La predica del nuovo Papa

Il 19 marzo, giorno in cui Papa Francesco ha inaugurato ufficialmente la sua missione di vescovo di Roma e di vicario di Cristo per la Chiesa universale, ero costretto a casa per un attacco influenzale. Suor Teresa, forte del fatto che per una vita mi ha fatto da infermiera, mi aveva vietato, in maniera assoluta, di prender aria, perché per la mia età e per i miei trascorsi a livello di salute, uscire, a parer suo, era assai pericoloso.

Una volta tanto fui felice di avere l’influenza e del divieto di uscire per assolvere i miei impegni pastorali. Questo incidente di percorso mi ha permesso infatti di poter seguire dall’inizio alla fine l’intero servizio televisivo della prima messa, per Roma e per il mondo, del nuovo Pontefice.

Non vi sto a raccontare quanto sono stato felice di non riscontrare, una volta ancora, il “sacro folklore” in uso dal Vaticano, di scoprire che il Papa non indossava le scarpe rosse di Prada, “segno della disponibilità a versare il suo sangue per Gesù”, né la croce d’oro e tante altre coserelle del genere che, secondo alcuni, esprimerebbero la sensibilità del momento e della sua persona, affidando invece al suo sorriso, alla sua tenerezza e alla sua calda umanità il compito di mostrarsi un discepolo autentico di Gesù.

Non insisto su questi particolari perché i giornalisti sono stati tanto zelanti da sembrare persino pedanti nel sottolineare questi aspetti. Mi soffermo invece su un altro particolare, lasciandomi andare ad una confidenza che riservo solamente ai miei amici. Vi confesso, cari lettori, che è stata una delle poche volte che ho ascoltato con piacere ed ho capito la predica di un vescovo e di un Papa. Di solito mi rassegnavo a “far penitenza” per certi discorsi astrusi, preparati dagli “esperti”, che questi celebranti fanno perfino fatica a leggere, quando non mi appisolavo o pensavo ai fatti miei.

Finalmente ho capito quello che questo “prete” voleva dirci, ho condiviso il discorso e sono rimasto convinto che esso era il messaggio che interpretava il cuore di Gesù.

Se la prossima volta poi il Papa terrà in tasca gli appunti, come son solito fare anch’io, andrà ancora meglio, perché ho osservato che quelli che teneva in mano gli hanno creato una qualche difficoltà.

“Ho chiuso lunedì”

Conservo nel mio animo un vecchio ricordo che mi è ritornato tristemente a galla qualche giorno fa.

Al tempo in cui l’aereo che trasportava la squadra del Torino andò a fracassarsi sul colle di Superga, uno dei soliti giornalisti invadenti e poco rispettosi del dolore ha chiesto ad uno spettatore, che guardava sbigottito i resti fumanti dell’aereo in cui sono morti i famosi giocatori di calcio, che cosa provava di fronte a quel dramma. Quel signore rispose: «Quando leggi sul giornale di una tragedia del genere ti viene spontaneo sentire compassione, ma quando, come in questa occasione, è coinvolto un tuo amico, è tutt’altra cosa»!

Quando cominciammo a parlare del “don Vecchi” di Campalto, venne da me un signore ad offrirsi di farsi carico, con la sua azienda, a titolo gratuito, degli scavi e dell’asfaltatura, volendo collaborare alla realizzazione del nostro progetto benefico. Ebbene qualche giorno fa questo signore è tornato da me per dirmi che il giorno prima aveva dovuto chiudere la sua azienda, per cui non poteva mantenere la promessa fattami un tempo. Accorato, triste, frastornato, mi parlò della sua piccola azienda, dei suoi operai, della fatica di quarant’anni per crearsi un’azienda efficiente, aggiornata, motivo e vanto della sua vita. Quell’uomo aveva investito tutta la sua vita per realizzarla dal nulla.

«Ora, mi diceva, sono stato costretto a chiudere. La mancanza di lavoro, la chiusura del credito, la concorrenza di chi lavora in nero e sfrutta gli operai, m’hanno messo in ginocchio e se sarò costretto a vendere le macchine per le quali non mi daranno quasi niente».

A stento trattenne le lacrime, quest’uomo appena sessantenne, piegato e sconfortato di fronte al disastro della sua azienda.

Ora ho ben capito che altro è leggere sui giornali che le piccole aziende sono costrette a chiudere e che i piccoli imprenditori sono ridotti alla disperazione, ed altro è vedere lo sconforto, la desolazione e la rabbia di un uomo solo, impotente e tradito da una società che abbandona “gli sconfitti” come rifiuti inutili e ingombranti.

La logica dei discepoli del “dio denaro” che, ben mascherati, manovrano le banche, le borse e il mondo della finanza, è sempre stata egoista, arruffona e senza coscienza, ma oggi questa gente è finita al parossismo, non vede che il suo interesse, anche se le aziende affondano, gli operai sono per strada e i piccoli capitani di industria si tolgono la vita.

Quanta ragione ha Cristo quando dice: «Non si può servire Dio e il denaro!» e quando soggiunge: «E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli!».

Per me c’è un’unica soluzione sicura e praticabile alla crisi di oggi: la conversione!

Una scelta provvidenziale

E’ il primo marzo. Mentre sto scrivendo questa pagina di diario non so quando sarà pubblicata. Il Papa, neanche da 24 ore, non è più Papa.

In questi ultimi giorni non si contano più gli amici, i lettori de “L’incontro” e i concittadini che mi han chiesto un parere sulle dimissioni del Pontefice. Su questo argomento hanno parlato talmente in tanti, tanto esperti e da tante angolature. Anch’io sono intervenuto ben due volte, la prima con la didascalia sulla facciata de “L’incontro” che abbiamo dedicato a papa Benedetto, e la seconda volta con una pagina di diario.

Ho già detto con chiarezza e convinzione la mia ammirazione e la mia gratitudine per quanto questo Papa ha fatto per la Chiesa e pure per la decisione di concludere in maniera diversa dai Papi degli ultimi secoli, il suo ministero di successore di san Pietro e di vescovo di Roma.

Già nei precedenti interventi ho accennato ad un aspetto particolare che a me pare quanto mai provvidenziale, ma sento il bisogno di ribadirlo, anche se mi rendo conto che è un discorso un po’ difficile da fare e più ancora difficile da ritenere positivo per Papa Benedetto.

A me è piaciuto che il Papa, come tutti i comuni mortali, abbia lasciato capire: “Sono vecchio, sono stanco, non ce la faccio più, desidero vivere in pace i miei ultimi giorni, sono nauseato ed impotente di fronte a tutti gli intrighi che ci sono in Vaticano, le cose mi scappano di mano, desidero leggere gli autori che mi sono cari, suonare un po’ l’armonium ed essere libero di fare qualche passeggiata in santa pace. Anche perché ci sono vescovi più giovani che possono fare meglio di me”.

M’è parso che con questa scelta il Papa sia voluto tornare ad essere uomo, uscendo da quel mondo in cui tutto è chiamato sacro, dal modo con cui ci si rivolgeva a lui (Sua Santità), al luogo ove abitava (i “sacri palazzi”), al modo in cui era costretto a vestirsi.

M’è parso tanto saggio che egli abbia voluto uscire da tutto quel marchingegno di tradizioni, di formalità e di ritualità sempre un po’ magiche, per reinserirsi finalmente nei ritmi normali di tutte le persone di questo mondo. Tutto questo l’ha capito anche il presidente Napolitano dicendo che la data di nascita conta.

Ben s’intende Papa Benedetto non riuscirà ad infrangere tutto quel mondo sacrale; ci sono infatti troppi interessi, troppe ambizioni, troppe consuetudini perché la sua scelta produca una svolta definitiva di umanizzazione. Comunque credo che lui abbia il merito di aver fatto la sua piccola grande parte.

A dire la verità fino in fondo, io avrei sognato che avesse preso in affitto un appartamento in una delle tante borgate di Roma dicendo al parroco relativo, che probabilmente è senza cappellani: «Vengo a dirti una messa alla domenica e se hai bisogno che io ti dia una mano per le confessioni dei bambini della prima comunione, lo faccio volentieri». Questo lo avrei più apprezzato che il suo ritirarsi a Castel Gandolfo ancora con guardie, dimora principesca, saloni e giardini favolosi.

Papa Benedetto ha fatto un passo verso lo stile di Gesù, ma credo che nella nostra Chiesa ci siano molti passi del genere ancora da fare.

La mosca bianca

Qualche giorno fa mi sono recato nella cella mortuaria per dare l’ultima benedizione prima che il legno della bara coprisse il volto di uno dei tanti fratelli e concittadini che ogni giorno silenziosamente e con discrezione ci precedono di qualche tempo nel regno dei cieli.

In quella occasione, ma spesso anche in altre, ero a conoscenza che il defunto non era granché praticante e che anche la sua famiglia era una di quelle che noi preti riteniamo appartenere al “mondo dei lontani”.

Da sempre scelgo, in questi frangenti, preghiere semplici e conosciute, evito salmi o preghiere di difficile comprensione e per nulla conosciute. Preferisco la recita di un padrenostro ai formulari che i liturgisti, gente del mestiere, hanno preconfezionato e si trovano nei libri sacri delle esequie.

Ho intonato il padrenostro, pensando che, come spesso avviene, nel triste luogo si sarebbe sentita solamente la mia voce, invece avvertii subito una voce calda e sufficientemente alta che si sintonizzò sulle parole della mia preghiera. Siccome la voce proveniva da un uomo che stava alle mie spalle, pensai che si trattasse di un catecumenale, amico di famiglia che, come tutti gli aderenti a questi movimenti ecclesiali, sono stati educati a pregare ad alta voce.

Finita la preghiera mi accorsi invece che si trattava del titolare di una delle imprese funebri più vecchie e più note della città. Questo signore è “una mosca bianca” della categoria perché, pur essendo gli addetti ai lavori inappuntabili nella divisa e nel comportamento, si guardano bene dall’aprir bocca, dal presenziare al rito, dal dare qualche segno di fede, pur essendo tutti battezzati e tutti si ritengano cristiani.

Il “rispetto umano” purtroppo anche oggi condiziona questa gente che pur da mane a sera è a contatto col mistero del dolore e della morte e perciò si trova nelle condizioni di toccare con mano e distinguere quello che conta da quello che è effimero. D’inverno pare preferiscano stare fuori al gelo piuttosto che partecipare alla preghiera comune nella chiesa riscaldata e d’estate starsene al solleone piuttosto che beneficiare della chiesa refrigerata.

Purtroppo il laicismo influisce anche su queste persone che, tutto sommato, sono brava gente, ma che pare temano di essere giudicate come gente di Chiesa pur essendo la Chiesa una componente essenziale del loro lavoro e della loro vita.

Il “superfluo” necessario

Monsignor Vecchi mi ha trasmesso il bacillo dell’arte. Il mio vecchio insegnante, e poi mio parroco, faceva, oltre che il docente di filosofia e di arte nella scuola del seminario, anche l’assistente dell’U.C.A.I. (Unione Cattolica Artisti Veneziani), un’associazione che a Venezia si interessava del mondo degli artisti.

Ho raccontato ancora che per evitare che lui corresse troppo col programma e perché era più piacevole sentir parlare degli artisti Carena, Guidi, Cesetti, piuttosto che dei filosofi Spinoza, Leibniz o Cartesio, spesso noi studenti lo spingevamo – ed egli forse gradiva farsi spingere- a parlare di questi artisti piuttosto che del pensiero difficile e arzigogolato dei filosofi antichi e moderni.

In quel tempo di certo monsignore mi ha “infettato” con questo bacillo; infatti, nonostante tutte le mie incombenze, esso ha continuato a condizionarmi. Il bacillo preso al liceo ha prodotto la “Galleria La Cella”, con le sue quattrocento mostre, ha riempito di migliaia di quadri tutte le strutture, prima della parrocchia, ed ora del “don Vecchi”, mi ha fatto conoscere una folla di artisti e, bell’ultimo, mi ha fatto aprire la “Galleria San Valentino” al Centro don Vecchi di Marghera.

Io più volte ho affermato che l’arte è una componente estremamente importante nel mondo della fede e della religione; basti pensare alla “teologia della bellezza”, che ci aiuta a scoprire il volto ineffabile di Dio anche nello splendore dell’arte, ma pure educa all’armonia ed allontana dalla volgarità e dal disordine.

Qualche settimana fa sono capitato accidentalmente al “don Vecchi” di Marghera proprio quando si stava inaugurando una “personale” di un pittore del Dolo. La curatrice della galleria, dottoressa Cinzia Antonello, che in quella occasione stava presentando il pittore con una critica dotta ed appropriata, mi ha invitato a dare un piccolo contributo. Preso alla sprovvista dissi: «Io sono discepolo di un Maestro che disse “non di solo pane vive l’uomo….”, sono quindi convinto che l’uomo di ogni tempo ha bisogno di poesia, di bellezza, di sentimento, quanto di benessere e pane. Senza questi componenti la vita sarebbe arida e desolante».

Il cristianesimo, se ben inteso, offre un umanesimo completo, che non si occupa solamente della salvezza eterna, ma che matura tutto l’uomo e gli permette di vivere con pienezza e con ebbrezza la sua esistenza.

La crisi economica ha raggiunto anche i preti

Da quando ho raggiunto una certa maturità – si parla di venti, trent’anni fa – ho fatto il proposito di non leggere mai le notizie di cronaca nera, le notizie scandalistiche o comunque gli articoli dei quotidiani che riportino titoli ad effetto. E questo perché essi sono perditempo e inducono ad avere una mentalità frivola e marginale. Talvolta però, quando le notizie riguardano “la mia categoria” o le realtà di cui mi occupo, allora mi lascio “indurre in tentazione”.

Qualche tempo fa un titolo a quattro colonne comparso sul Gazzettino nelle pagine regionali, diceva che la crisi economica aveva raggiunto anche i preti e questi stavano prendendo provvedimenti per arginare gli effetti negativi.

Come sempre, i giornalisti che hanno bisogno di avere qualche notizia che sia fuori mazzo dagli eventi normali, riportava notizie di un parroco che apriva la chiesa solamente alla domenica per risparmiare sul riscaldamento; di un altro che denunciava che le offerte della questua erano diminuite di più di un terzo; di un altro ancora che aveva dovuto rinunciare alla perpetua pure a part-time!

Di certo ci saranno pure dei casi così, di certe realtà in cui c’è qualche sofferenza, comunque oggi tutti i preti hanno uno stipendio garantito che si rifà alla paga medio-bassa degli operai, perciò possono campare come fan tutti, anzi leggermente meglio non avendo moglie, figli ed affitto da pagare.

Per quanto riguarda la parrocchia, sono convinto che per “chi lavora realmente” le cose non vadano peggio e per chi poi è impegnato a prodigarsi per i poveri, la gente non lasci loro mancare ciò di cui hanno bisogno.

Di certo credo che la crisi suggerisca in maniera più efficace della Quaresima: una vita sobria e impegnativa, meno spreco per automobili, meno perditempi col computer, meno porte chiuse e più disponibilità “fuori orario”.

Credo che se anche la crisi non è stata provocata dai preti, essi debbano essere in prima fila per combatterla e per non permettere che i più deboli vi soccombano.

Per quanto mi riguarda, devo dire che la gente continua ad aiutarmi come prima, anzi più di prima, però mi ritengo “assunto a tempo pieno”, anzi con estrema disponibilità a fare “gli straordinari” e a passare ai poveri quello che san Basilio dice di proprietà loro, perché tutto quello che è superfluo ad una vita sobria è certamente di chi ha bisogno, non mio.

Il mio diavolo e il mio angelo

Io sono nato biologicamente nel lontano ’29 del secolo scorso, ma ad una coscienza sociale, nel dopoguerra. Da quel lontanissimo 1945 non ho sentito altro che parlare di riforme. Per molti anni ci ho creduto, ora questi discorsi mi fanno pena e tristezza.

Per l’ultima tornata elettorale il problema si è ancor più riacutizzato. A folate si sono presentati in Parlamento nuovi riformatori. In verità in questi sessant’anni i politici, a decine di migliaia hanno “campato” assai bene con questo discorso delle riforme. Da ultimi sono arrivati i giovani “grillini” che una “trovata felice” di un comico da baraccone ha portato alla ribalta dell’opinione pubblica, non soltanto, ma perfino in Parlamento.

Beppe Grillo è stato bravo, anzi bravissimo, non m’era mai capitato di sentire che in passato un comico sia riuscito in un’impresa così brillante. Anche Berlusconi, in verità – pure lui venuto dalle “canzonette”, alle quali pare sia ancora affezionato – una ventina di anni fa era riuscito a fare questo “miracolo” che, per un sussulto insperato, non si è ancora spento. Comunque Grillo ha fatto il pieno ed ora sto a vedere come si comportano i suoi discepoli col denaro.

Un po’ perché sono sordo, un po’ perché non ho seguito con troppa attenzione il manifesto dei grillini, non ho ben capito il loro programma. Di certo ho colto solamente quel suo ossessionante “Tutti a casa!” e qualche altra parolaccia scurrile che, da come mi è stato insegnato, pare che non sia elegante pronunciare.

Qualche giorno fa sono stato nella pasticceria Ceccon di piazza Carpenedo, il cui titolare mi usa frequentemente la benevolenza di donarmi i pasticcini per “i miei vecchi”, e in quell’occasione mi sono ricordato che quando ero parroco a Carpenedo, essendo la chiesa e la pasticceria Ceccon casa-bottega, perché ambedue le realtà sono affacciate sulla “piazza lillipuzziana” chiamata piazza solamente per dare nobiltà al nostro borgo periferico. Il titolare mi aveva fatto una sorniona proposta: «Vuole, don Armando, che fondiamo anche noi un nuovo partito? Io avrei anche un programma!». «Mi dica!», gli risposi. Ed egli pronto, perché ci aveva pensato lungamente: «Rubare si, ma magari poco, ma tutti!».

In questi giorni, per associazione di idee, mi venne in mente questo “programma”, che credo non sia molto diverso da quello di Grillo, anzi più realista; infatti il mio diavolo, che è quanto mai perfido ed insistente, mi fece balenare questa ipotesi: “l’ultima tornata elettorale ha sfornato un’altra folla di aspiranti ladri!” Però il mio angelo custode immediatamente è intervenuto e, perentorio, mi ha detto: «Questo è un giudizio temerario, da cacciare come un “pensiero cattivo”!» L’ho cacciato, però m’è rimasto nell’animo questo interrogativo….: “staremo a vedere!”.

“il muro del pianto”

Talvolta, nonostante la mia veneranda età, continuo a scoprire cose interessanti e talvolta anche belle, ma altrettanto spesso mi capita di incontrare realtà quanto mai deludenti.

Al capezzale dell’economia italiana sono stati chiamati uomini di grande esperienza nel campo finanziario; ognuno dà la sua diagnosi ed ognuno propone le sue cure. Specie in questi ultimi tempi di elezioni se ne sono sentite di tutti i colori: dall’antica ricetta della “politica di mercato” proposta da Monti, a quella più timida di Bersani dopo i fallimenti catastrofici di quella della “sua scuola” che si rifà all’utopia del benessere per tutti, a quella radicale di Grillo che vuol mandare tutti a casa per permettere la nascita dell’era dell’oro!

Io, timidamente, propongo la mia, pur sapendo che sarà poco gradita a tutti. A parer mio bisogna da un lato che gli italiani si abituino a vivere in maniera più parca e a lavorare di più e, dall’altro lato, che si riduca all’osso il mastodontico apparato statale e parastatale estremamente improduttivo e che, nello stesso tempo, divora spaventosamente immense risorse.

Questa cura dimagrante deve partire dal capo dello Stato, per il quale l’Italia spende più dell’America per il suo presidente e l’Inghilterra per la sua regina. Per arrivare poi agli enti più periferici, quali sono i Comuni, che pagano troppa gente che non fa niente o quasi niente. Basti pensare al Comune di Venezia che non funziona, pur con i suoi quattromilaseicento dipendenti, quando ad un’azienda privata ne basterebbero si e no un decimo. Comunque in Italia ci sono pure altri carrozzoni arroganti, spendaccioni, supponenti, inefficienti e spesso dannosi.

Io, nel passato remoto e recente, ho avuto a che fare con la Sovrintendenza, per rendermi conto di quanto sia inutile; basta dare uno sguardo a Mestre per capire subito come, nonostante questo ente, la città sia nata e cresciuta brutta e sgangherata da un punto di vista estetico.

Ma le cose, nonostante la richiesta angosciosa di serietà e di austerità, continuano come se nulla sia successo. Non so se i miei concittadini si siano mai domandati a che cosa servisse quel cantiere sorto da sei, sette mesi accanto alla mura esterna del cimitero di Mestre. Ve lo dico io! La mura ottocentesca di semplici mattoni a vista, senza alcun pregio, era pericolante. Allora, giustamente, la si è rinforzata con una gettata di cemento alla base: questo era necessario. La Sovrintendenza però ha preteso che ogni pietra fosse tolta, ripulita e riposta nuovamente al suo posto. Ora che è stato sbaraccato il cantiere, anche Mestre avrà finalmente, come a Gerusalemme, il suo “muro del pianto”: non di certo per la nostalgia e il rimpianto per il tempio di Salomone, ma solamente per la spesa sconsiderata imposta da qualche funzionario della Sovrintendenza, per riavere un muro di vecchi mattoni, cotti nelle vecchie fornaci di Carpenedo e manomessi a costi impossibili.

Una scelta obbligata

In clinica a Padova, purtroppo, sono diventato, un po’ alla volta, uno di casa. Credo che non capiti troppo spesso, neanche nella celebre clinica patavina, di ricoverare un vecchio prete dalla capigliatura folta, bianca e scapigliata, che entra ad intervalli abbastanza regolari.

Per i “compagni di sventura” sono sempre un illustre sconosciuto perché, specie nel reparto in cui mi ricoverano, c’è un rapido turn over di pazienti, ma medici, infermieri, inservienti e volontari ormai mi considerano uno di famiglia e mi trattano con bonomia ed affetto, cosa che mi fa sempre molto piacere. Sono arrivato, pian piano, anche alle confidenze.

Nell’ultimo ricovero ho incontrato di nuovo una signora che ha la mansione di rifare i letti: è una signora cordiale, espansiva e soprattutto “di chiesa”. Mentre in occasione dell’ultimo ricovero cambiava le lenzuola e riassettava il letto, ha cominciato ad informarsi sulla mia vita di prete e a parlarmi della sua, di semplice fedele. Mi disse che mentre a casa cucinava, partecipava al rosario o leggeva i messaggi aggiornati della Madonna di Medjugorje. Trasse di tasca un telefonino di ultima generazione e con rapidissimi tocchi dell’indice mi mostrò una “brutta” immagine della Madonna col rosario al collo e mi fece sentire sottovoce – perché altri non udissero – la preghiera mariana, soggiungendo, da esperta: «Il rosario lo si può sentire recitato con la voce di bambina, di uomo o di donna!». Poi, sempre toccando leggermente altri due o tre tasti, ne venne fuori la parola “preghiere” e scorse un elenco infinito di preghiere di tutti i santi e di tutti i gusti.

Mentre assistevo a questa testimonianza di semplice, ma calda fede popolare, mi venne da pensare al nuovo volume “Sole sul nuovo giorno” che sto dando alle stampe: una raccolta di pensieri e di preghiere che ho raccolto con fatica e pubblico con una spesa non lieve. Pensai: “Scopro adesso un’America che tutto il mondo, aggiornato e giovane, ha ormai scoperto da tempo”.

Dapprima rimasi un po’ stupito e sconcertato, poi mi sono consolato ricordandomi una lettura di tanti anni fa. Due amici si incontrano e uno dice all’altro: «Di che cosa ti occupi?» e l’altro risponde: «Organizzo spettacoli da circo equestre». Il primo osserva: «Si tratta di un divertimento popolare per gente poco colta». Al che il secondo risponde: «Che percentuale di persone intelligenti e colte pensi ci sia nella nostra società?». E l’altro: «Forse il dieci o il venti per cento». «Ebbene, riprende il primo, io ho scelto di rivolgermi a quell’ottanta, novanta per cento non troppo colto!».

Forse è una magra consolazione, ma alla mia veneranda età non mi resta che rivolgermi al mondo dei tanti non aggiornati. Perciò pubblico il nuovo volume “Sole sul nuovo giorno”, anche se non rappresenta la novità e la “scoperta dell’America”.

C’è ancora motivo di sperare!

Due anni fa mi trovavo sul tavolo operatorio di una clinica universitaria di Padova per l’asportazione di un rene quando, avendomi chiesto, prima dell’intervento, la data di nascita, l’équipe chirurgica scoprì che era proprio il giorno del mio compleanno. Mi fecero gli auguri e non so se per il loro augurio o per la bravura di questi operatori sanitari, la cosa mi andò bene.

A distanza di due anni qualche giorno fa mi ritrovai nella stessa situazione, per qualcosa di meno grave, ma non meno preoccupante, mentre infatti, un’altra volta, aspettavo il mio ottantaquattresimo compleanno. Non ebbi gli auguri, che non mi spettavano, ma fortunatamente, una volta ancora, provai l’affetto di questa cara e brava gente che con generosità e competenza continuava ad offrirsi come strumento della bontà del buon Dio per continuare a far miracoli.

In quella occasione, mentre i singoli operatori adempivano alle operazioni di rito – misura della pressione, preparazione dell’analgesico, disposizione della strumentazione, ebbi modo di ringraziare ancora una volta il Signore per la bravura, ma soprattutto per la calda umanità che questa gente usava verso questo povero vecchio, trattandomi come fossi un giovane ed illustre personaggio. Ringraziai il Signore d’abitare in questo Veneto dove l’apparato sanitario è quanto mai efficiente. Pensai infatti: “Se abitassi in Africa, di certo sarei stato destinato a morte sicura”, ed infine ringraziai soprattutto il Signore non solamente perché questa cara gente mi ha finora salvato la vita, ma soprattutto perché mi ha salvato dalla disperazione.

Nell’attesa dell’operazione avevo letto il quotidiano, con le notizie sul caos e la desolazione della classe politica che di fronte alla crisi economica, all’angoscia per la disoccupazione galoppante, continua a bisticciare, a rifiutare l’accordo. Avevo ancora letto del malaffare della Mantovani, oggi emergente ma che, in realtà, è solamente un campione di una società economica e produttiva in disfacimento.

Di fronte a tutto questo, poter incontrare persone sane, operatori competenti, impegnati e scrupolosi, efficienti e capaci, che pur trovandosi da mane a sera in contatto con malati di tutte le età, mi trattano con rispetto e attenzione come fossi l’unica persona per cui preoccuparsi ed intervenire, mi ha riempito il cuore di ammirazione e di speranza.

Nel nostro mondo non ci sono solamente ladri, arruffoni, imbroglioni di ogni specie, politicanti corrotti, maneggioni e speculatori, ma in ogni comparto della società c’è ancora tanta gente bella, sana, competente, generosa e umana. Tutto questo mi ha riempito il cuore di serenità e mi ha rassicurato che vale la pena di unirsi ad essa, perché nel mondo non muoia anche la speranza.

Calatrava

La scorsa settimana un giovane architetto mestrino mi ha mandato delle riflessioni estremamente amare sullo sperpero inerente alla cosiddetta “ovovia” che dovrebbe transitare sul ponte di Calatrava per i disabili.

Le argomentazioni sono, a dir poco, spietate, ma altrettanto lucide e puntuali, tanto che ho ritenuto opportuno pubblicarle perché la nostra gente sappia come l’amministrazione comunale sperpera il denaro che spreme alla povera gente.

In questi giorni poi la stampa locale ha pubblicato i risultati dell’indagine, da parte della suprema Corte dei Conti con i gravissimi rilievi che ha fatto sul costo esorbitante, e superiore ad ogni previsione, per un’opera assolutamente inutile – quella del nuovo ponte. Inutile perché con quattro passi in più la gente poteva tranquillamente continuare a passare il Canal Grande attraverso il Ponte degli Scalzi, come ha sempre fatto, non so se da decine o centinaia di anni.

Qualche giorno dopo, sempre “Il Gazzettino”, ci informava che il sindaco “butterebbe nel Canal Grande l’ovovia” – del costo di più di tre milioni di euro – “con dentro qualcuno e non so chi”. L’ovovia infatti continua a non funzionare e forse fa aumentare la già conclamata fragilità dello stesso ponte che già era pericolante.

Oggi, ancora il solito “Gazzettino”, ci informa che se avessero scelto una ditta olandese per il Mosè, quell’opera, costata finora decine di miliardi di euro, sarebbe costata un terzo. Sul tram non serve che la stampa locale ne scriva, perché anche l’ultimo cittadino di Mestre ha avuto modo di seguire con i propri occhi la sua tragicomica telenovela che non alletta i sogni, ma al contrario ha messo in crisi decine e decine di negozi, ha rovinato strade, costituisce un pericolo pubblico per le biciclette e serve, finora, a molto poco, perché intasa i crocevia e lambisce appena i luoghi centrali della città. Per non parlare del villaggio dei Sinti che è risultato una copia conforme dei ghetti in cui s’annida il crimine a Palermo.

L’attuale amministrazione poi non si riscatta dalle precedenti con la trovata di scoperchiare l’Osellino offrendo ai cittadini la cloaca che già abbiamo modo di ammirare presso via Pio X e alle spalle di Coin.

Sulle opportunità perdute, o che si stanno per perdere, ho già parlato. Sull’inefficienza della corposa amministrazione da quattromilaseicento dipendenti sarebbe meglio poter tacere, ma come si fa quando per avere il permesso di mettere in sicurezza l’ingresso e l’uscita del “don Vecchi” di Campalto – a nostre spese – c’è voluto più di un anno e considerando che dal 10 agosto del 2012 stiamo aspettando il permesso a costruire il “don Vecchi 5”?

A me brucia tutto questo perché a chi si fa volontariamente carico del disagio dei nostri vecchi, e a questo scopo è costretto a raccogliere euro su euro, tutto questo sembra assurdo. Non mi meraviglierei se domani un qualsiasi “grillo parlante” venisse a dire: «Tutti a casa!».

La “mendicità” del sindaco e le carenze del parroco

Qualche settimana fa ha tenuto banco sulla stampa e nelle televisioni del Veneto (ma so che pure ha fatto una puntatina fuori dalla nostra regione) una notizia di carattere ecclesiastico del tutto insolita.

Il Gazzettino, e anche Rai Tre Regione, parlando dello stato attuale dell’economia, che sta mettendo in crisi e facendo fallire molte piccole imprese, creando difficoltà alle famiglie e perfino alle parrocchie, ha informato la cittadinanza che un sindaco di un piccolo comune del padovano, non riuscendo più a rispondere alle richieste di aiuto da parte dei suoi concittadini, ha chiesto al suo parroco di poter fare un appello in chiesa, durante la messa festiva, per ottenere almeno un euro da ogni fedele per soccorrere i cittadini in difficoltà.

Non sono riuscito a capire come si sia svolta la richiesta comunale di elemosina, immagino che il sindaco sia andato sul pulpito all’offertorio per fare la singolare richiesta e poi, al posto del sagrestano, abbia fatto il giro tra i banchi della chiesa per raccogliere con la borsa le offerte.

Plaudo a questo sindaco intraprendente e fiducioso nella sensibilità dei suoi cittadini praticanti; sono però molto meno ammirato dal comportamento del parroco di quella comunità cristiana. Di certo quel prete dice messa, battezza, sposa, fa catechismo e predica, ossia ottempera al primo dovere di un cristiano, ma sospetto che ignori totalmente e non metta in pratica il secondo comandamento, che è simile al primo: “Ama il tuo prossimo come te stesso”.

Non s’è accorto, quel reverendo, che “Gesù aveva fame, sete, era senza vestiti, senza casa, ammalato e senza soldi?!”

Ritorno ancora una volta sullo stesso tasto che credo sia il “nervo scoperto” di moltissime parrocchie che praticano religiosità rituale ma hanno ormai, per tradizione, perduto coscienza di quello che è veramente “il cuore” del messaggio evangelico.

Negli Atti degli apostoli è scritto che a Roma i cristiani erano definiti dalla gente “quelli che si amano” e non credo che questo amore fosse “un amore soprannaturale” che non significa quasi niente, e neppure che questo amore consistesse nelle sequenze della parlata veneziana: “amor mio, tesoro, anima mia…” Le parrocchie se non praticano la carità e non si attrezzano ed organizzano per soccorrere i poveri, valgono ancor meno dell'”esercito della salvezza”. I sindaci, invece, devono munirsi di strumenti ben diversi da quello del mendicare in chiesa. Mi spiace che stampa e televisione non abbiano neppure accennato a tutto questo!

“vicini” e “lontani”

In che cosa consiste “la sostanza” del messaggio di Gesù? E’ questa una domanda che sempre più frequentemente e in maniera assillante mi pongo. Me la pongo non tanto per curiosità, o per avere una indicazione sicura che valga per me, perché a questo proposito mi pare di avere idee molto chiare e da molto tempo, ma perché non faccio altro che constatare che nella nostra Chiesa ci sono comportamenti che indicano direzioni diverse e talvolta perfino contrapposte.

A questo riguardo Gesù, già duemila anni fa, è intervenuto in maniera chiara ed autorevole quando disse: «Ama Dio con tutte le tue risorse ed ama il prossimo tuo come te stesso». Non credo però che questo sia stato ancora capito bene, benché siano passati duemila anni di storia cristiana.

Quest’anno, per la domenica delle palme ho trovato per la copertina de “L’incontro” una fotografia di frati e di fedeli che si avviano in processione con delle grandi palme verso il santuario di Padre Pio. Quando ho scelto quella foto non ho potuto fare a meno di chiedermi: “Rispondono meglio al richiamo di Cristo questi fedeli che adempiono a questo rito di pace o i radicali che digiunano e protestano a non finire sulle piazze per impedire che il governo spenda un sacco di soldi per comperare i cacciabombardieri ultima versione? Io confesso che sono più vicino ai radicali!

Ho sentito un tempo un prete che affermava con sicurezza: «I veri cristiani si contano alla balaustra quando fanno la comunione!», ma io credo che siano tali quelli che operano fattivamente per i poveri, si schierano per le classi meno abbienti, appoggiano le richieste dei diversamente abili. Sono arrivato alla conclusione che ogni rito cristiano diventa accettabile e valido solamente nella misura in cui è efficace a far dei cristiani solidali, che amano concretamente, e non con escamotages soprannaturali, il prossimo. Sono arrivato a concludere che non ho più dubbi sul fatto che Gesù è venuto a dirci soprattutto che “il Padre” vuole che ci vogliamo bene, che ci aiutiamo reciprocamente, che ci facciamo carico dei fratelli più fragili e più bisognosi d’aiuto.

Confesso che io, che faccio il prete da più di mezzo secolo, diffido alquanto di quella “Chiesa” preoccupata principalmente dei riti, delle cerimonie, delle novene e delle coroncine, o peggio ancora preoccupata di “consolare Gesù”. Preferisco un’organizzazione caritativa anche sgangherata ad una confraternita di pii oranti.

Le preghiere

Chi, come me, è alle soglie dell’eternità, prova il bisogno – o forse sente il dovere – di verificare ciò in cui ha creduto ed ha tentato di passare ai fedeli in generale e ai suoi discepoli in particolare.

In quest’ultimo tempo mi è capitato di riflettere con insistenza su di un problema con cui un prete ha di frequente a che fare. Tra i più vicini, ma non solo, mi sento chiedere assai di frequente: “mi dica una preghiera”, “preghi per me, lei che è più vicino al Signore”, “mi ricordi nella Santa Messa”. Normalmente si tratta di persone che hanno un congiunto ammalato e per la cui sorte sono preoccupati, o di qualcuno che si trova in grave disagio a motivo del lavoro, qualcuno che sente venir meno la fede, o gente coinvolta in situazioni gravi e complicate.

In questi casi è molto difficile intavolare un discorso per inquadrare queste preghiere che sono richieste “come salvagente” ai propri guai. Sempre accondiscendo ed affido alla paternità di Dio la persona o la questione, lasciando alla Sua assoluta saggezza questioni che sono sempre superiori alle mie possibilità e sulle quali non saprei né cosa chiedere né, peggio ancora, come intervenire.

Però, per onestà mentale, sento il bisogno di precisare a me stesso questa questione della preghiera. Il rivolgersi a Dio nella preghiera per me dovrebbe consistere nel chiedere la forza e il coraggio di affrontare una situazione difficile, preoccupante, di comprendere possibilmente quello che Egli vuole da me attraverso quell’evento, di adeguarmi al progetto di Dio, di avere la forza e la fiducia di credere che tutto quello che Egli vuole, o permette, è sempre per il mio vero bene, anche se io non riesco, in quel momento, a capirne il motivo, e di abbandonarmi fiduciosamente al Suo volere, magari ripetendo, stringendo i denti: “Sia fatta la Tua volontà”.

Credo che solamente inquadrando così la preghiera, essa sia razionale e porti pace interiore. Rifiuto invece quel ricorrere assillante al Signore, pretendendo quasi che Egli diventi “il Dio tappabuchi”, come direbbe quel sant’uomo che fu Bonhoeffer, perché per queste cose il Signore ci ha già fornito tutte le risorse necessarie per risolverle da soli.

Un progetto ridotto

Ritorno su un argomento che ho trattato innumerevoli volte, però che credo così urgente e necessario da sentire il dovere di ritornarvi.

Nella nostra diocesi, fortunatamente e per grazia di Dio, ci sono iniziative, enti e strutture che hanno una grossa e certa valenza di ordine solidale, ma che non sono messe in rete, non sono coordinate da una regia che, sola, le potrebbe rendere più efficienti e funzionali. Nel nostro tempo niente può essere lasciato al caso, perché esistono strumenti che possono razionalizzare anche questo comparto così importante e qualificato della Chiesa veneziana.

Oggi ognuna di queste realtà esistenti si muove in maniera autonoma, non è collegata ad altre realtà similari non si confronta, né si coordina, cosicché esistano doppioni e lacune notevoli.

La Caritas diocesana, che a mio modesto parere dovrebbe essere il cervello e il cuore di queste realtà, non so per quale motivo risulta assolutamente assente.

Abbiamo ipotizzato, in passato, la “Cittadella della Solidarietà” per razionalizzare e coordinare almeno le attività caritative di Mestre; c’erano, a questo proposito, delle opportunità particolarmente favorevoli però, sia per immaturità culturale dei responsabili che dovevano dar corpo al progetto, sia per qualche altro elemento imprevedibile – quale ad esempio il cambio del Patriarca – non se n’è fatto più nulla. Oggi il progetto è stato definitivamente sepolto e vi si è messa sopra una pietra tombale di marmo duro e pesantissimo, denominato “carenza di soldi”!

In questi giorni, fortunatamente, è sbocciata un’altra timida e seppur limitata speranza: coniugare in un’unica realtà “il polo solidale del `don Vecchi'” con le strutture caritative della parrocchia di Carpenedo, dato poi che essendo esse tra le realtà più significative della nostra città, potrebbero offrire una testimonianza – almeno a livello cittadino – quanto mai significativa.

Il seme è stato piantato alcune settimane fa, ora non mi resta che innaffiarlo ogni giorno ed in ogni circostanza, sperando che finisca per fiorire e dar frutto.