Su questo argomento la penso assolutamente come don Roberto

Un paio di settimane fa un giornalista della “Nuova Venezia”, che dimostra di leggere con attenzione e profitto “Proposta” – il periodico della parrocchia di Chirignago dove è parroco mio fratello don Roberto – e L’Incontro – il periodico dei Centri Don Vecchi – ha notato una qualche divergenza fra me e mio fratello circa l’assistenza ai poveri e, sfruttando questa dialettica tra i due fratelli preti, ha tratto un pezzo per il suo giornale.

Assolutamente niente di grave anzi un confronto che non può che risultare positivo. A questo riguardo tantissime volte ho scritto che io ammiro, anzi sono entusiasta della prosa di don Roberto, prosa che riconosco immediata, scorrevole ed incisiva mentre sono meno contento del mio modo di scrivere che sta diventando sempre più prolisso ed aggrovigliato. La prova della mia ammirazione per lo stile degli scritti di don Roberto sono gli articoli che spesso ritaglio dal periodico di Chirignago per riportarli su L’Incontro perché ritengo opportuno fare da cassa di risonanza coinvolgendo i nostri lettori che ormai hanno raggiunto un numero veramente considerevole.

Coerente con questo discorso, avendo appena letto un corsivo sulla famiglia concepita cristianamente e sulla “zizzania” che “l’uomo nemico” semina di soppiatto, credo opportuno pubblicare il pezzo di “Proposta” affermando che condivido totalmente il discorso in tutti i suoi passaggi anzi ne sottolineo con decisione e convinzione la tesi di fondo. Eccovi quindi l’articolo di don Roberto.

NON RINUNCEREMO
In questi giorni, a Roma, si è svolta una manifestazione per ribadire i valori della famiglia naturale come viene proposta dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione e dalla fede cattolica, e che ci viene continuamente ricordata da Papa Francesco.
A questo modello di famiglia non rinunceremo, e continueremo a chiamare le cose con il loro nome. Non parleremo di genitore uno e di genitore due, ma diremo Papà e Mamma, come da sempre si è fatto. E sia dall’altare che, nelle aule di catechismo riproporremo ciò che riteniamo sia giusto a prescindere da quello che si dirà attorno a noi. Come per tantissimi altri valori è inevitabile che a difenderli e a riproporli sia la Chiesa. E se per far questo dovrà subire minacce o persecuzioni, vorrà dire che anche a noi sarà chiesto e dato di soffrire qualcosa per la verità. Quanti nostri fratelli in tante parti del mondo arrischiano continuamente la vita per non abbandonare la fede. E perché noi dovremmo essere esentati da questa fatica? Ma non subiremo passivamente: occorre contestare questo modo di far politica insinuando veleni i cui risultati scopriremo (come avviene per l’inquinamento) quando sarà quasi impossibile rimediare. Faccio una proposta ai nostri vescovi: più nessun zucchetto viola o rosso alle tante manifestazioni, inaugurazioni, concerti ecc. Sarà poco, ma sarà un segno. E non è detto che il poco sia inutile. La bocciatura del dottor Casson è dovuta a molti motivi, ma più di qualcuno, che non conta niente, nell’esprimere il voto s’è ricordato di come la pensa a proposito di queste cose. E ne ha tenuto, giustamente, conto.

don Roberto Trevisiol

La lezione di Mastroianni

La settimana scorsa ho confidato a voi amici che ho rivisto ancora una volta, non solo volentieri e con piacere, il film “Don Camillo” ma che mi hanno anche fatto bene spiritualmente i dialoghi confidenziali tra quel parroco particolare e il Cristo partecipe delle vicende del suo discepolo e ministro.

I preti oggi predicano molto però, a causa dei loro impegni pastorali, hanno poche occasioni, di ascoltare le prediche altrui anche se ne avrebbero molto bisogno. Nostro Signore, ben consapevole di tutto questo, pare abbia usato uno strumento singolare, quale è il film di Peppone e Don Camillo, per farmi comprendere che il prete deve avere un dialogo costante e vero con il suo Maestro, dialogo che dovrebbe avvenire durante la preghiera ufficiale che però, in realtà, spesso genera l’effetto di un anestetico.

Tempo fa ho detto che il buon Dio adopera la mano “sinistra” con la stessa destrezza ed efficacia con cui adopera la “destra”, ossia fuori dalla metafora spesso ci parla, ci consiglia e ci ammonisce non solamente dal confessionale, dal pulpito e dall’altare ma anche attraverso alcuni film come quello trasmesso qualche sera fa da “Rai Storia” il cui protagonista era Mastroianni.

Molte volte ho ribadito che provo un’assoluta allergia nei riguardi della produzione televisiva attuale, mi annoiano, mi infastidiscono e mi schifano certe pellicole dolciastre così come quelle violente in cui non avverto poesia, autenticità e problematiche vere affrontate da attori capaci. Un paio di giorni fa ho capito, fin dalle prime inquadrature, che il film nel quale mi ero imbattuto valeva la pena di essere visto. Le immagini ricche di poesia, la bravura autentica di Mastroianni come attore protagonista e il tema trattato mi hanno convinto che meritassero l’impegno di un’ora abbondante del mio dopo cena.

Nel film Mastroianni, che interpreta il ruolo di un giornalista colto interessato alla letteratura, incontra un giovane di talento legato sentimentalmente ad una ragazza impegnata politicamente contro la dittatura di Salazar in Portogallo. Il giornalista si lascia coinvolgere così profondamente da questo problema sociale da pagare la sua partecipazione con l’intervento della polizia segreta che però non riesce ad impedirgli di far pubblicare un “pezzo” forte contro il regime. Il film trasmette un messaggio pregnante: nessuno può appartarsi e non partecipare ai problemi sociali del proprio Paese. Quando è apparsa sullo schermo la fatidica parola “fine” mi sono augurato che moltissimi concittadini avessero visto questa pellicola.

Povero Papa!

La popolarità, per il modo di offrirsi del nostro Sommo Pontefice e per la sua linea pastorale, è veramente alle stelle; non passa settimana senza che Piazza San Pietro si riempia come un uovo e i mass-media facciano a gara nell’informare sulle iniziative evangeliche di Papa Francesco.

Anch’io seguo con ammirazione, orgoglio ed affetto filiale le parole e le scelte di Papa Francesco; talvolta mi preoccupo per la sua incolumità perché il nostro mondo pare sempre più pieno di esaltati e di fanatici, tal’altra mi preoccupo per la tenuta della sua salute, sia per i precedenti, sia per la sua età e sia per il suo donarsi da mane a sera senza risparmiarsi. Talvolta mi addolora che certe frange bigotte e oltranziste manifestino riserve, che anche se non definirei eclatanti comunque si fanno sentire; che molti cristiani pur plaudendolo ed osannandolo in realtà continuino a vivere la loro fede alla vecchia maniera, paghi di qualche pratica di pietà e di qualche rito, senza seguire però l’esempio del nostro Papa che persegue un cristianesimo da Vangelo.

Tutto sommato mi pare che molti cristiani, preti e vescovi preferiscano il solito trantran piuttosto che imbarcarsi nel tentativo faticoso di diventare il “rifugio” dei poveri, degli ultimi, dei disperati e degli emarginati. Ora poi, specie in queste due ultime settimane, mi crea una certa angoscia il sapere che Papa Francesco ha sul suo tavolo due “brutte gatte da pelare”, non solo perché di difficile soluzione ma anche perché qualunque sarà la scelta che egli farà si ritroverà con mezza Chiesa scontenta e probabilmente anche contro.

Mi riferisco alle apparizioni di Medjugorje e ai problemi relativi alla famiglia. La Chiesa ormai non può più evitare di prendere posizione ma qualsiasi scelta faccia temo che non sarà compresa né dal mondo tradizionalista, ingessato nella tradizione, né da quello che preme per camminare al passo con i tempi, che chiede risposte vere e non solo formali.

Qualunque passo in avanti il Papa farà di certo non basterà né all’una né all’altra parte. Ricordo che un bravissimo giornalista cristiano intitolò la sua biografia di Paolo VI: “Le chiavi pesanti”. Paolo VI dovette veramente portare sulle spalle le chiavi pesanti di San Pietro ma quelle ora appaiono leggerissime se confrontate con quelle che oggi Papa Francesco deve sobbarcarsi di portare.

La guerra, un’infamia tragica e vergognosa

Mentre nel passato consideravo il tempo del dopo cena come la terza parte della mia giornata lavorativa ora, finita la parca cena che consumo con suor Teresa, che giustamente mi vuole tenere a dieta, mi metto davanti al televisore, pigio svogliatamente i tasti del telecomando ma ben presto inizio a sonnecchiare e poi mi addormento sognando pressappoco quello che il programma mi propone. Tante volte ho tentato di suddividere la giornata come saggiamente prescriveva ai suoi monaci san Benedetto da Norcia: otto ore per lo spirito, otto per il lavoro e otto per il riposo, non sempre però ci sono riuscito e adesso i miei orari sono proprio sballati ma non posso fare altro che sperare che lo siano prevalentemente per l’età e non per il disordine e per la pigrizia.

Tornando poi alla televisione del dopo cena, che io mi illudo di considerare ricreazione, finisco quasi sempre per sintonizzarmi sul canale 54, il canale di Rai Storia: non è il canale che prediligo ma solamente quello che mi dà meno fastidio e che rifiuto di meno. Il guaio è che a causa del centenario della Prima Guerra Mondiale anche Rai Storia ci propina la guerra in tutte le salse.

Antimilitarista quale sono, dopo la breve stagione in cui sono stato balilla, con il passare degli anni sono diventato sempre più nemico giurato della retorica patriottarda, delle divise, delle medaglie, dell’esercito, delle armi e di ogni esaltazione della violenza. Per me chi impugna le armi, ma soprattutto chi le fa impugnare, è solamente un assassino ed un omicida senza alcuna attenuante di sorta. Mi fa rivoltare lo stomaco e mi avvilisce chi vuole avere ragione non con argomentazioni dialettiche ma ricorrendo alla forza. Non resisto più a vedere gente che si “spara addosso” senza conoscersi e senza avere alcun motivo personale per farlo. La celebrazione del centenario di uno degli eventi più nefasti dell’inizio del secolo scorso mi toglie serenità e soprattutto fiducia in chi conduce l’umanità ad eventi tanto tragici.

“Il mio Gesù”

L’altra sera stavo sonnecchiando davanti al televisore quando mi è giunta una telefonata da Luciana Mazzer, la “pungente” collaboratrice de “L’incontro”, la quale si è scusata perché temeva che anch’io stessi vedendo “Don Camillo”. Per questo motivo la telefonata è stata brevissima e per lo stesso motivo ho immediatamente sintonizzato il televisore sul canale che stava trasmettendo “Don Camillo”. Il film di Don Camillo “esiliato”, l’avevo visto parecchie altre volte, ma l’ho rivisto volentieri una volta ancora considerando che la nostra televisione è diventata una “discarica” e difficilmente manda in onda programmi interessanti e educativi.

L’ulteriore visione del film mi impone di spedire in cielo una e-mail di ringraziamento a Giovannino Guareschi, il “genitore” di Don Camillo, di Peppone e delle storie della bassa. Questa volta ho sentito il bisogno di ringraziare il baffuto autore dei racconti che trattano delle vicende politiche e comportamentali dell’Italia dell’immediato dopoguerra, soprattutto per il particolare rapporto del nerboruto prete di Brescello con il Cristo della sua chiesa.

Io devo molta riconoscenza a Don Camillo per i colloqui con il “suo Gesù”. Porto nel cuore le battute furbastre del parroco anticomunista e le osservazioni pacate, bonarie, affettuose e calde del suo Cristo che, ogni volta, lo riportava sui giusti binari della vita. Don Camillo in verità mi ha aiutato a scoprire e a dialogare con il “mio Gesù” della chiesa di Carpenedo. Il mio Gesù, a differenza di quello di don Camillo, veste panni gotici, io, per amor di patria, l’ho fatto risalire al milleduecento e alla bottega di Paolo Veneziano consapevole di commettere un falso storico. Il mio Cristo è stato con me sempre più preciso, meno accomodante e più fedele al suo Vangelo, confesso però che mi ha sempre voluto bene, mi ha confortato e spronato affinché non mi scoraggiassi ed io ho ricambiato, a modo mio, questi sentimenti di tutto cuore. Quando sono “andato in esilio”, come don Camillo, l’ho portato con me perché continuasse ad aiutarmi.

Ho parlato parecchie volte con la mia gente di questo rapporto con il Cristo ed ho scoperto che anche una vecchia maestra in pensione veniva, quando la chiesa era deserta, per non fare anticamera e per parlare con Cristo quando Egli non era impegnato a rispondere ad una moltitudine di fedeli.

Al sindaco Brugnaro

Brugnaro, prima che si offrisse per fare il sindaco di Venezia, non sapevo neppure chi fosse, non conoscevo di lui altro se non il tentativo di comperare l’isola di Poveglia. L’avevo ammirato per questa sua intenzione perché avrebbe finalmente liberato l’isoletta dalle pantegane, dalla gramigna e dal degrado a cui invece la vorrebbe destinare il comitato dei veneziani che non si sono ancora accorti che la Serenissima è morta da più di tre secoli.

Ho incontrato Brugnaro al Don Vecchi un mese prima delle elezioni. Nell’incontro privato che ho avuto con lui gli ho chiesto solamente di sviluppare il dialogo con il “privato sociale”, la realtà più libera, più coraggiosa, più generosa, più intraprendete e disinteressata che esista nella nostra città. Il venerdì antecedente le elezioni gli ho scritto una lettera personale per ringraziarlo di aver offerto alcuni anni della sua vita alla collettività confermandogli che se anche non fosse stato eletto gli sarei stato comunque riconoscente perché questa sua offerta rappresentava già una bella testimonianza di altruismo e di amore per la propria città.

In precedenza avevo scritto su “L’incontro” che sognavo che il Patriarca, accompagnato dal clero e dal popolo, chiedesse ad un imprenditore di fare questa offerta a Venezia. Il Signore mi ha esaudito anche se il Patriarca, a cui non avevo fatto conoscere il mio sogno, non ha fatto questa solenne e pubblica richiesta.

Il lunedì dopo le elezioni ho scritto una seconda lettera personale a Luigi Brugnaro appena eletto manifestandogli la mia ammirazione e la mia gratitudine ma dicendogli, in maniera franca, che avevo votato per lui e non per il centro destra o peggio ancora per Brunetta, Berlusconi, Salvini e compagnia cantante. Ho concluso la lettera chiedendogli che qualora riscontrasse di non riuscire a mantenersi libero dalla tutela di quei soggetti preferirei mille volte che se ne tornasse a casa piuttosto che subire l’influenza di questi cattivi compagni.

Quando per la prima volta ho votato per il PD, tra i cui antenati ci furono Pajetta, Berlinguer, Ingrao e Napolitano, ho inviato un messaggio a mio padre, morto da vent’anni, democristiano purosangue: “Papà sappi che ho votato Renzi, lo scout di Firenze, ma non mi sono macchiato l’anima e non ti ho tradito con quelli di Botteghe Oscure”.

Finalmente ho capito!

San Paolo è certamente uno dei testimoni più coerenti dell’adesione al progetto e alle proposte offerte da Gesù ai suoi discepoli. Ammiro San Paolo, perché dopo essere stato “folgorato” sulla strada di Damasco, seguì Cristo con un coraggio, una coerenza ed una dedizione illimitati ed assoluti. Oltretutto proprio questa mattina ho letto una volta ancora la lunghissima litania di prove e di sofferenze che egli afferma di aver subito a causa della sua fede e l’orgoglio con il quale testimonia il prezzo pagato per rimanere coerente alla sua scelta di seguire con i fatti il Maestro e Salvatore che ha incontrato.

Ammiro San Paolo anche per la lucidità e la coerenza con le quali motiva la sua scelta cristiana. L’ammirazione per le affermazioni con le quali san Paolo motiva la sua fede si aggiunge al fatto che proprio questa mattina mi pare di aver compreso l’elemento portante della sua fede e della sua predicazione. Mi spiace di essere approdato tanto tardi a questa scoperta, sono comunque contento d’averla fatta. San Paolo, rivolgendosi ad una comunità cristiana di una città di cui non ricordo il nome, dice in maniera scarna ma assolutamente chiara: “Io non ho altro da annunciarvi e da donarvi se non Gesù Cristo e Cristo crocefisso”. Stop! Una predica, una confessione breve ma essenziale: Cristo, con la sua vita, la sua umanità e il suo messaggio è la ricchezza vera ed incomparabile del cristiano ed è la realtà più bella e risolutiva che io possa offrire ai miei concittadini.

Questa mattina, rivolgendomi alla piccola folla venuta nella mia chiesa per dare l’ultimo saluto ad un loro caro scomparso, ho detto come san Paolo “Io non posso farvi un dono più grande, non posso offrirvi altro in questo momento così buio e amaro della vostra vita se non Cristo, il Cristo che ha patito ed è morto per noi, assolutamente convinto che chi accetta Gesù possiede il miglior sostegno per affrontare tutti i problemi della vita e accettare l’ineluttabilità della morte”.

Un consiglio a Papa Francesco

Il Santo Padre non mi ha ancora concesso il titolo di Monsignore e non mi ha nemmeno nominato suo consigliere per i problemi dell’Italia. Io però, senza nomina e senza stipendio, ho tentato di fargli pervenire qualche suggerimento conoscendo, forse meglio di lui, la mentalità e i comportamenti degli italiani. Faccio questa breve premessa perché sento il bisogno e il dovere di ritornare sulle insinuazioni volgari, irrispettose meschine del segretario della Lega e aspirante leader della destra del nostro Paese.

Il Papa giustamente ci ha ricordato che non possiamo “voltarci dall’altra parte”, che buttare a mare povera gente che tenta di fuggire tra mille pericoli da Paesi dominati dagli stenti e dalla guerra è peccato! “E che cosa avrebbe dovuto dire il Papa di diverso, signor Salvini?”. Non ti hanno insegnato che il Papa rappresenta quel Gesù che ha affermato in maniera perentoria: “Ama il prossimo tuo come te stesso”? Massima di cui benefici anche tu perché in caso contrario ti dovrebbero incriminare e rinchiudere in galera per la tua volgarità e il tuo pescare nel torbido. Il Papa poi ha anche invitato frati, monache, diocesi e quant’altri a mettere a disposizione dei profughi: seminari, conventi, monasteri, abbazie ormai vuote.

Purtroppo il Papa, anche per i preti, i frati e le monache è “il dolce Cristo in terra” finché parla degli Angeli e del Paradiso, però quando scende nel concreto e tocca i lori interessi neanche i suoi “figli” lo ascoltano più di tanto. Accettano volentieri i profughi solamente le cooperative rosse o bianche perché questi disperati costituiscono un business e purtroppo anche le organizzazioni cattoliche prestano il fianco a Salvini.

Qualche settimana fa mi sono azzardato a suggerire alle decine di migliaia di parrocchie d’Italia di mettere a disposizione almeno un appartamentino per ospitare la famiglia di un profugo aiutandola così ad integrarsi più facilmente nel nostro tessuto sociale togliendo a Salvini il facile e demagogico pretesto di far leva sull’egoismo dei benpensanti per trarne vantaggi di ordine politico. Ora mi permetto di suggerire rispettosamente al Papa: “Dia quest’ordine!” affinché poi i cristiani testimonino finalmente con i fatti la loro fede.

L’ultimo tribuno

In questi giorni in cui le esternazioni di Salvini, il nuovo tribuno della Lega, hanno destato sorpresa, indignazione e ribrezzo tra credenti e non credenti, cattolici e laici, mi è tornata alla mente una battuta ascoltata molti anni fa.

Due vecchi amici d’infanzia si sono ritrovati dopo molto tempo e ciascuno pone all’altro domande, proprie di chi non si incontra da tanti anni. Il primo chiede al secondo: “Cosa stai facendo di bello?” e questi risponde che si occupa di circhi equestri, al che l’altro si sente in dovere di chiedere: “Come mai ti occupi di una attività che è in assoluto declino e piace solo a persone dai gusti grossolani e senza interessi culturali?”. Il secondo allora risponde: “Tu quale pensi sia la percentuale di cittadini intelligenti, dai gusti raffinati, che amano crescere culturalmente e cercare risposte ai grandi e difficili interrogativi della vita?”. Questi in maniera assennata gli risponde: “Suppongo sia il venti, trenta per cento!”. Di rimando l’altro ribatte: “Allora io mi rivolgo all’altro settanta, ottanta per cento di poveracci”.

Salvini, che di scrupoli, di preoccupazioni morali e civili pare ne abbia abbastanza poche, credo stia anche lui rivolgendosi da furbastro, disinvolto e interessato solamente al risultato immediato, a quella parte del Paese egoista, poco preoccupata dei valori, facilmente vulnerabile per mancanza di sensibilità civica e morale ottenendo così una consistente risposta a livello elettorale. Vorrei però ricordare ai miei concittadini che i maestri di Salvini: Mussolini, Stalin, Hitler, Franco, Ceausescu e compagnia hanno ottenuto adesioni ben più consistenti di quelle di Salvini stesso ma tutti sappiamo con quali risultati! A Salvini ricordo poi l’ammonimento popolare tutt’ora assai valido: “Scherza con i fanti e lascia stare i santi” se vuoi avere una vita lunga e benedetta.

La mia rosa blu

Chi legge frequentemente L’Incontro è certamente a conoscenza che, su richiesta della dottoressa Federica Causin, ho scritto la prefazione del suo ultimo volume. Dopo averci pensato un po’ ho ritenuto di rifarmi ad una bellissima poesia di Gerda Klein, poesia che io ricordo assai sommariamente dal titolo “La rosa blu”, titolo che una delle più vecchie cooperative di disabili di Mestre ha adottato come nome fin alla sua nascita.

L’autrice di questo volume è una mia coinquilina del Centro Don Vecchi 2, abita nella mia stessa “strada”, collabora con “L’incontro” e gode di tutta la mia stima e del mio profondo affetto. La dottoressa Causin, disabile dalla nascita, si è laureata in lingue a Ca’ Foscari, lavora presso un’azienda di Marcon e vive un’intensa vita sociale portando avanti con intelligenza e decisione le problematiche che sono proprie di queste persone che, soffrendo di menomazioni di carattere fisico, cercano pian piano di inserirsi nel tessuto sociale rivendicando i loro diritti e offrendo generosamente il loro prezioso contributo.

Ho scelto come titolo della prefazione “La mia rosa blu” perché la conoscenza e il rapporto quotidiano con questa giovane donna mi ha reso ancora più cosciente che queste creature non devono assolutamente essere considerate come nel passato uno “scarto” della nostra società ma perle preziose che ci aiutano a guardare con occhi nuovi tutte le manifestazioni di vita che incontriamo ogni giorno. Probabilmente, a causa di questa prefazione, la signora Raffaella Marini Franchin, che da una vita si batte con un coraggio ed una generosità infinita per questa nobile causa, mi ha inviato il testo originale della poesia che è davvero splendido. Neanche poi a farlo apposta in un periodico dei padri del don Orione mi è capitato di trovare la fotografia di una giovane suora che con un sorriso, una bellezza ed una tenerezza soave tiene in braccio un bimbo Down e subito mi è venuto da pensare che se la disabilità non servisse ad altro che a suscitare un amore così intenso, dolce e luminoso avrebbe già donato alla società qualcosa di veramente bello ed incomparabilmente prezioso.

Tutto si paga

Moltissimi anni fa lessi un romanzo ambientato ai tempi della rivoluzione francese, era un romanzo a tesi che voleva dimostrare che, a chi si macchia di gravi cattiverie, prima o poi la Provvidenza presenta il conto per la sua meschinità. Confesso che la lettura di questo volume, tanto semplice da sembrare perfino ingenuo, mi ha fatto bene e mi ha conficcato una spina nel cuore che si fa sentire ogni qualvolta sono tentato di fare qualcosa di non troppo nobile. Il titolo di questo romanzo però è significativo anche da un altro punto di vista perché afferma che ogni gratificazione ha anche essa un suo costo che prima o poi devi pagare e tanto più è consistente il beneficio tanto più alto è il prezzo.

In tempi ormai lontani chiesi a Monsignor Vecchi di poter acquistare una veste liturgica bella ma che costasse poco. Monsignore, con il tono sapienziale che talvolta usava con me quando voleva trasmettermi una lezione di vita, mi rispose: “Ricordati Armando che tutto quello che è bello, vero, onesto, nobile costa sempre caro e tanto più è valido tanto maggiore è il prezzo!”. Qualche giorno fa ho confidato agli amici de “L’incontro” che in città mi sento benvoluto perché spesso fortunatamente ricevo attestazioni di stima e di affetto soprattutto per le mie “imprese solidali”, per la mia franchezza e per la libertà con cui esprimo le mie opinioni: tutto questo mi fa molto bene.

Sento però il bisogno di confidare ai miei amici e ai miei generosi estimatori: “Sappiate che le mie imprese, il mio stile di vita, le mie scelte mi sono costate sempre care e talvolta molto care!”. L’aver scelto come motto quello che caratterizzò la vita di don Primo Mazzolari, che io ritengo uno dei migliori maestri di vita: “Libero e fedele”, mi è costato molto e sia i miei confratelli che i miei colleghi e talvolta i miei avversari, mi hanno fatto pagare un prezzo, dal mio punto di vista, esageratamente elevato!

Don Chisciotte

Normalmente quando qualcuno persegue obiettivi difficili o umanamente impossibili nel gergo corrente viene definito un Don Chisciotte. Quasi sempre si utilizza questo termine con una accentuata ironia e con un atteggiamento di commiserazione come se si trattasse di un personaggio fuori dal mondo, con la testa tra le nuvole e privo di un sano realismo. Io però sono convinto che in realtà questo comportamento spesso sia un comodo modo per auto assolversi, per giustificare la propria pigrizia o la propria ignavia. Con questo metro di giudizio tutti i profeti, tutti i testimoni, tutti martiri che hanno impegnato e impegnano la propria vita inseguendo qualche alto ideale e tutti gli uomini che perseguono le più alte e le più nobili utopie dovrebbero essere definiti come dei poveri Don Chisciotte.

Ho già accennato che qualche giorno fa mi sono lasciato vincere da un senso di nostalgia e di amarcord andando a scartabellare nell’armadio in cui ho raccolto gli scritti che documentano tutta la mia attività pastorale del passato recente e lontano. Ho curiosato in particolare in due raccolte: “Radio Carpini attualità” nei cui volumi sono raccolti i programmi di Radio Carpini, l’emittente che ha impegnato me ed un esercito di duecento volontari per una ventina d’anni. La seconda raccolta, molto più corposa, è quella relativa al mensile Carpinetum che ha tenuto aperto un dialogo con tutte le famiglie della comunità in cui per trentacinque anni sono stato parroco. Qualcuno probabilmente mi definirà un Don Chisciotte per il mio modo di proporre il messaggio cristiano ma sfido chiunque a trovare mezzi più idonei.

Premesso che il numero di concittadini che vengono in chiesa ad ascoltare i sermoni di noi preti non supera mai il dieci-quindici per cento della popolazione, come pensano i miei colleghi di raggiungere l’altro ottantacinque-novanta per cento? Radio Carpini è stata un’impresa che avrebbe avuto bisogno del coinvolgimento dell’intera diocesi, essa è fallita perché pur potendo contare sulla collaborazione di molti volontari ha incontrato l’indifferenza pressoché assoluta di tutta la realtà ecclesiale mentre la rivista, che mensilmente entrava in ogni famiglia, è morta quando ho lasciato la parrocchia.

Sto ancora domandandomi se sono stato davvero un Don Chisciotte o se invece non ho semplicemente tentato una soluzione difficile, però forse l’unica percorribile, per raggiungere con la proposta cristiana ogni persona. Spero sempre di scoprire all’orizzonte soluzioni alternative migliori ma da una dozzina di anni non ne ho avuto neanche il più piccolo riscontro.

Le decisioni di don Roberto

Don Roberto, parroco di Chirignago e mio fratello; ha vent’anni meno di me, però ho notato, leggendo il suo settimanale, che ha iniziato un po’ troppo presto il vezzo di considerarsi anziano. La gente non lo perdona neppure a me questo vezzo, figurarsi se lo concede a lui che ha ancora davanti a sé almeno un quarto di secolo di vita in parrocchia.

Nell’ultimo numero di “Proposta”, il periodico della sua comunità, scrive che hanno chiuso l’anno pastorale e che ora sta apprestandosi a mettere in atto la pastorale estiva. Ho letto con piacere che ha mantenuto invariato l’orario delle quattro celebrazioni domenicali nonostante sia azzoppato in quanto come aiuto ha soltanto don Andrea a mezzo servizio perché inspiegabilmente i superiori lo hanno incaricato di dedicare il resto del suo tempo alla curia.

Anch’io nella mia vita di parroco mi sono sempre dovuto arrabattare celebrando oltretutto un numero quasi doppio di messe festive. Ora però leggo sui bollettini parrocchiali della nostra città che il numero delle messe viene ridotto non solo durate l’estate ma, anche d’inverno; in più di una parrocchia alla domenica se ne celebra una soltanto. Mi viene da pensare che alcuni preti attualmente siano tentati di rifarsi più ai diritti sindacali o all’opinione pubblica corrente che all’esempio di Cristo.

Un’anziana signora, che segue le nostre iniziative, mi ha quasi rimproverato perché sono molto critico con le vacanze dei preti: cosa quanto mai vera. Sono riuscito a trattenermi ma mi pizzicava la lingua per chiederle perché non si fa portare in vacanza dal suo parroco? Ho avuto quasi la sensazione che don Roberto, quando ha affermato che da decenni ha impostato la pastorale estiva sui campi in montagna, si sia sentito in obbligo di giustificarsi con i suoi parrocchiani perché non organizza in parrocchia il Grest (un paio di settimane di vacanza guidata per i ragazzi). Penso di poterlo “assolvere” affermando per esperienza diretta che vivere un paio di settimane in un campo scout, sotto le tende o in un campeggio con i ragazzi e i giovani della parrocchia, immersi nella natura e a stretto contatto con il proprio prete, è infinitamente più incisivo di quanto non lo siano le poche ore passate nello scontato ed arido ambiente cittadino! Bene il Grest ma meglio ancora i campi scuola in montagna!

Un riferimento ideale

Una delle collaboratrici più dirette nella mia vita di vecchio prete è certamente suor Teresa, suora che appartiene alla minuscola comunità religiosa con la quale le suore di Nevers hanno tentato di tornare alle origini della loro congregazione destinando alla pastorale parrocchiale alcune delle loro consorelle. L’esperimento mi pare sia stato del tutto positivo.

Per almeno vent’anni suor Michela, la più anziana, si è dedicata con grande profitto all’insegnamento del catechismo, alla cura degli anziani e poiché non potevo contare su un sagrestano mi ha aiutato in occasione di funerali, battesimi e matrimoni.
Suor Teresa ha mantenuto economicamente la sua piccola comunità lavorando come infermiera in ospedale ed impegnando tutto il tempo libero con i chierichetti. Ricordo a questo proposito che per vent’anni abbiamo mantenuto il record italiano, e forse mondiale, con i nostri centodieci chierichetti. Si è dedicata anche alla cura della chiesa e l’ha fatto talmente bene da farla considerare da tutti la più bella della città.

Con il mio pensionamento queste due suore mi hanno seguito al Don Vecchi continuando a spendersi in questa nuova esperienza pastorale tutta da inventare. Ora suor Michela, ormai novantenne, ha dovuto arrendersi, anche se non completamente, perché continua a soffrire e a pregare per il “regno dei cieli” e suor Teresa, che non ama che si parli della sua età, continua la sua “battaglia” aiutando la consorella quasi inferma, interessandosi in maniera attiva della “cattedrale tra i cipressi”, ricoprendo il ruolo di presidente dell’associazione “Vestire gli ignudi”, impegnandosi come tappabuchi da mane a sera al Don Vecchi, curando i miei malanni, perché io sembro una solida “roccia” ma in realtà sono una roccia friabile e per evitare che mi sgretoli brontola da mattina a sera di non trascinare i piedi, di stare diritto, di non mangiare dolci, di non impegnarmi troppo, di guardarmi da chi non tiene conto della mia età, di chiudere la finestra, di rilassarmi e via di seguito!

Ho tentato più volte, e continuo a tentare, di ricordarle la mia data di nascita: 15 marzo 1929 e la mia volontà di compiere il mio dovere fino alla fine ma da quell’orecchio pare non ci senta proprio per nulla e così continua imperterrita con le sue prediche che sono più noiose di quelle dei preti. D’altronde quando penso a Nino Brunello, il maestro di violino, che a 97 anni suonati accompagna con la sua musica due volte alla settimana tutte le liturgie che celebro, come posso prendere in considerazione le lagne di questo “grillo parlante”?

Il servizio

Ho già scritto più volte, che fino ad una ventina di anni fa, il volontariato, specie quello motivato dalla fede, era il fiore all’occhiello delle popolazioni del Triveneto. In questi ultimi anni però, anche se c’è stata una indubbia contrazione a livello quantitativo, esso regge ancora e bene.

Noi ad esempio per i molteplici settori nei quali è articolata l’attività a favore del prossimo possiamo contare su quasi trecento volontari: disponiamo di un buon numero di volontari che operano nel settore del Polo solidale, realtà che vive in profonda simbiosi con la Fondazione e comprende i magazzini indumenti, lo spaccio alimentare, il gran bazar, i magazzini dei mobili e dell’arredo casa, il chiosco per la frutta e verdura e il banco alimentare. Un altro buon numero di volontari, operando all’interno del Centro Don Vecchi, gestiscono: il bar e il servizio al senior restaurant, gli appuntamenti ricreativi culturali, la raccolta dei generi alimentari in scadenza, il ritiro quasi quotidiano delle paste da alcune pasticcerie mestrine, il ritiro dei mobili e dei vestiti, il coro che anima ogni settimana la liturgia sia al don Vecchi che nella chiesa del cimitero e il personale che collabora nella cattedrale tra i cipressi, scrivono, impaginano, stampano e distribuiscono il settimanale “L’Incontro” e organizzano le gite-pellegrinaggio.

L’attività del nostro volontariato è articolata, ordinata ed efficiente. Vorrei in questa occasione spendere qualche parole in più per due gruppetti i cui componenti, nella loro infanzia e giovinezza, hanno ricevuto una particolare educazione al servizio. Mi riferisco alla dozzina di vecchi capi scout (in pensione) che ogni lunedì stampano L’Incontro. È un vero spettacolo vedere questi piccoli scout, ormai pensionati e nonni, svolgere affiatati ed allegri la loro mezza giornata di servizio per la comunità. A questi si aggiungono anche i vecchi scout, una decina in tutto, che indossando il loro “glorioso” fazzolettone servono la “clientela” dello “spaccio solidale”. Tutti i volontari del Don Vecchi svolgono bene e serenamente il loro servizio ma i vecchi scout che hanno ricevuto un’educazione specifica lo fanno con un tocco di allegria e di cameratismo quanto mai simpatico.