L’anima

Un mese o due fa avevo celebrato il funerale per suo padre.

Avevo quindi incontrato la figlia che mi aveva tratteggiato la figura del padre in modo che le parole, del commiato, fossero inquadrate da elementi veri e non si riducessero ad un paragrafo di un testo di teologia rivolte ad una persona da manuale.

Il discorso è stato scorrevole ed appropriato, fatto da una donna abituata a parlare ad alunni, il tono della voce caldo, cordiale quasi confidenziale determinato dal fatto che il marito, in tempi molto lontani, era stato uno dei moltissimi ragazzini che militavano tra gli scout. Di certo egli le ha parlato del prete della sua giovinezza, idealizzato dalla memoria di tante avventure felici passate assieme.

Quella signora mi aveva fatto un’ottima impressione, tanto che mi parve perfino bella, di quella armonia propria delle sessantenni, dalla vita pulita, ordinata e sana.

Ci eravamo rivisti per il trigesimo e l’impressione è rimasta inalterata e positiva. Poi l’incontro con il marito che desolato mi ha annunciato la morte pressoché improvvisa ed inaspettata. La rividi quindi per l’ultima benedizione prima che il legno coprisse per sempre il suo volto.

Non l’avrei riconosciuta se accanto non ci fosse stato il marito e fuori della porta l’epigrafe con il suo nome. Lei c’era tutta, ma quella che filosofi e teologi chiamano l’anima non c’era più. Sembrava un cencio inutile, una realtà inerte ed insignificante, quasi sgradevole agli occhi. L’anima, lo spirito è tutto per l’uomo. Gli dà senso, bellezza, vita. Una volta in più ho capito che dobbiamo dedicare all’anima mille attenzioni in più a quelle che insensatamente diamo al corpo.

Il valore da trasmettere alla nuove generazioni

In questi ultimi giorni mi sono incontrato con un coetaneo molto acciaccato, costretto ormai a vivere in casa in solitudine, nonostante che l’amore e la sollecitudine dei figli provvedano alle sue necessità e una cara donna dell’est riordini la casa e gli stia accanto con quella tenerezza ed amabilità che solamente le donne hanno la capacità di offrire.

Il colloquio è cominciato con i soliti convenevoli, ma ben presto si è avviato verso un discorso serio ed essenziale sul senso della vita e sulla lettura più disincantata e perfino amara delle problematiche della fede e soprattutto su quelle della religione.

Normalmente la gente s’aspetta che il prete faccia il difensore d’ufficio della proposta religiosa ufficiale ereditata dall’educazione ricevuta. Con me le cose non potevano andare così; gli ero troppo amico per prendere le difese anche di ciò che credo che sia indifendibile, ma soprattutto le sue problematiche erano anche le mie.

Chi ha poco tempo davanti, chi sente d’essere ormai al capolinea, non può più accontentarsi di discorsi scontati, di argomentazioni poco condivisibili o di risposte su problemi marginali.

Una volta constatato di aver giocato il passato con onestà, d’aver perseguito un’utopia condivisibile per tutti, di avvertire che un mondo senza una realtà suprema che l’ha creato sarebbe semplicemente assurdo, non ci rimanevano in mano se non queste certezze, quella che la solidarietà è un valore etico assoluto, e costituisce la risposta al dono di Dio più certa, quella di cogliere ogni rito come strumento per rafforzare e vivere queste certezze e quindi l’opportunità e il dovere di continuare a dare con semplicità e con coerenza la nostra testimonianza senza dissacrare nulla di quello che ci ha aiutato a vivere e sta aiutandoci a morire.

Spero che almeno questa onestà possa essere compresa, apprezzata e condivisa dalle nuove generazioni.

Non voglio essere una star

Mi sono appena congedato da una giornalista di Raitre, che con un cameramen della Tv di Stato, ha girato un breve servizio per il telegiornale di questa sera (questo appunto mel diario di don Armando scritto risale ad alcune settimane fa, NdR)

La mia zazzera bianca, la mia corposa figura, un po’ ingobbita, apparirà stasera sui teleschermi dell’alta Italia.

La Rai mi aveva appena chiesto un sevizio sulla filiera di aiuti che in pochi anni abbiamo messo in atto, grazie alla generosità di quasi 150 volontari delle due associazioni Onlus “Carpenedo solidale” e la più recente “Vestire gli ignudi”. Tutto il seminterrato del don Vecchi è oggi impegnato al servizio dei bisognosi.

Oggi al don Vecchi si può trovare dai mobili per arredare un appartamento ai supporti per gli infermi, dai vestiti per tutte le taglie e tutti i gusti ai generi alimentari. Il Centro don Vecchi sta diventando pian piano la cittadella della solidarietà.

Al piano nobile, al secondo e al terzo piano, 194 alloggi per anziani poveri e nel seminterrato la holding della carità.

Tutto questo mi fa molto felice; un po’ meno il fatto che la televisione metta in mostra la mia decadenza fisica, ma soprattutto il fatto che l’opinione pubblica ecclesiale già mi giudica un ambizioso che desidera diventare una star, nonostante l’età. E il nuovo servizio riconfermerà questa convinzione!

Se questo è il prezzo per poter aiutare il mio prossimo, accetto di pagarlo, anche perché chi non fa le mie scelte non può sapere che solo i mass-media offrono un biglietto di presentazione valido per ottenere ciò che serve per aiutare il prossimo!

Ateismo militante

L’anno scorso, alcuni amici, credendo che l’argomento trattato potesse interessarmi, mi hanno regalato il volume di Augias scritto assieme ad un bibblista di Bologna.

Il volume s’inserisce in una campagna di un gruppo di atei militanti che tentano con ogni mezzo di combattere la fede, la chiesa e quanto il cristianesimo rappresenta nel nostro popolo e nella nostra cultura.

Non sono riuscito a leggere il volume per intero, tanto mi ha indisposto la sicumera faziosa degli autori che tentano in ogni modo di smontare la figura di Gesù per ridurlo ad un velleitario, che non aveva un messaggio originario, che non intendeva fondare la chiesa e che in ogni caso non ha nulla o quasi da offrire all’uomo d’oggi.

Mi sono documentato, leggendo delle critiche autorevoli, che tutto sommato affermavano quanto io, da non esperto, ero riuscito a capire.

In questi giorni è uscito un altro volume di Augias, scritto in collaborazione di un certo Mancuso, che io non conosco. Ho letto due critiche, una su “Famiglia Cristiana”, che non stronca la sicumera, l’arroganza intellettuale e il disprezzo, autentico disprezzo, che Augias nutre e manifesta per la chiesa. A suo dire un prete malizioso e sporcaccione, incontrato durante la sua fanciullezza, gli avrebbe aperto gli occhi e gli avrebbe fatto conoscere la degradante malizia di questa realtà che si richiama a grandi valori. Augias non mi ha sorpreso, mentre mi ha sorpreso ed amareggiato “Famiglia Cristiana”, che da qualche tempo pensa di emanciparsi facendo la progressista non solo in politica. Ho letto invece un’altra critica su “Avvenire”, di ben altro tono, che dice ad Augias e al suo compagno, quello che si merita. Gli atei militanti che pontificano oggi da “pulpiti di prestigio” non sono molti, ma sono comunque perfidi e saccenti.

Mi permetto quindi di dire ai miei amici: “non gradisco ricevere in dono questo volume, anzi lo sconsiglio decisamente”

La chiesa è certamente criticabile perché fatta d’uomini, ma non merita certamente la malizia, la cattiveria e la saccenza di questa gente che approfitta del prestigio offerto dalla Tv di Stato, per buttare fango su quello che tutto sommato, c’è di più sano nel nostro Paese!

Echi lontani

Ora finalmente capisco come i preti, che non sono in linea di combattimento, spesso sembra che non si lascino coinvolgere più di tanto sulle problematiche della fede e della pratica cristiana, anche in occasione delle celebrazioni più importanti dei misteri cristiani.

Un tempo smaniavo al pensiero delle lunghe ed interminabili file di fedeli in attesa di confessarsi, penavo a non finire quando in occasione della settimana santa la chiesa mi sembrava meno gremita degli anni precedenti, mi lasciavo letteralmente travolgere dalle varie iniziative che si ponevano in atto per coinvolgere il popolo cristiano nel dramma della passione, morte e resurrezione di Cristo.

In quarant’anni di parroco quanti tentativi, quante sfide, quante proposte perché “l’ondata di monta” raggiungesse anche gli indifferenti, anche i lontani.

Ricordo quando decisi di uscire dalla sacrestia in occasione del venerdì santo. Dal ’68 in poi le parrocchie non ebbero più il coraggio di fare una processione per le strade della parrocchia. Quando mi dissi perché dovevo soggiacere alla prepotenza di non molti scalmanati e mascalzoni? Ci fischiarono, ruppero i cartelli delle stazioni della Via Crucis, ma finimmo per averla vinta. Anche oggi si può fare di tutto; è solo questione si convinzione e di coraggio!

Quello che però mi faceva male era come una certa frangia di preti di Curia, di scuola o non direttamente impegnati in parrocchie, se ne stesse beatamente da parte, non partecipasse, anzi pensasse ad una vacanza o ad un riposo straordinario.
Ora faccio parte anch’io di questa categoria.

Sì, pulisco, abbellisco, sono presente nella mia chiesetta tra i cipressi, ma l’eco della settimana santa giunge attenuato sia in cimitero che al don Vecchi.

Ho dovuto fare uno sforzo anche quest’anno perché il Cristo crocefisso e poi risorto lo sentissi presente e l’incontrassi nel mio vissuto!

La pensione produce purtroppo anche questo!

Quando è Pasqua?

Quella di quest’anno è stata la cinquantacinquesima volta che dovevo predicare sulla resurrezione di Cristo in occasione della Pasqua.

Come sempre mi ha colpito il tormentone che mi turba quando devo prendere la parola, ma particolarmente in occasione delle celebrazioni cardine della nostra fede, e Pasqua ne è notoriamente il pilastro portante.

San Paolo già venti secoli fa aveva intuito tutto questo quando affermava: “Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede!”

Col passare degli anni uno va sempre più al cuore dei problemi, motivo per cui oggi, in cui vivo i tempi supplementari della mia vita, parlare di queste realtà senza che il discorso sia intimamente e sostanzialmente coniugato ai problemi veri del vivere, sarebbe non solo assurdo, ma mendace ed irriverente alla fede. Io poi che ho un orecchio attentissimo alle parole e ai ragionamenti dei non credenti, e soprattutto degli atei militanti alla Augias o alla Severino, divento estremamente esigente con me stesso e con i miei sermoni.

Quest’anno arrivai pian piano ad impostare così il mio discorso: “Quando è Pasqua? Non certamente quando il calendario segna in rosso questa data. Questa annotazione è semplicemente farisaica, formale e ridicola.

Per me è Pasqua quando non mi sento più sconfitto dal male e dalla vita, quando ho vinto la paura della morte perchè già intravedo la vita nuova, quando mi sono convinto che alla fine della strada del dolore c’è la vittoria del bene, quando come la Maddalena o i discepoli di Emmaus sento di avere una splendida notizia da offrire agli uomini del mio tempo, quando guardo con fiducia e desiderio il domani perché so che là incontrerò il Risorto, quando sono certo di poter vincere ogni forma di male, quando so intravedere il volto di Cristo risorto nelle parole e nelle opere degli uomini onesti di qualsiasi bandiera e di qualsiasi credo. Quando infine in me queste certezze non sono più coperte da una pietra tombale, ma gli altri le possono scorgere nei miei occhi e nelle mie azioni. Quando vivrò tutto questo allora per me potranno suonare le campane di Pasqua! Quello è il suo giorno!”

Una scelta infausta!

A molti giorni di distanza provo ancora l’amarezza e un senso di colpa per la “Via Crucis” che quest’anno ho offerto ai miei anziani il Venerdì Santo.

Durante la Quaresima al don Vecchi conduce il venerdì la Via Crucis, suor Michela perché io celebro la santa messa proprio a quell’ora nella chiesa del cimitero.

Il Venerdì Santo, essendo libero da questa celebrazione, normalmente sono io a condurre la pia pratica della via dolorosa.

Vi partecipa circa un centinaio dei residenti al Centro. Facciamo le cose per benino.

Un anziano porta una rozza croce di legno formata da due rami di albero, altri due anziani gli sono accanto con le torce accese; il percorso è piuttosto comodo perché percorriamo il sentiero lastricato che gira attorno ai due grandi edifici. Normalmente si forma una lunga fila perché la stradina misura appena due metri, ma con l’altoparlante portatile tutti, benché duri d’orecchio, vi partecipano devotamente.

Quest’anno la sorte si è accanita contro di noi, da un lato perché, all’ultimo momento il microfono gracchiava terribilmente e perciò non potei usarlo e dall’altro lato ebbi l’infausta idea di affidarmi alla lettura di un libricino stampato recentemente. Gli avevo dato una sbirciata mi era sembrato abbastanza buono, perciò rinunciai ad un commento personale delle 14 stazioni perché avevo una voce fioca, come ogni anno mi ero stancato assai.

Non so chi abbia scritto quel testo, di certo era un cristiano che doveva vivere fuori dal mondo. Un discorso pieno di frasi scontate, di pensieri rifatti, con un repertorio da predica fine ottocento. Ormai ero in ballo e andai fino alla fine, però mi sentivo così lontano, così estraneo e così in atteggiamento di rifiuto di una religiosità in disuso e stantia per cui ho giurato nel mio cuore che mai più farò una cosa simile. Molto meglio il testo di S. Bernardino da Portomaurizio con tutta la sua enfasi e passionalità che quella prosa melensa e fuori corso!

Uscire dalla crisi

Sono maestri insuperabili in questo settore i vecchi comunisti, i radicali e i padroni dei mass-media, i quali ripetono fino alla nausea un discorso, tanto che anche se privo di ogni fondamento esso finisce per imporsi sull’opinione pubblica e pian piano diventa un dogma, ossia una verità certa, indiscutibile, assoluta.

Questo è motivo per cui affermare qualcosa contro queste “verità di fede” ti porta ad essere “scomunicato” o visto come uno degli untori della peste di manzoniana memoria.

Oggi tutti dicono che siamo in crisi, tutti affermano che le aziende chiudono, che milioni di lavoratori rimangono disoccupati. Tutto questo è vero. Ma è altrettanto vero che tutti si aspettano che Berlusconi, il Governo o che so io, risolva questa sciagura!
Faccia una legge, emani un provvedimento, scopra gli evasori, tassi i ricchi, ecc…. escogiti insomma qualcosa che faccia tornare il sereno in maniera tale che si possa lavorare meno, con più vacanze, togliersi qualche capriccio in più. Nel frattempo, in attesa del “miracolo” i concittadini non vogliono più fare certi lavori faticosi, aumentano gli italiani che a Pasqua si sono scelti una vacanza, le strade sono sempre più intasate di automobili, per pranzare al ristorante bisogna fare la fila.

La verità sulla crisi e sui relativi rimedi rimangono indiscusse e certe come la tavola della legge di Mosè.

Brunetta sarà anche piccolo, bruttino ed antipatico, ma con qualche piccolo decreto ha “guarito” gran parte degli statali. Io spero ardentemente che continui su questa strada, nonostante che l’enorme esercito dei sindacalisti che campano bene senza lavorare gli sia decisamente contrario.

La ministra dell’istruzione mi pare lo segua a ruota, e credo se qualche altro ministro e soprattutto la gente della carta stampata, dello schermo avranno il coraggio di parlare onestamente, corriamo il “pericolo” che questa crisi ci salvi davvero!

Impegno, lavoro, competenza, sobrietà di vita, intraprendenza, consapevolezza che ogni lavoro onesto è nobile, vita morale, queste sono le uniche ricette che non solo ci porteranno fuori dalla crisi, ma ci salveranno davvero da una vita fatua e da una società corrotta!

A proposito di scuole pubbliche e private

Mi ha fermato una gentile signora che mi ha detto che segue con interesse “L’incontro”.

Aveva però un’osservazione da farmi su un articolo di fondo che ho scritto qualche settimana fa, prendendo lo spunto dalla presentazione di Padre Gemelli, l’ideatore e fondatore dell’università cattolica del Sacro Cuore.

La tesi che la signora sosteneva era certamente valida e non mi sognerei mai di contestarla. Diceva questa signora, che probabilmente era un’insegnante in pensione o forse la figlia di un’insegnante, che non tutte le scuole statali sono da rifiutare per insufficienza o per poca serietà e non tutte le scuole private sono valide sotto ogni punto di vista e sfornano allievi modello.
Sono perfettamente d’accordo.

Però anche fatte le debite proporzioni numeriche, la percentuale di validità non penso che propenda per la scuola di Stato, perché se non altro per avere alunni la scuola privata deve affermarsi per la validità dato che comporta un costo aggiuntivo per le famiglie.

Io mi scuso pubblicamente se dal mio scritto è emerso che la scuola privata è eccellente. Il bene e il male, il vero e il falso non sono mai divisibili con un taglio netto. Quello che invece volevo affermare è che anche nel campo scolastico la competizione, il confronto sono sempre vantaggiosi e doverosi. Finché lo Stato finanzierà soltanto la scuola pubblica questo non potrà mai avvenire e anche le scuole di Stato con gli insegnati peggiori e con una pessima organizzazione sopravviveranno comunque, mentre la scuola privata questo non se lo può assolutamente permettere o meglio ciò può avvenire quando si vendono le promozioni, ma per questo lo Stato ha mezzi più che sufficienti per non permetterlo.

Il terremoto

La sorpresa di primo mattino di lunedì santo è stato il terremoto all’Aquila. Immagini desolate: macerie, gente per strada, vecchi smarriti, soccorritori affannati e cronisti che imperversano macinando continuamente le poche notizie.

Qualche dichiarazione politica rassicurante, promesse di pronta ricostruzione alle quali purtroppo si prevedono lungaggini, imbrogli e mafia.

Questa notizia ha smorzato, fin dal primo giorno della settimana santa, il sogno di una primavera prorompente quale cornice e segno di resurrezione di vita nuova.

Durante la settimana santa ho cercato di scandagliare il fondo della mia coscienza per scoprire sentimenti, reazioni e stati d’animo da coniugare con i misteri pasquali che la liturgia una volta ancora ci proponeva.

In quest’ultima settimana più volte ero rimasto turbato per il riaffiorare di un ateismo militante che, con arrogante supponenza si rifà al secolo dei lumi o all’anticlericalismo ottocentesco di stampo liberale o socialista, si è manifestato abbastanza frequentemente mediante articoli, pubblicazioni di volumi, trasmissioni televisive, la pubblicità negli autobus genovesi.

Questo tentativo di rivalsa agnostica ed atea, tronfia che sventola i vessilli della scienza, della libertà mi ha fatto ritornare in mente il racconto che il Guareschi premette a “Mondo piccolo”. Il buon Dio, pur paziente, alla fine si stanca della traballante torre di Babele con cui gli uomini tentano di sbalzarlo dal suo trono e muove l’ultima falange del dito mignolo e la torre rovina a terra in un mucchio di macerie.

Io non so se il buon Dio abbia fatto questa volta, tutto questo, certamente no, ma comunque l’abbiamo abbondantemente meritato!

Coraggio e fantasia per trovare Cristo nel domani

Spero, o forse mi illudo, che sia il grande amore che nutro per la mia chiesa e per le parrocchie che le danno volto, che mi rende così critico ed esigente nei loro riguardi.

Quando registro che comunità parrocchiali di cinque o seimila abitanti si accontentano di un paio di messe domenicali, quando constato che le chiese rimangono chiuse per la gran parte della giornata, quando vengo a sapere che un parroco non visita le sue famiglie nemmeno una volta all’anno, anzi che i cristiani vivono e muoiono senza che certi preti neppure se ne accorgono, quando mi dicono che in certe parrocchie dopo la cresima, magari impartita a undici o dodici anni, non esiste null’altro per adolescenti e giovani, quando i giornali scrivono che gli avvenimenti, gli incontri, la vita si svolge non più attorno al campanile, ma all’ombra del centro civico o del municipio, quando avverto cristiani e preti rassegnati alla sconfitta e all’abbandono e soprattutto quando non noto nuove iniziative, tentativi, sperimentazioni pastorali coraggiose ed innovative, il mio animo diventa triste fino alla morte.

La nostra chiesa e le nostre parrocchie sembrano ripiegate sul “glorioso passato” timorose ad impaurite del domani mentre il Cristo della resurrezione, quello vero, ossia l’unico Salvatore, lo possiamo incontrare solamente avanti, nel futuro ove la vita sboccia e si fa storia.

Allora prego e spero che arrivino finalmente profeti, testimoni, cristiani folli e preti coraggiosi che cerchino il Signore oltre la trincea. Oggi la nostra chiesa ha bisogno di novità, di fantasia, di coraggio, di eroismo, di ricerca e di sperimentazione, ma per questo ci vogliono preti e cristiani disposti a pagare l’alto prezzo di questo modo di vivere e trasmettere la fede, convinti che solo così si incontra il Signore della vita!

Vivere davvero la Passione e la Resurrezione

La settimana santa è arrivata anche quest’anno puntuale e legata al plenilunio, per prepararci alla Pasqua.

La liturgia ci presenta i brani del Vangelo che inquadrano la passione, morte e resurrezione di Cristo.

Nei discorsi di noi uomini di chiesa si dà per scontato che nella celebrazione dell’Eucarestia non solo c’è la commemorazione, ma anche il memoriale di questi misteri che danno significato e pregnanza della vita.

Noi preti poi parliamo con disinvoltura della domenica come la Pasqua della settimana. Sono discorsi scontati che possiamo equiparare ai nostri “buongiorno e buonasera” che quasi sempre non evocano niente mentre li pronunciamo cento volte al giorno.

La ricorrenza liturgica arricchisce il messaggio e provoca una certa emotività ed una maggiore partecipazione al “mistero cristiano”.

Osservavo anche quest’anno come sia l’assemblea di anziani al don Vecchi che quella della chiesa del camposanto, ha ascoltato in un silenzio ricco di emotività e di partecipazione il racconto della passione di Cristo. Tutto sommato la lettura ha evocato fatti lontani, seppur importanti e significativi, però tutta la mia preoccupazione era quella di rendere attuale la passione, la morte e la resurrezione del Cristo vivente nell’umanità degli uomini d’oggi.

Se il dramma divino non diventa il nostro dramma, se non ci sentiamo parte integrante di esso, se non riusciamo a scoprire all’interno del mondo in cui viviamo il Cristo che oggi è nell’orto, che è deriso, che è flagellato, il cui trionfo è effimero e formale, se non lo scopriamo in croce, se non lo incontriamo risorto, arrischiamo di commemorare, di partecipare ad una recita teatrale, ma non a vivere oggi positivamente la nostra redenzione!

Un dolce castigo

Ho già confessato che nel mio subconscio mi ero quasi risentito col Signore perché ci aveva fatto mancare la nostra meravigliosa primavera, riducendoci alla stregua dei paesi nordici il cui cielo è sempre cupo e piovigginoso, l’atmosfera fredda e il sole quasi sempre latitante e quando appare in cielo è malinconico ed imbronciato. Mi sembrava che il buon Dio ci avesse privato di un qualcosa che ci era dovuto.

In fondo sentivo, anche se non volevo ammetterlo, che noi abitanti di questa terra benedetta non abbiamo alcun titolo per pretendere un cielo azzurro, un sole tiepido e luminoso, prati verdi e fioriti, e per di più non volevo confessare che tutte le cattiverie della nostra gente dovrebbero riservarci un tempo molto più brutto, più amaro di quello che abbiamo avuto in questa stagione deludente e grigia.

Senonchè in questi ultimi giorni è scoppiata improvvisamente primavera. Il buon Dio pare che mi rimproveri, non con delle solenni legnate e con giorni tristi e nebbiosi, ma con la ritrovata bellezza delle stagioni e dei tempi migliori.

Il grande prato a ponente del don Vecchi è tutto d’oro, una distesa continua e sorridente di fiori gialli trapunti da una miriade di margherite, i rami dei salici si sono ricoperti di un verde fresco e leggiadro e nel prato a levante chiazze di azzurro, fiammate di forsizie ed una tempesta di arbusti che sembrano rivestiti di una trine bianca. C’è un’ebbrezza una dolcezza tutto attorno che accarezza gli occhi e il cuore.

Il dolce “castigo di Dio” per il mio egoismo e la mia diffidenza mi fa arrossire e nel contempo benedire il Signore.

Le chiese potrebbero riempirsi di ragnatele…

Al don Vecchi opera un gruppetto di signore, che io definisco, adoperando una terminologia impropria e certamente roboante: “circolo ricreativo culturale” ma che comunque organizza assai di frequente concerti, commedie e gite turistiche.

Qualche domenica fa il gruppo “il circolo ricreativo culturale”, mi si passi una volta ancora questa definizione pomposa, ha invitato il coro “Voci d’argento” del quartiere di Favaro Veneto. Il coro era formato da una trentina di coristi tra uomini e donne, tutti con una divisa appropriata ed elegante, forniti di una strumentazione tecnica adeguata e diretta da una giovane ed avvenente “maestro”

In verità il coro che ha eseguito un repertorio di canti popolari e di canzoni veneziane, aveva un timbro ed uno stile lirico piuttosto che un andamento da canti folk. Comunque i toni robusti e vigorosi, impressionarono favorevolmente il nostro pubblico di anziani che non ama le lagne o i preziosismi canori.

Ascoltai tutto il concerto sia per dovere che per piacere, ma soprattutto mi interessò il discorso del presidente del coro e del gruppo anziani di Favaro: 700 iscritti, un gruppo numeroso di volontari che si rendono utili per ogni incombenza sociale.

Accanto a me si sedette un vecchio camionista in pensione, presidente invece, del gruppo bocce del nostro quartiere: 180 soci ed un gruppo consistente di volontari disponibili per ogni incombenza sociale.

D’istinto confrontai il gruppo anziani della mia ex parrocchia 400-450 anziani ed attività di ogni genere, ed ora ridotto al lumicino, il gruppo della sagra mediante cui finalmente si riconcilia la piazza con la parrocchia.

Pare che i preti di oggi non abbiano capito che la comunità si costruisce con gli uomini veri, non con i manichini vestiti da chierichetti. Ho l’impressione che molto velocemente non sarà più il campanile il baricentro della comunità ma la casa comunale. Se andiamo avanti di questo passo le nostre chiese saranno abitate dalle ragnatele!

Usare con i fratelli una lingua comprensibile

Oggi ho celebrato il commiato di un concittadino che ho incontrato per la prima volta senza poterlo vedere perché la bara era già chiusa, ma che ho conosciuto comunque attraverso le parole scarne ed oneste di sua moglie.

Già me ne aveva parlato quando era ricoverato in ospedale; lei forse sperava che una mia visita l’avrebbe riconciliato con Dio e con i preti, non sapendo, questa cara donna, che per queste cose ci vuole una frequentazione tale da acquisire stima personale, cosa che solamente il cappellano dell’ospedale, se ci fosse, potrebbe fare!

La moglie, credente e praticante, desiderava che il marito se ne andasse da questo mondo accompagnato dalla preghiera della comunità, ed io pure più di lei, desideravo che la chiesa si accomiatasse da lui con un atto di riconciliazione e di amore.

Nel salutarlo ho parlato con il cuore e il più onestamente possibile.

Cominciai col dire come Sant’Agostino che “ci sono uomini che Dio possiede anche se la chiesa non possiede, e purtroppo ci sono uomini che la chiesa possiede ma che Dio non possiede” e sono quest’ultimi che combinano i più grossi guai a livello religioso e provocano rotture insanabili per il loro fariseismo e per la loro religiosità bigotta e formale, nei riguardi degli uomini più veri e più onesti.

Continuai col dire che se i preti avessero fatto conoscere a questo fratello il Padre del prodigo e non un Dio carabiniere e di corte vedute, certamente egli non l’avrebbe rifiutato.

Terminai ringraziandolo per la sua critica a noi preti, forse solamente la critica, talora aspra ed amara, di questa gente può aiutarci a non diventare funzionari gretti, interessati e poco umani dell’azienda chiesa e dal predicare una religione stantia, per nulla interessante e disincarnata.

Sono certo che ci siamo lasciati in pace, io porterò un buon ricordo di lui e spero che anche lui ricorderà con affetto questo vecchio prete che gli ha parlato con una lingua comprensibile e condivisibile.