente, anzi mi amareggia alquanto perché credo di non illudermi affermando che il meglio delle mie energie e del mio tempo l’ho dedicato di certo all’annuncio del Regno, a donare il messaggio di Cristo, ma al tempo stesso m’è parso di rendere credibile e di dar corpo alla dottrina di Cristo impegnandomi per dare pure visibilità e tradurre in maniera reale il comando limpido, preciso ed inequivocabile di Gesù: “Ama il prossimo tuo come te stesso”.

Il fatto di non avere nessuna proprietà, di aver scelto di condividere la stessa condizione degli anziani poveri ai quali mi son dedicato, andando ad abitare in uno dei 315 minialloggi dei Centri “don Vecchi”, di non essermi mai comperato un’automobile, di non esser mai andato in ferie, pensavo fossero delle scelte che mi avrebbero evitato insinuazioni del genere. Invece no! Mi conforta che accuse del genere furono rivolte pure a Cristo e perciò spero che siano una parte di quella croce che ognuno deve portare per ottenere salvezza.

Le “buone parole”

Il pozzo dal quale in questi ultimi tempi sto attingendo, è il volume di Adriana Zarri “L’eremo non è un guscio di lumaca”. Ripeto ancora una volta, per chi non conoscesse l’autrice di questo volume, che la Zarri è una intellettuale, nata da una famiglia contadina, che mediante lo studio approfondito soprattutto delle cose che riguardano Dio, la fede, la Chiesa, la religione, è diventata, col tempo, una teologa quanto mai apprezzata. Spirito libero e in costante ricerca, talvolta è stata piuttosto critica nei riguardi dell’apparato ecclesiastico e soprattutto si è sentita portata a valorizzare le istanze sociali proprie della sinistra in quest’ultimo scorcio di secolo.

La Zarri ha avvertito il bisogno di “parlare” di Dio e della fede soprattutto a chi si dimostra ancora molto refrattario a questi discorsi, motivo per cui ha scritto spesso sul “Manifesto” su tematiche religiose. La prefazione infatti di questo volume, che rappresenta quasi il suo testamento spirituale perché essa è morta poco tempo fa, è curata da Rossana Rossanda, personaggio di estrema sinistra e direttore de “Il Manifesto”.

La lettura che sto facendo, pur faticosa, perché il pensiero della Zarri è denso, puntuale, quasi puntiglioso nel precisare le sue convinzioni, mi sta, tutto sommato, edificando e facendo del bene perché la fede dell’autrice appare limpida e assoluta in ogni sua riflessione.

La Zarri ha trascorso gli ultimi anni della sua vita in forma eremitica essendosi ritirata in un cascinale abbandonato sulle colline piemontesi. Nella sua riflessione, che sa poco di diario e molto di indagine, afferma che spesso amici incontrati nella sua lunga vita di militante, quando le facevano visita, si aspettavano da lei, eremita, dei consigli spirituali, una buona parola, dei pensieri edificanti. Tutte cose che lei sdegnava, perché diceva che se mai avesse avuto qualcosa da dire, dato il suo vivere da eremita e in costante ricerca e comunione con Dio, non sarebbero state le parole lo strumento più adatto, ma la vita stessa. Solamente la vita, il suo spessore, la sua ricchezza di indagine e di pensiero possono diventare messaggio, solamente la testimonianza ha diritto di parola.

Ho riflettuto molto su questo rifiuto intransigente circa le “buone parole”. Oggi forse la Chiesa, la parrocchia e i cristiani in genere, affidano con troppa leggerezza il loro messaggio alla parole, strumento ormai inflazionato e pochissimo incidente sulle coscienze. Oggi pare che valga soprattutto e solamente la testimonianza. Il messaggio è la vita! Non per nulla è affermato nel prologo di san Giovanni: “La parola del Signore si fece carne”. Dio infatti sa bene la differenza fra ciò che comunica verità e ciò che invece fa solamente fresco!

La lezione di disciplina e di virtù di un giovane prete

In quest’ultimo tempo sto seguendo, spero con comprensibile attenzione e curiosità, la vicenda della nomina a parroco della comunità cristiana dei santi Gervasio e Protasio di Carpenedo, ove sono stato parroco per 35 anni, del giovane sacerdote don Gianni Antoniazzi.

La nomina a parroco di una comunità cristiana dovrebbe essere un evento che di per sé non fa notizia, o al massimo a cui i giornali locali dedicano quattro righette per i curiosi di cose di Chiesa. Questa volta per don Gianni la cosa non è andata così. La parrocchia di San Lorenzo Giustiniani, nella quale don Gianni operava da sette anni, s’è letteralmente ribellata, protestando in chiesa alla notizia, raccogliendo firme ed invocando a gran voce, specie da parte dei giovani, di soprassedere al trasferimento.

Questa “ribellione” popolare depone a favore di don Gianni. Oggi non è frequente che la gente manifesti rumorosamente per un trasferimento di routine. La protesta significa che don Gianni ha ben operato e s’è fatto ben volere. Magari scoppiassero più di frequente queste ribellioni popolari!

Quello però che maggiormente mi ha colpito, è che questo giovane prete abbia accettato il trasferimento mentre stava raccogliendo i primi frutti del suo straordinario impegno, abbia accettato sapendo che la parrocchia alla quale lo si è destinato gli avrebbe presentato notevoli difficoltà, non ultima quella economica, ma soprattutto mi hanno sorpreso favorevolmente le sue pubbliche dichiarazioni circa la sua volontà di obbedire e la convinzione che l’obbedire arricchisce.

Un tempo si diceva che i preti erano come i soldati e dovevano rispondere sempre “signorsì!” o, come Garibaldi, “obbedisco!” Queste reazioni sono oggi cosa d’altri tempi, specie quando la prospettiva di quello che ci si aspetta non è molto allettante.

Io sono ammirato dalla lezione di disciplina e di virtù di questo giovane prete, sono felice di apprendere che la Chiesa veneziana può contare ancora sui giovani preti di questo stampo, e più felice ancora che questo tipo di prete vada nella parrocchia che non ho mai cessato di amare. E soprattutto che egli possa ravvivare il progetto che il “don Vecchi” diventi il segno di una solidarietà come elemento sostanziale del nuovo programma pastorale.

L’inutile ricerca del paradiso terreno

Abbastanza di frequente mi capita d’essere colpito da qualche fatto strano, o dal modo di pensare di certe persone, e più spesso ancora sono colpito da certe idee peregrine che mi passano per la testa e che, di primo acchito, sono tentato di scacciare come mosche noiose che mi disturbano senza motivo. Da un po’ di tempo però ho cominciato a pensare che se la vita e il mondo rispondono ai criteri sapienti della Divina Provvidenza, non può esserci nulla di inutile, scontato e che non possa dare una risposta ad una presa di posizione nei suoi riguardi.

Da qualche tempo mi sono perfino imposto l’impegno di rispettare anche una formichina che cammina svelta sulla tavola con le sue gambette minute, perché anche lei fa parte dell’ecosistema che oggi regola la vita. In questo nostro tempo si parla tanto di questi equilibri essenziali, si spende tanto denaro perché non si estinguano certe specie protette, quali il panda o la tigre indiana; perché non dovrei accettare e prendere in considerazione allora certi pensieri strani che mi frullano inaspettati per la testa? Non possono essere anch’essi un messaggio per farmi arrivare a certe verità che possono aiutarmi?

Qualche giorno fa ho letto nella Genesi la cacciata dei nostri progenitori dal Paradiso terrestre con il relativo monito: “ti guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte”. Ho subito pensato che Adamo ed Eva avranno avuto per tutta la loro vita la nostalgia, il rimpianto e l’illusione di recuperare quel “paradiso” perduto. Speranze inutili!

Poi ho pensato che anche noi uomini del terzo millennio abbiamo ereditato, perché iscritto ormai nel nostro DNA, il rimpianto, la nostalgia e l’illusione di trovare, prima o poi, il paradiso irrimediabilmente perduto. Fatica sprecata, ricerca inutile, perché ciò è ormai impossibile!

Eppure tutte le smanie per il denaro, il potere, il sesso, l’affermazione, penso che siano le espressioni di questa illusione di poter trovare “il paradiso” quaggiù e purtroppo in questo sforzo e in questo tentativo noi uomini finiamo per non accettare le fatiche connesse al nuovo status di vita e finiamo per perdere anche quelle piccole gioie che sono ancora possibili, inseguendo invece quelle ormai perdute. Tutto ciò aggiunge alla vita ansie, fatiche e ricerca affannosa assolutamente inutili.

Quanto sarebbe più saggio accontentarci, accettare la vita qual’è e godere di quello che essa può ancora offrirci!

Le prediche di monsignor Vecchi

Uno dei miei “ragazzini” di trent’anni addietro un paio di settimane fa è venuto a farmi visita al “don Vecchi” per regalarmi un volume che non conoscevo: “Le prediche di monsignor Vecchi”, edite dalla Fondazione alla quale don Franco De Pieri ha dato vita per mantenere vive a Mestre la memoria e il messaggio di don Vecchi “padre della nuova Mestre”.

Non sapevo dell’esistenza di questo volume, che forse non è stato sufficientemente reclamizzato. L’opera è stata curata dal prof. Mirto Andrighetti il quale ha utilizzato il materiale che il vecchio sagrestano di Carpenedo, Olindo Caramaschi, all’insaputa del suo parroco, aveva registrato durante le prediche negli ultimi anni del servizio pastorale di Monsignore presso il duomo di Mestre.

Ho preso a leggere qua e là queste prediche domenicali del mio vecchio parroco e maestro di vita e di apostolato. Di primo acchito la lettura mi ha un po’ deluso, ma poi ho capito che altro è un testo scritto per essere letto, altro è la registrazione di un discorso che invece era destinato ad essere offerto a viva voce e che certamente risentiva del clima e dell’atmosfera dei fedeli che affollavano la chiesa.

Monsignor Vecchi poi era solito drammatizzare le sue omelie, per cui l’intonazione della voce, i silenzi ed i gesti avevano la loro parte nel rendere partecipi i presenti al messaggio che offriva di settimana in settimana.

La lettura del volume delle prediche di Monsignore mi ricordò pure come molto spesso egli al sabato mi chiedesse: «Che cosa dirai, don Armando, domani?» ed io gli riassumevo quei quattro poveri pensieri che avevo cercato di raccattare durante la settimana.

Il giorno dopo, la domenica, Monsignore celebrava alle 11, mentre io alle 12. Mentre attendevo di iniziare la mia messa, mi capitava di sentire la predica del parroco e, con sorpresa ed invidia, sentivo che le mie quattro idee erano diventate delle vere “perle” in bocca a Monsignore, che all’intelligenza e alla preparazione culturale, aggiungeva pure una vera arte di attore nel porgere il suo pensiero.

Col tempo ho fatto tesoro del suo modo di porgere, ma sono rimasto uno scolaro abbastanza mediocre.

La politica italiana

Non mi pare che De Magistris, nonostante appartenga al partito delle regole, della legge e dei giudici, stia risolvendo brillantemente i problemi dei rifiuti di Napoli.

Sembra che anche lui, una volta ancora, e con la solita lagna ed insistenza, chieda l’intervento del governo e l’aiuto delle altre regioni. La cosa potrebbe essere comprensibile e condivisibile se fosse la prima volta che il sud chiama il nord, ma non è la prima, la seconda, e nemmeno la decima… ormai, dalla fine della guerra, che è terminata più di mezzo secolo fa, Napoli non fa che ripetere la “fiaba del sior Intento”.

Ho seguito il tiramolla delle varie regioni che, più o meno ipocritamente, tergiversano perché credo che Napoli, nonostante il “sole mio”, ha finito per stufare un po’ tutti.

Il nostro Zaia ha tentato di togliersi dai guai dicendo che è disposto a mandare dei tecnici per insegnare le tecniche che usiamo noi nel Veneto. Se accetteranno perderemo i soldi del biglietto della ferrovia per il viaggio di questi tecnici, ma non sarà il peggiore dei mali! In Italia credo che sia sicuramente finito il tempo di cercare l’uomo forte – perché di esperienze amare ne abbiamo già fatte a sufficienza – ma che sia ora di mettere in piedi una democrazia forte, che faccia rispettare le leggi, che punisca in maniera esemplare i trasgressori non mettendoli in carcere, perché ci costerebbero 250 euro al giorno, ma mettendoli a fare lavori “socialmente utili”.

Finché però rimarremo in balia di amministratori locali e nazionali che sono vittime e prigionieri del loro elettorato, non ne andremo mai fuori da questo pantano.

Qualche giorno fa, parlando con un tecnico sul mio bisogno di reperire gli spazi per un’opera altamente sociale, qual’è il “don Vecchi” per gli anziani in perdita di autosufficienza, questi mi faceva osservare che quel determinato assessore non me lo avrebbe mai concesso, per non scontentare il rione in cui aveva la sua base elettorale.

Un mio amico mi ha passato una sua ricerca sul numero di italiani impegnati in politica e sui costi relativi: c’è veramente da mettersi le mani nei capelli! Con gli anziani del “don Vecchi” neanche tento di fare un colpo di stato o la rivoluzione; dovrò rassegnarmi al pensiero che a tempo debito il Signore “metterà il grano buono nel granaio” e la gramigna nella fornace ardente.

L’ossessione della cronaca nera

Ho letto che durante il fascismo il duce aveva ordinato che i giornali non riportassero, o almeno dessero pochissimo rilievo, alle notizie di suicidi e in genere ai fatti di cronaca nera. Non so bene perché l’avesse fatto, forse per dare alla nazione l’illusione che il fascismo era stato capace di offrire l’età dell’oro, o semplicemente il paradiso terrestre. Comunque penso che tra i tanti demeriti, quali l’aver privato l’Italia della libertà e l’averla trascinata in una guerra rovinosa, il duce abbia avuto almeno il merito di non aver permesso che la gente fosse condizionata psicologicamente dalla descrizione morbosa di questi fatti di sangue.

E’ proprio di queste settimane che la stampa nazionale si è occupata, spargendo fiumi di inchiostro, di quel tanghero di caporalmaggiore che avrebbe ucciso la sua sposa, madre di una bambina piccola perché si era incapricciato di un’oca di soldatessa.

Il secondo fatto di sangue tra i moltissimi di cui sono pieni i giornali, per me è stato il suicidio del braccio destro di don Verzè, il sacerdote più che novantenne che ha creato il miracolo del San Raffaele, ma che non essendosi messo da parte nel tempo giusto, l’ha pure fatto naufragare in un oceano di debiti.

Il terzo episodio, a livello locale, del quale Il Gazzettino ha dato notizia, è stato quello del giovane di Martellago, bravo, timido e fragile che, bocciato agli esami di maturità, rimasto solo a casa in un momento così pericoloso per la sua personalità, mentre i genitori se n’erano andati in vacanza, si è tolto la vita.

Nonostante i miei ottant’anni, durante i quali ne ho viste di tutti i colori – per cui la mia vita avrebbe dovuto temprarmi di fronte a tutto – tutto questo mi ha indignato, amareggiato e sconvolto quanto mai.

Io spero di rientrare almeno nella fascia umana della normalità, ma quante sono le creature che sono al disotto di questa fascia e che di fronte alla descrizione dettagliata e morbosa di certi fatti di sangue, giunta in un momento di difficoltà, si sono sentiti terribilmente tentati di scegliere queste apparenti scorciatoie per risolvere i problemi inevitabili del vivere.

Per questi motivi di certo non avrò rimpianti per l’era fascista, però non mi esalto neppure per questo tipo di democrazia carente e fortemente ammalata di debolezza cronica.