Prediche non più lunghe di otto minuti!

Io leggo molto volentieri per bisogno e per necessità e sono dispiaciuto perché non riesco a dedicare alla lettura più tempo di quanto normalmente faccio.

La lettura mi tiene aggiornato sulle problematiche della società in cui vivo, sugli umori della gente e sul mutare costante della sensibilità e contemporaneamente mi mette al corrente sulle iniziative pastorali, sul modo di proporre il messaggio evangelico e mi è quanto mai stimolante per mettere a punto il mio pensiero, le modalità con cui intervenire per iscritto nella stampa e nei miei “sermoni” feriali e soprattutto domenicali.

Tempo fa ho pubblicato un trafiletto, che avevo trovato quanto mai interessante sul nostro periodico nell’intento di condizionare me stesso e i miei confratelli sacerdoti a tutto vantaggio della Parola di Dio e soprattutto del Popolo del Signore, che spesso deve sorbirsi dai suoi preti dei pistolotti che non finiscono più e che costituiscono una penosa penitenza.

L’articolo aveva come titolo “La predica valida è quella con tre c: ossia quando è corta, convinta, e convincente”.

L’altro ieri leggendo “Vita pastorale” una rivista rivolta soprattutto al clero, un articolo dal titolo un po’ sorprendente: “Il diavolo e l’acqua santa” in cui il sacerdote, che organizza da 25 anni la trasmissione da parte della radiotelevisione italiana le messe domenicali, afferma che la predica non deve superare gli otto minuti. Suddetto esperto diceva che questa era la prescrizione del Sinodo dei vescovi italiani; lui aggiungeva poi altre argomentazioni assolutamente condivisibili.

Ho immediatamente chiesto a suor Teresa quali fossero i miei tempi, lei m’ha risposto che sforo di 3-4 minuti! L’ho pregata quindi che d’ora in poi mi cronometri perché ho tutta l’intenzione di obbedire ai vescovi italiani!

Forse la mia idea non era del tutto sbagliata!

Nota: la redazione, che immette settimanalmente i pensieri di don Armando in questo spazio dando loro la forma di un blog, è felice di aver contribuito indirettamente a questo post!

Oggi mi ha raggiunto prima della messa un giovanotto che fa l’agente di commercio per una azienda che è disposta a finanziare “Piccoli cimiteri” di loculi cinerari da costruirsi in eventuali dependances di chiese o di luoghi sacri. Questo giovanotto, che aveva una busta con i relativi depliants e costi del progetto aveva scoperto sul mio blog che la loro iniziativa corrispondeva alla lettera al progetto che io avevo proposto alla “Veritas” e al comune per finanziare la chiesa del cimitero.

Sono stato contento dell’incontro per vari motivi: a) ho scoperto di avere un blog. A più di ottantanni possedere un “blog”, che non so neppure in che cosa consista, mi fa sentire moderno quasi fossi appena uscito dalla facoltà di informatica, b) la conferma che il mio progetto non era poi tanto peregrino quanto mi vollero far credere se pare che ci sia gente disposta a finanziare progetti del genere, mettendo a disposizione capitali che poi pensa di recuperare in vent’anni esigendo solamente la metà di quanto viene richiesto a chi acquista il loculo!

Le cose sono andate diversamente, ed io ne sono particolarmente felice perché la soluzione provvisoria è risultata quanto mai economica e positiva per i fedeli e per me. Da qualche tempo sto proponendo un altro progetto al comune per prolungare l’autosufficienza dell’anziano, per offrirgli una vita il più possibile normale ed umanamente rispettosa della sua persona e per abbattere i costi iperbolici che il comune deve addossarsi. So di certo che non la spunterò!

L’amministrazione civica è un pachiderma, spesso sordo alle proposte di chi opera per il prossimo, solamente spinto da ideali, è spendacciona per natura e purtroppo forse anche per scelta! Io faccio un’immensa fatica pensare ai 4600 “lavoratori” del comune che talvolta a taluno sembrano pagati per complicare la vita e creare impedimenti a chi vuol lavorare, ma capisco che mi debbo rassegnare.

La storia della nostra Patria

Da un lato mi ha sorpreso alquanto il patriottismo del nostro Presidente della Repubblica; so che l’area culturale in cui s’è intriso nella sua giovinezza, nella maturità e anche nell’incipiente vecchiaia, considerava la vera patria la Russia, ove prosperava il modello di “democrazia” tanto caro al suo partito, mentre i discorsi patriottici erano avversati e bollati di fascismo da parte della stessa parte politica. Ma da un altro lato mi fa alquanto felice prender atto di questa “conversione”. Ciampi ha riscoperto il tricolore e l’inno nazionale, “Fratelli d’Italia”, Napolitano la Patria! Questo recupero mi fa ritornare alla mia infanzia in cui queste parole e questi ideali letteralmente imperversavano!

Ora però ho veramente paura della retorica, del patriottismo formale e dello spreco di denaro per qualcosa che arrischia d’essere più apparenza che sostanza! Siccome non mi pare d’essere il solo a pensarla così ho fatto un serio esame di coscienza nella preoccupazione di aver preso un’influenza oggi abbastanza diffusa che non si chiama più “asiatica” o “suina” ma “influenza leghista”. No! La mia preoccupazione nasce da altri motivi. Già una trentina d’anni fa mi è capitato per caso, di leggere una storia dell’unità d’Italia vista non con gli occhi del Piemonte, del fascismo o del liberalismo anticlericale, ma con gli occhi dei soccombenti, dei vinti. Quella lettura mi ha fatto nascere i primi dubbi sulla retorica risorgimentale. Ora i dubbi sono diventati certezza; la storia è ben diversa, lo confessano anche i “patrioti” dell’ultima ora: la politica britannica, l’appoggio della mafia, la corruzione pagata abbondantemente da Cavour, i plebisciti farsa, gli interventi espansionistici dei Savoia sono elementi che hanno poco a che fare con l’ideale di Patria, di risorgimento!

Ora, “cosa fatta capo ha!”, ma almeno tentiamo di evitare la commedia o peggio la farsa e tentiamo di fare quello che non s’è fatto per non manomettere la storia o meglio ancora per fare spazio a quella autonomia di cultura, di tradizioni che è ancora possibile fare e per togliere spazio a quelle “animosità” che continuano a creare incomprensioni e dissapori tra i vari ceppi culturali della nostra nazione. Io sono italiano e ci resto, ma sono italiano veneziano, come spero che Napoli sia abitata da italiani napoletani.

La bella sorpresa che riserva sempre il Don Vecchi a chi lo visita

Qualche giorno fa, con un gesto di squisita gentilezza, un mio “compagno di sventura” m’ha fatto visita al don Vecchi assieme alla moglie, il cognato e due altre cognate.

La sorte ci ha assegnato la stessa camera e per una decina di giorni siamo convissuti nello stesso luogo, lui per la prostata ed io per il rene. Il “nemico” oggi non dà tregua e continua a “sparare sul mucchio”, a chi tocca tocca!

Durante le ore infinite, perché in ospedale le ore non durano solamente sessanta minuti, ma eternità, abbiamo avuto modo di scambiarci qualche confidenza e di parlare del mondo da cui provenivano e del quale ci occupiamo. Usciti ambedue un po’ malconci, qualche telefonata ha mantenuto aperto il dialogo tanto da spingere questo “amico di sventura” a farmi una visita assieme ai suoi famigliari al don Vecchi.

L’incontro è iniziato con la partecipazione alla messa in cimitero, con la visita al Centro e all’indotto dei magazzini per gli indumenti e dei mobili e col pranzo assieme ai miei colleghi anziani.

Io sono ormai abituato alla vita negli ambienti del don Vecchi, sono orgoglioso della struttura che è certamente leader nel settore degli alloggi protetti, do per scontata la galleria di quadri, i mobili in stile, ma mi ha particolarmente reso felice il senso di sorpresa e di ammirazione di chi viene pensando di trovare una casa di riposo maleodorante, sciatta e convenzionale, scoprendo invece un “albergo di qualità”. È stato così anche per i miei amici padovani, ma spero e voglio che sia così almeno fin che io avrò respiro per imporlo! I nostri vecchi meritano questo e altro!

Il Signore mi ha impartito una pesante lezione di vita!

Il Signore anche questa volta mi ha impartito una severa lezione di vita, tirandomi le orecchie per bene!

Ho già confidato a questo diario che qualche giorno fa avevo dato, stizzito, ad un povero diavolo, mandatomi da un mio collega, 10 euro, ma malvolentieri.

La cifra era ben modesta ma, il modo di porgerla ancor più grave perché poco garbato e per di più controvoglia, da un lato perché questo prete continua a fare lo scaricabarile nei miei riguardi ed ogni volta che gli capita l’opportunità tenta di mettermi a disagio, pur sapendo che sono pensionato e che ormai non svolgo più alcun ruolo attivo nell’esercizio della carità all’interno della diocesi e dall’altro lato perché, come presidente della fondazione, sono il primo a dovermi impegnare per racimolare il denaro per pagare il don Vecchi di Campalto.

Per questi motivi avevo fatto quel misero gesto di carità nel peggiore dei modi, pur ricordandomi quello che, un tempo una piccola sorella di Gesù di padre de Foucauld mi aveva detto: “Anche un piccolo gesto di fraternità nei riguardi di un povero è sempre un gesto positivo”.

Un senso di disagio mi stava accompagnando, quando un paio di giorni dopo mi telefonò due – tre volte, un signore che pensava che io mi trovassi ancora in Via del Rigo nel cenacolo degli anziani e non riusciva a trovarmi; finalmente riuscì a raggiungermi al don Vecchi mentre stavo accompagnando alcuni signori a visitare la struttura “Le chiedo solamente mezzo minuto!”. Mi consegnò una busta piena di denaro. Tentai inutilmente di farmi dire il nome e di dirgli come l’avrei speso. Nella busta, contai, un po’ più tardi 5.000 euro.

Se n’è andato svelto, vedendomi impegnato. Subito ebbi la nitida percezione che fosse il buon Dio a punirmi per quella carità mancata di un paio di giorni prima.

Mi sto sempre più convincendo che il Signore non ha alcuna difficoltà a finanziare alcunché, ma desidera che io mi fidi e creda comunque e sempre nel comandamento dell’amore!

Spero che l’ulteriore lezione, questa volta ben pesante finalmente, mi giovi!

Un regalo bello che riconferma l’importanza della gavetta

Talvolta ricevo delle attenzioni che veramente mi fanno arrossire, perchè non ho mai avuto sentimento di una gran autostima.

Mi sono sempre ritenuto un povero uomo ed un povero prete che persegue sì qualche utopia, che crede in certi valori e si batte decisamente per vederli realizzati, che si oppone alle ipocrisie e ai formalismi per affermare le cose che veramente contano, ma nulla più!

Al mio ritorno dall’ospedale ho ricevuto una infinità di espressioni d’affetto da parte di concittadini che neppure credevo di conoscere, a cominciare dal Patriarca, al vescovo ausiliare, ai primari dell’urologia, della cardiologia e dell’anestesia che in tempi diversi s’erano presi cura della mia salute. Sono stato sorpreso e felice da tante attenzioni, che sono certo di non meritare e che fanno onore alla sensibilità e all’umanità di questi personaggi.

Qualche giorno fa il primario di anestesia, che tante volte ha prestato la sua opera durante tanti miei interventi, è venuto a trovarmi e con grande amabilità mi ha perfino donato il catalogo della mostra di Cima da Conegliano.

Avevo sentito parlare molto bene della mostra, avevo invidiato questi Comuni del contado che finiscono per surclassare la vecchia e superba Venezia, assai manchevole nei riguardi della cultura e dell’arte. Avevo visto qualcosa di questo pittore, però il catalogo m’ha fatto spalancare gli occhi sorpresi e sbalorditi sulle opere di questo artista che io erroneamente avevo considerato un minore. Cima da Conegliano appartiene ad un tempo lontano, ad una sensibilità artistica diversa dalla nostra, ma se lo confronto con infiniti pittori del nostro tempo non posso che concludere che egli è un sommo, mentre molti artisti spesso improvvisati, senza cultura, senza mestiere e senza “bottega” sono dei lillipuziani, che nascondono la loro imperizia con gli sgorbi e le macchie disordinate di colore.

Gli uomini d’oggi che operano in qualsiasi settore della vita non hanno ancora imparato che il genio è una cosa, ma senza apprendistato, senza ricerca e senza “bottega” neppure il genio riesce a fare qualcosa che appartenga al mondo della poesia e del bello!

Riflettendo sulla magistratura

Un signore mi ha mandato una e-mail piuttosto pepata circa delle mie valutazioni sulla magistratura, valutazioni espresse su “L’incontro” di qualche settimana fa.

Suddetto signore evidentemente condivideva le posizioni della sinistra e in particolare di Di Pietro, che ha fatto della difesa della posizione di una certa magistratura il suo punto di forza e il suo cavallo di battaglia.

Una volta tanto rinunciai alla tentazione della polemica e tentai la strada del dialogo ammettendo i miei limiti e soprattutto dichiarando convinto che pure io sogno una magistratura saggia, discreta e non schierata, ma non vedevo purtroppo ancora realizzato il mio auspicio.

Dopo qualche giorno m’è giunta una risposta garbata in cui s’avvertiva il dispiacere di un intervento angoloso e pungente.
Evidentemente il mio interlocutore s’è trovato nella situazione di aver dato una forte spallata verso una porta totalmente spalancata.

A parte questo incidente molto marginale, la situazione è molto grave per tre motivi: Primo, l’ organizzazione della giustizia è certamente farraginosa e antiquata; secondo, il rendimento, per i motivi più diversi, non è assolutamente vicino agli standard della giustizia non solamente dei paesi europei, ma anche di quelli dei paesi del terzo Mondo, pur essendo, i magistrati, i professionisti più pagati, sono la categoria che rende meno in assoluto; terzo, a motivo delle polemiche da parte dei politici e degli interventi extragiudiziari e spesso apertamente faziosi oggi i magistrati in genere, anche quelli più saggi e operosi, sono meno apprezzati dei pompieri, dei poliziotti o semplicemente dei metalmeccanici che prendono poco più di mille euro al mese.
I politici sono sempre stati poco valutati dall’opinione pubblica, ma i magistrati invece giustamente no.

Un tempo pensavo d’essere una voce isolata e perciò ero preoccupato d’essere, come spesso mi avviene, fuori del coro. Ora però che, pur con parole più compassate, ben oleate ed attente è d’accordo anche il Capo dello Stato, spero che anche la giustizia italiana riprenda quota!

Un edificante esempio di senso del dovere insegna a non preoccuparsi per niente

Stanotte, un po’ perché ho sempre avuto un sonno difficile un po’ perché credo di non aver ancora smaltito la grossa dose di anestesia che mi tenne addormentato per più di un giorno intero, mi sono girato e rigirato sul letto scompigliando coperte e lenzuola tra mille incubi.

A questi due motivi, che non dipendevano certamente dalla mia volontà, se ne aggiunse un terzo, che mi punzecchiò per l’intera nottata sia nel sonno che nel dormiveglia.

Ieri pomeriggio il tecnico del suono, chiamato per mettere a punto l’amplificazione sonora della chiesa del cimitero, per rendersi conto di come stessero le cose, smontò l’intera apparecchiatura, tanto che mi parve qualcosa di assomigliante alle casette di legno d’America scompigliate dall’uragano; un vero groviglio di fili, di spine e controspine.

Dovevamo chiudere e perciò il tecnico prima disse “tornerò domani” poi soggiunse, quasi preoccupato per non aver il tempo sufficiente per riordinare alla meglio l’apparato: “Spero che domani non abbia funerali!”, mentre ne avevo proprio uno e alle nove.

L’idea di dover parlare senza l’amplificazione sonora, senza musica di fondo in una circostanza pure difficile a causa delle idee del defunto e dei suoi congiunti mi mise veramente in una situazione di panico, tanto che diventò l’incubo notturno!

Questa mattina alle 7:30 il tecnico era sul “luogo del delitto” assieme ad un suo collaboratore. Alle 9 funzionava tutto e meglio di prima! Una volta ancora ho dovuto constatare quanto sia sciocco preoccuparsi e soffrire per un male solamente ipotetico. In queste situazioni, nel peggiore dei casi è certamente meglio soffrire o provare pena, nel momento in cui ti capita il malanno, ma non prima!

Mi chiedo: “Ma quando diverrò saggio, temo di non arrivare ad esserlo almeno nel tempo in cui sarebbe opportuno diventarlo!

Il funerale di un uomo che la chiesa non possedeva ma Dio sì

Ho ribadito spesso che nella mia chiesa tra i cipressi mi capita di celebrare i “funerali poveri”, quelli che riguardano vecchi ormai dimenticati nelle case di riposo, quelli di persone emarginate, quelli ai quali presenziano sì e no cinque o dieci persone.

Lo faccio molto volentieri perché sono convinto che anche questi poveri funerali sono la vera ricchezza della chiesa e talvolta mi sento come Draghi che amministra questo grande patrimonio della comunità cristiana.

Qualche giorno fa il figlio del caro estinto sentì il bisogno, su mia sollecitazione, di farmi uno schizzo essenziale della personalità del padre, ma mentre certi parenti smussano gli angoli e vanno alla difficile ricerca di qualche aspetto positivo, questo signore mi disse che il padre non solo non era praticante, ma quasi certamente non era neppure credente, e come rinforzo aggiunse che era stato molto critico con la chiesa. La moglie e pure i loro figli avevano deciso di chiedere il funerale religioso perché riscontravano nella condotta del padre delle contraddizioni che li portava a pensare che egli non fosse proprio ateo, ma un deluso dalla chiesa, una scontento del modo di vivere dei praticanti.

Forte della frase di Sant’Agostino, che per me è una bussola sicura che segna il nord “Ci sono uomini che la chiesa possiede e Dio non possiede ed altri che Dio possiede mentre la chiesa non possiede” ed avendo ben presente che il mio Dio non è certamente quello dei teologi, ma quello della parabola del prodigo, procedetti tranquillo ad affidarlo alla misericordia di Dio ed a rinnovare il sacrificio della croce in cui Cristo paga lui il debito e il biglietto d’ingresso nella casa del Padre!.

Mi è parso che i fedeli fossero d’accordo con me, perché pregarono a voce alta e molti s’accostarono pure all’Eucarestia, alla moglie poi venne perfino voglia di fare un versamento per il don Vecchi di Campalto!

Tornare alla sorgente

Molti anni fa ho letto il bellissimo libro di Ignazio Silone sulla vita e sulla rinuncia al pontificato di Celestino V°, “L’avventura di un povero cristiano”.

Ho l’impressione che il testo di Silone, cristiano senza chiesa e socialista senza partito, come amava definirsi, sia un po’ romanzato, comunque l’autore abruzzese fa delle affermazioni veramente significative e racconta episodi che fanno pensare su questo papa ch’ebbe “la velleità” di essere autentico cristiano, ossia vero discepolo di Gesù. Non so se il discorso e le affermazioni di questo letterato sulla vita ascetica di celestino V°, che fece il “gran rifiuto”, siano rispettose della storia, io sono propenso a crederlo, sapendo quanta fatica Francesco d’Assisi fece per ottenere dal pontefice l’approvazione della sua regola che si rifaceva al dettato letterale del Vangelo.
Umberto Eco nel suo grandioso romanzo “In nome della rosa” scive pagine su pagine sulle difficoltà che gli alti prelati della chiesa facevano ai gruppi di cristiani radicali che si rifacevano alla parola viva e diretta del Vangelo.

Tornando a Silone ricordo una frase che mi ha sempre aiutato e mi ha fatto molto del bene: “Altro è aprire il rubinetto e veder scorrere l’acqua, altro è andare alla sorgente e veder scaturire la polla d’acqua limpida e fresca iniziare il suo lungo cammino verso la valle”.

Pensando a questa immagine mi capita spesso di sentire il desiderio e il bisogno di andare al Vangelo, sorgente del pensiero di Cristo, perché là trovo la freschezza del messaggio, mentre la prassi, il libro, la mediazione culturale hanno impoverito e banalizzato il mistero della “buona notizia”!

Le onoreficenze dovrebbero andare a chi lavora senza clamori!

Le onoreficenze dovrebbero andare a chi lavora senza clamori!

In città vi sono alcune associazioni che han scelto di dare un riconoscimento pubblico ai cittadini, che secondo il parere dei responsabili dell’associazione, meritano questa attestazione di stima per il loro impegno civile e di solidarietà.

In città ci sono certamente innumerevoli cittadini che meriterebbero questo encomio e questo riconoscimento per il loro impegno e per i servizi che svolgono con umiltà ed in silenzio.

Ma appunto da questo operare umile e discreto di molti non sempre emerge l’esemplarità del loro impegno, tanto che solo il buon Dio, che vede tutto, li premierà un giorno.
Mentre poche persone, che per l’ambito in cui sono impegnate o per il loro modo di operare emergono presso l’opinione pubblica così che queste associazioni che desiderano metter in luce l’impegno sociale finiscono per avere poca scelta e, se si esclude qualche caso, finiscono a dare sempre agli stessi questi riconoscimenti.
Questo è il mio caso, l’adoperare i mass media per denunciare cose storte o per promuovere iniziative positive ha fatto sì che, nonostante la mia pochezza, sia diventato un personaggio di una certa notorietà a Mestre-Venezia.

Alcuni anni fa fui premiato dalla scuola grande di San Rocco con una medaglia d’oro veramente consistente. Ricordo d’aver regalato a mia volta suddetta medaglia alla dottoressa Lina Tavolin che per molti anni s’è addossata l’onere di portare fuori dalle secche “Il Germoglio”; Centro polifunzionale per l’infanzia della comunità di Carpenedo e di farne con il suo sacrificio e la sua competenza la migliore scuola d’infanzia della città. La signora Lina meritava certamente più di me questa grossa medaglia dell’antica confraternita veneziana, per il suo lavoro silenzioso, generoso e quanto mai positivo.

Mi è venuto in mente questo episodio qualche giorno fa quando suor Angela Salviato, l’angelo dei poveri di Mestre, silenziosa ed instancabile m’ha regalato la medaglia che lo scorso anno la scuola di San rocco le ha consegnato in giusto riconoscimento dei suoi meriti. Avrei certamente qualcuno a cui passarla in riconoscimento delle sue virtù, ma quasi certamente sarò costretto a venderla o a cederla al miglior offerente per pagare il Centro di Campalto!

24 ore sono troppo strette!

Ora, che ho ripreso la vita normale, non appena risvegliato dal sonno irrequieto della notte, mi capita di enumerare, come in una rapidissima videata, gli impegni della giornata e mi nasce immediata la preoccupazione di non riuscire a farceli stare tutti dentro nelle ore a disposizione.

In questa stagione della vita la giornata lavorativa s’è fatta più breve.
Spesso mi viene da confrontare il mio vivere quotidiano alla regola di S. Benedetto: otto ore per la preghiera, otto ore per il riposo ed otto ore per il lavoro.

Io, confesso, pur essendo un ammiratore entusiasta del monaco di Norcia, non riesco, come vorrei, ad inquadrare la mia vita nello schema limpido e lineare di S. Benedetto. Le mie giornate, pur seguendo un programma che mi prefisso, trasbordano e si mischiano, motivo per cui non sempre riesco a vivere nel giusto equilibrio.

Certamente qualcosa dipende da me, ma in gran parte sono pure gli altri a costringermi a rompere i pur ritenuti giusti equilibri.

Io non so come riuscissero a programmare il tempo i monaci dei cenobi benedettini e soprattutto come riescono a farli oggi i “relitti” di questo ordine religioso!

Sia che stia pensando alla mia anima, sia che sia dedito al mio “lavoro” il campanello della porta, telefono e telefonino continuano ad interrompermi.

Da un lato vorrei essere disponibile a chi bussa alla porta della mia vita e dall’altro lato le chiamate mi impediscono di portare avanti i miei impegni con la necessaria calma e serenità.

Ora poi che non riesco più a disporre, a motivo dell’usura dell’età, del dopo cena, vivo con sempre maggior preoccupazione di non far star dentro in un tempo inferiore delle 24 ore, sulle quali S. Benedetto aveva calcolato la sua regola di vita, quanto ritengo dovrei riuscire a fare. D’altronde penso che la gran parte dei miei concittadini si trovino nelle medesime condizioni e perciò scelgo di condividere la loro sorte.

Parrocchie che abbandonano i parrocchiani!

Mi verrebbe da dire “Parrocchia, se ci sei batti un colpo”.

Nel breve Vangelo di San Giovanni la domenica 5° dopo Pasqua Cristo afferma “Vi do un comandamento nuovo. Che vi amiate gli uni e gli altri come Io ho amato voi. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”.

Qui c’è poco da chiosare da interpretare! Ogni esegesi che non ribadisce che la solidarietà è l’elemento essenziale e qualificante per un cristiano, è discorso fuorviante che tradisce il pensiero di Cristo. Punto e basta!

In questa settimana ho ricevuto una lettera triste ed amara quanto mai, già la grafia ne era un segno della desolazione di una famiglia della media borghesia colpita gravemente dalla malattia; marito, moglie una figliola sui quali, per motivi diversi, sembra che la sorte si sia accanita nei loro confronti.

Creature credenti e praticanti, sempre vicini alla parrocchia, ma la parrocchia non riesce più ad essere accanto a loro e partecipe del loro dramma umano.

Nella lettera ho avvertito quasi la supplica di una telefonata, per sentire la presenza e il conforto di qualcuno che partecipi ad un dramma che sembra superiore alle loro forze.

Un anno fa un signore, da cui sono andato, su sua richiesta, a dare una benedizione alla famiglia, mi diceva con estrema amarezza: “Vede, don Armando, in questa strada negli ultimi 25 anni sono nati dei bambini, sono morti dei vecchi, si sono sposati dei giovani, queste famiglie hanno vissuto i loro drammi senza che un prete vi abbia messo piede, lei è il primo prete che entra in questa strada in questo ultimo quarto di secolo. Se questa è la parrocchia attuale, credo che sia proprio il caso di dirle: “chiudi bottega!” La crisi del sacro è determinata dal fatto che si è dato vita ad una struttura “ecclesiastica” che in realtà ormai non ha più nulla a che fare con l’insegnamento del divino maestro! Credo che sia giusto che Gesù le tolga anche il suo “patrocinio”.

Una lettera che spero aiuti a darci una mano e a crescere in umanità

Ieri ho raccontato a questo “diario” che è diventato il confidente dei miei pensieri, delle cose che mi capitano ogni giorno e delle miei reazioni; la vicenda del furto della carrozzella che avevamo offerto ad una cara persona che sta diventando progressivamente disabile.

Il “diario” poi sommessamente, in maniera discreta, racconta a sua volta, a chi gli interessa, ciò che questo vecchio prete confida al “diario”.

Non tutto e non sempre riesco ad inserire nelle pagine bianche quello che mi passa nella mente e nel cuore. Mi sono accorto che finisco per confidare più spesso reazioni amare, precisazioni angolose e prese di posizione aspre, anche se convinte.

Nella mia vita di vecchio prete, però sono anche molte le gioie, i momenti di soddisfazione che mi ripagano di tante battaglie aspre e talvolta perdute. Qualche giorno fa ho ricevuto dalla signora della carrozzella questa lettera che trascrivo; non spero che converta i ladri ma spero che invece ci aiuti a darci una mano e a crescere in umanità.

Mestre 22.04.2010
Questo è un mondo di lupi.
Non voglio più vivere in questo mondo di lupi.
Caro don Armando, non so che m’è preso l’altro giorno quando le ho telefonato per comunicarle il furto della carrozzina, una delle vostre presa a prestito. O meglio, lo so. Ero in preda ad una collera tremenda, quella che mi faceva pensare: se li prendo li strapazzo (gli ignoti ladri).
Io stessa in quel momento ero lupo, me ne sono resa conto poi.
Lei è stato proprio gentile e largo di manica, mi ha riportato alla ragione.
Da un po’ di tempo mi sono accorta che quando ho più bisogno di pensieri positivi, mi arrivano, una conversazione, un libro (giusto al momento giusto). Ieri sono entrata nella chiesa dell’ospedale e ho preso L’incontro e il Coraggio. A casa ho trovato l’autobiografia di don Andrea Gallo (fuori catalogo, richiesto e ricevuto. Non ci speravo)
Ho letto il suo diario don Armando, forte forse più di sempre tanto che persino la carta su cui è stampato scricchiola di più. Schietto e sincero. Riconosce che non era un lupo vicino a lui ma non lo ha guardato con malanimo.
Poi ho letto il libro di don Gallo, ha a che fare con lupi, di altro genere magari, e nemmeno lui vuole strapazzarli.
Per grazia di Dio, c’è lei, c’è don Andrea c’era don Mazzolari.
Vi voglio bene (a lei di più)
Lettera firmata.

L’aiuto reciproco deve diventare un codice di comportamento scontato!

Nel tardo pomeriggio mi ha raggiunto una telefonata, a dir poco sdegnata.

Una signora, neanche troppo anziana, non riesce più a deambulare, un po’ perché eccessivamente obesa a causa di qualche disfunzione ed un po’ perchè un progressivo indebolimento delle gambe non le permette d’essere totalmente autonoma. Assidua lettrice de “L’incontro”, sapeva che tra tante altre iniziative al don Vecchi, raccogliamo e distribuiamo supporti per le infermità. A dire il vero questo nostro magazzino non è sempre gran che fornito, perché quando abbiamo dato una carrozzella per infermi ad un moldavo o ad una ucraina, l’attrezzo non ritorna più da noi per essere riutilizzato. Chi ne ha bisogno, dato che nel lontano paese ha un congiunto che ne ha bisogno e l’organizzazione sanitaria e le risorse economiche non gli consentono di avere l’attrezzo.

Comunque avevamo avuto la possibilità di offrire la carrozzella a suddetta signora, senonché durante la notte gliela hanno rubata nonostante fosse posizionata sul pianerottolo del primo piano.

Da questo furto “macabro e sacrilego” nasceva l’indignazione di chi m’aveva chiamato al telefono. Io condivisi l’indignazione, ma le dissi che ne avremmo messa a disposizione un’altra, non siamo infatti né una bottega né una banca, ma la nostra attività poggia sul concetto del servizio e della solidarietà.

Mi parve rasserenata e poi mi scrisse una bella lettera di ringraziamento, facendomi delle lodi che non merito.
Dovrebbe a mio modesto parere essere finito il tempo, per cui si dia per scontata la prassi della solidarietà e non si ritenga più un merito di chi la pone in atto.

L’aiuto reciproco deve diventare un codice scontato di comportamento, anche se purtroppo siamo ancora lontani da questa meta che dovrebbe essere ovvia per noi cristiani!