Alternativa o complementare?

La celebrazione della festività del Corpus Domini di quest’anno, una volta ancora, ha scatenato nel mio animo un conflitto che ora, che la celebrazione di questa importante tappa della liturgia è passata, non ho ancora risolto.

Nel mio sermone avrei potuto battere il sentiero comodo ed assai semplice di un fervorino sull’opportunità di accostarsi frequentemente alla Comunione con consapevolezza, oppure insistere sulla presenza eucaristica e sull’opportunità di un dialogo con Cristo presente sotto le spoglie eucaristiche custodite nella nostra chiesa deserta e silenziosa. Invece no. Una volta ancora mi sono posto il problema se sia preferibile incontrare il Signore nell’Eucarestia, memoriale e segno del permanere di Cristo e del Suo messaggio tra gli uomini d’oggi, oppure cercarlo, incontrarlo ed accettare il Cristo quello incarnato nell’umanità che è presente nel dramma degli uomini del nostro tempo bisognosi di amore e di solidarietà.

Le motivazioni del testo sacro sono ben chiare e presenti in entrambe le opzioni. Nella prima, la ricerca del Cristo s’ispira a quanto detto da Gesù durante l’ultima cena quando mostrando il pane e il calice di vino disse ai suoi discepoli: “Prendete e mangiatene tutti questo è il mio corpo, prendete e bevetene tutti questo è il calice del mio sangue, fate questo in memoria di me perché io continui a essere presente anche materialmente tra di voi!”. Nella seconda, invece, la ricerca si ispira a quanto affermato da Gesù stesso in altre occasioni: “Avevo fame, avevo sete, ero ignudo, ero ammalato, ero carcerato e tu mi sei stato vicino e solidale” e poi: “Quando avrete avuto pietà di uno di questi miei fratelli più fragili e bisognosi l’avrete fatto a me!”. Penso che Gesù abbia voluto evidenziare con le sue parole due aspetti del medesimo insegnamento affinché non riducessimo il suo messaggio esclusivamente ad un rigido rispetto della liturgia ed io anche quest’anno ho preferito imboccare la strada della concretezza anche se non lascia spazio ad evasioni misticheggianti!

La dolcezza della vecchiaia

Un tempo i nostri vecchi erano venerati e rispettati come testimoni della saggezza e dell’esperienza. Nel popolo ebraico, nell’antica Grecia e nella Roma di un tempo godevano del rispetto delle nuove generazioni purtroppo, ai giorni nostri, continuano a goderne solo nei paesi dell’Africa e dell’Estremo Oriente. In Italia dal sessantotto in poi pare che questo rispetto e questa venerazione siano quasi totalmente spariti. Spesso i vecchi sono relegati nelle case di riposo trattati come bambini dell’asilo o lasciati soli soletti nella loro casa con una badante straniera oppure abbandonati a se stessi come relitti nei grandi condomini anonimi ed indifferenti. Ricordo che ai tempi della contestazione una cara vecchietta mi chiese quasi preoccupata di non capire il linguaggio dei nipoti adolescenti: “Don Armando che cosa significa Matusa perché spesso i miei nipoti mi chiamano così?”. Ebbi pietà di lei e non le spiegai che quel termine significava: cariatide, superato o rimbambito ma minimizzai dicendole solamente che quel termine corrispondeva al nuovo gergo parlato dai nostri ragazzi.

Ormai da anni non tratto più con i giovani perché al Don Vecchi l’età media è di ottantaquattro anni e quando vi entra come nuovo inquilino un settantenne tutti lo guardano come se fosse un ragazzino o un adolescente. In cimitero poi i miei fedeli non sono tutti anziani ma comunque la maggioranza è composta da persone mature, confesso però, con grande soddisfazione, che mi sento molto amato e che tante persone, uomini e donne, mi trattano con grande tenerezza e tanto rispetto. Spesso mi chiedo che cosa posso aver mai fatto per godere di tanta simpatia e tanto affetto. Ringrazio il Signore che mi ha donato una vecchiaia non solo serena ma anche circondata da tante attenzioni. L’amabilità dei miei concittadini mi rende quanto mai gradevole questa stagione della vita e per tutto questo ringrazio di cuore il Signore.

Il regalo della moglie

Qualche giorno fa ho incontrato un noto professionista di Mestre di cui ho conosciuto sia la nonna sia i suoi genitori e che una ventina di anni fa ho sposato nella piccola chiesa mestrina di San Rocco. Non so proprio se sia praticante, come lo erano i suoi genitori, però sono assolutamente certo che nella sua vita si ispiri ai valori cristiani soprattutto per quanto riguarda la generosità e l’altruismo.

In un momento in cui, uscite dall’ambulatorio le sue collaboratrici, rimanemmo soli, mi disse felice come un bambino: “Sa che regalo mi ha fatto mia moglie in occasione del mio compleanno?” e, senza lasciarmi pensare neppure per un istante, soggiunse sorridendo felice e compiaciuto: “Mia moglie mi ha regalato la partecipazione ad una Messa cantata in gregoriano in una notissima abbazia della Toscana. Un regalo davvero insolito per questi nostri tempi.

Penso che noi, che viviamo in questo mondo irrequieto, senza pace e silenzio, abbiamo proprio la necessità di tuffarci ogni tanto nelle acque fresche e limpide delle sorgenti della preghiera poiché spesso le nostre preghiere sono distratte e frettolose. A proposito di queste singolari e significative esperienze ne ricordo due in particolare. La prima è stata una Messa nell’abbazia di Sant’Antimo dove una comunità di monaci francesi celebrava con calma e con una compostezza sovrana di voci e di gesti il sacro rito dell’Eucarestia. I miei cento anziani, che di solito amano le Messe brevi, rimasero silenziosi e partecipi per un’ora e mezza in assoluto silenzio, estasiati da questa liturgia povera ma solenne. La seconda è stata la visita al monastero benedettino di Marianlach in Repubblica Ceca dove vivono una sessantina di monaci. Al ricordo provo ancora i brividi per il senso di mistero e di assoluto che in quell’occasione ho avvertito nel mio animo.

Anche noi, gente di questo tempo distratto ed irrequieto, abbiamo veramente bisogno di queste esperienze sovrane di dialogo con l’Assoluto.

Sorpresa

Una decina di anni fa mi accorsi che, quando facevo uno sforzo, mi si annebbiava la vista e mi tremavano le gambe, una persona, a cui avevo confidato questo guaio, mi consigliò di chiedere una visita dal cardiologo. Fu il noto dottor Di Pede che scoprì che soffrivo di un’aritmia cardiaca, disagio che egli curò prescrivendomi la pastiglia di cordarone ma aggiunse anche che il mio cuore doveva essere periodicamente monitorato perché ero cardiopatico.

Prima di allora, quando parlavo del cuore, mi rifacevo sempre all’aspetto sentimentale ed affettivo che la tradizione e l’opinione pubblica riferiscono a questo termine ma mai avevo pensato al cuore come a un muscolo che ha una sua funzione meccanica. Il cuore, da un punto di vista fisico, è una pompa che spinge il sangue, elemento essenziale per la vita, in ogni punto del nostro organismo. Quando chiesi all’illustre cardiologo il motivo del funzionamento irregolare del mio muscolo cardiaco, mi rispose bonariamente ed affettuosamente che erano settant’anni che svolgeva in maniera regolare e puntuale la sua funzione. A quel tempo avevo settant’anni e non gli ottantasette attuali!

Al pensiero che il mio cuore ha funzionato per quasi un secolo senza mai rompersi rimango stordito. Neanche le Mercedes o le Jaguar, regine delle automobili, reggono così tanto all’usura del tempo, il cuore invece funziona ininterrottamente 24 ore su 24 per 12 mesi all’anno, senza mai fermarsi. Da quel giorno sorveglio con interesse ed attenzione il battito cardiaco, ammirato dell’opera di Dio che supera infinitamente anche le scoperte scientifiche più avanzate e per questo ringrazio e lodo il Signore con infinita riconoscenza e ammirazione.

Incontri al limite

Una gran parte del mio impegno pastorale lo svolgo celebrando il commiato di concittadini che mi precedono di qualche mese o, alla meglio, spero di qualche anno nell’incontro con il Padre. Confesso che questo ministero, che per molti anni avevo considerato marginale per la vita di un prete, con il passare del tempo scopro quanto sia importante. Non passa giorno in cui non trovi qualcosa di importante per la mia spiritualità e per la mia vita. Sento il bisogno di rendere partecipi anche i miei concittadini di questa “scoperta” che vado facendo mentre saluto, a nome dei familiari e degli amici, chi ci lascia per l’aldilà. Mi piacerebbe proprio saper scrivere un trattatello organico su questo argomento.

In passato, su richiesta dei titolari dell’impresa di pompe funebri Busolin, persone che mi sono particolarmente care e molto vicine, ho collaborato alla stesura del volumetto “L’albero della Vita” per l’elaborazione del lutto. La psicologa dottoressa Gardenal ha affrontato il problema a livello psicologico mentre io, in maniera molto elementare, ho curato l’aspetto squisitamente religioso. Di certo il commiato offre vastissimi e preziosi spunti di riflessione, motivi sui quali, quando ne avrò l’occasione, vorrei ritornare ma oggi desidero soffermarmi su un aspetto che mi pare particolarmente importante.

Io non celebro mai funerali di Capi di Stato, Pontefici o di personaggi che normalmente riempiono con titoloni le pagine dei giornali e gli schermi televisivi ma accompagno invece all’ultima dimora sempre povera gente senza storia e senza vicende importanti che caratterizzino la loro vita. Tutto questo mi ha fatto scoprire che è proprio questa povera gente, gente che fa il proprio dovere con semplicità e umiltà che regge la nostra società. Monsignor Vecchi era solito affermare che quando si entra in un edificio d’istinto si cercano i capitelli e le pietre lavorate e non ci si accorge che sono invece le umili pietre nascoste sotto l’intonaco a reggere l’edificio. Mi fa tanto piacere aver scoperto che la Provvidenza mi ha assegnato il compito di occuparmi di quelle persone che sono realmente le più importanti per il nostro mondo.

Il breviario

L’immagine del vecchio prete, che passeggia tenendo tra le mani il breviario, credo appartenga all’immaginario collettivo se non altro perché è diventata di pubblico dominio attraverso le pagine del celeberrimo romanzo “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni. Chi non ricorda, o non vede con gli occhi della fantasia, don Abbondio avvicinato dai bravi mentre recita tranquillo il breviario, la preghiera che la Chiesa “impone” di recitare ai sacerdoti a favore di tutto il popolo di Dio.

Credo che con il tempo anche questa immagine si sia sbiadita, un po’ perché i preti vivono una vita più irrequieta del sacerdote dei “Promessi sposi” ed un po’ perché ho letto che appena il 15% dei preti recita ancora quel breviario che un tempo era loro imposto sotto pena di “peccato mortale”. Io appartengo al piccolo rimasuglio di sacerdoti ottemperanti questa norma ecclesiastica. In verità quella del breviario non è una preghiera che mi esalti e che ami particolarmente perché, buona parte di esso, riporta salmi ebrei di due o tremila anni fa o brani di opere di frati e scrittori ecclesiastici che appartengono o all’Antico Testamento o ai primi secoli del cristianesimo. Rimango però fedele a questa pia pratica sperando che il piccolo sacrificio che faccio di primo mattino recitandolo sia di per se stesso una preghiera, per mia fortuna però quasi ogni giorno mi imbatto, durante questa recita, in qualche “pietra preziosa” che mi arricchisce.

Questa mattina, ad esempio, ho letto: “Signore fa germogliare i semi del bene che avrò modo di seminare durante questo giorno”. Ho passato tutta la giornata ad impegnarmi nell’offrire qualche cosa di buono e di valido a tutte le persone che ho incontrato. Mi è stata dolce e cara l’idea che mi cantava nel cuore di poter seminare nell’animo, di chi ho incontrato, qualcosa di bello e di buono. La mia preghiera non è stata sempre lucida e fervorosa però questo pensiero mi ha offerto un’ebbrezza particolare. Penso che, nonostante tutto, continuerò a “dire il breviario!”.

Lettera Aperta

Il mercoledì mattina arriva puntualmente “Lettera Aperta”, il settimanale che nel 1971, ad una settimana dal mio ingresso in parrocchia, ho fondato per dialogare a cuore aperto con i parrocchiani, superando gli ostacoli che la “coda” della contestazione del 1968 rischiavano di impedire. Io sono un fedele lettore del periodico della mia vecchia parrocchia, mi pare sia uno dei “bollettini parrocchiali” di Mestre più interessanti, ammiro il suo direttore che attualmente ha la stessa età che avevo io quando sono stato nominato parroco di Carpenedo.

Quest’oggi ho letto “Lettera Aperta” con particolare attenzione anche perché noto che don Gianni pian piano sta aumentando il numero di pagine, risucchiato e stimolato evidentemente da “L’Incontro”. Avendo un po’ di tempo ho letto il giornale con tranquillità lasciandomi avvolgere dai ricordi, riscontrando che ci “sono ancora dentro” in maniera molto consistente ed arrivando alla felice constatazione che gran parte della parrocchia che ho lasciato è ancora molto presente e vitale. Qualche iniziativa purtroppo si è spenta con il tempo come il mensile Carpinetum al quale davo estrema importanza perché manteneva vivo il dialogo con ogni famiglia della parrocchia a cui ogni mese lo inviavo per posta. Si è spento anche l’altro mensile “L’Anziano” che segnò un’epopea a livello dei gruppi anziani. Qualche altra attività vivacchia come “Il Ritrovo” e “La Cella” ed altre ancora sono morte ma fortunatamente risorte come la “Corale Carpinetum” e il gruppo culturale “La Rotonda” ma molte altre realtà, di cui si parla in questo numero di “Lettera Aperta” con uno stile veloce e frizzante quale è quello di don Gianni, sono quanto mai vive e promettenti.

Nel numero che ho appena finito di leggere si ricorda la “Sagra”, iniziativa che solo io so quanta fatica mi sia costata far nascere e quanti bei risultati abbia ottenuto, vi è pure pubblicata una bellissima foto della “Malga dei Faggi”, la casa di montagna dei ragazzi, del nuovo Patronato, del “Germoglio”, il cosiddetto Centro Polifunzionale per l’Infanzia. La visione di queste realtà mi ha spinto a ripensare al Foyer, a Villa Flangini, alla Foresteria, alla Canonica, al Piovento, ai gruppi sposi, agli scout, al “Mughetto”, al gruppo San Camillo, al restauro della chiesa, al cinema Lux, ai chierichetti …. Sono tanto grato a don Gianni che ha dato una bella “rinfrescata” alla mia vecchia parrocchia che mi vien da dire con Simeone: “Ora Signore posso andare in pace perché non mi è capitato di veder andare in rovina ciò che mi è costato tanta fatica!”.

Nulla va perduto!

Ho letto da qualche parte che sono stati trovati in una tomba, non ricordo se egizia o di qualche altra antica città del Medio Oriente, alcuni semi di frumento e nell’articolo si afferma che questi semi, una volta piantati in terra, a distanza di alcune migliaia di anni, hanno dapprima germogliato e successivamente prodotto le spighe di grano.

Ho fatto questa premessa per presentare un fatto, almeno per me, molto positivo che mi ha donato una grande consolazione. Mio padre, tanto tempo fa, mi confidava che ai vecchi basta poco per provare dispiacere ma pure molto poco per provare consolazione e anche per me, ormai vecchio, vale la stessa cosa! Ne parlo per incoraggiare tutti coloro che sono impegnati nel difficile compito della formazione dei ragazzi e dei giovani ma soprattutto per quelli impegnati nell’ancor più difficile missione di formare i cristiani. Ebbene, me ne stavo tranquillo nella minuscola sagrestia della mia “cattedrale tra i cipressi” quando mi ha raggiunto il rumore di un passo sicuro e cadenzato ampliato dal pavimento fatto di tavole grezze. Mi si è presentato un giovanottone nel fulgore della sua maturità che mi ha salutato con calore ed affetto. Ho fatto dapprima un po’ di fatica a riconoscerlo, non lo rivedevo da almeno una dozzina d’anni, poi, sia per l’accento romagnolo che era rimasto nel suo dire sia per l’aspetto, ho riconosciuto il figlio di una vecchia maestra di Carpenedo, mia preziosa collaboratrice in uno dei mensili della parrocchia: “L’Anziano”.

Immediatamente mi sono ricordato di sua madre dolce ed assennata, tanto preoccupata per la fede dei suoi due figli, di sua nonna – una cattolica di ferro – a cui portavo la comunione a casa, una donna che non ammetteva tentennamenti e che non faceva la minima concessione alla modernità di pensiero e del babbo pacato ed accondiscendente. Il giovane uomo mi ha abbracciato come fossi stato suo padre, mi ha parlato del suo lavoro e della sua vita ormai lontana da Mestre, infine mi ha consegnato una busta dicendomi che conteneva un mattone per la “costruzione” che ho in corso. Quando ho aperto la lettera non vi ho trovato solamente una somma significativa ma anche la nota che mi ricordava che l’indomani sarebbe stato il decennale della morte di sua madre. Egli non mi ha parlato della fede, per la quale sua madre era tanto preoccupata, ma la visita, l’abbraccio e l’offerta sono stati i segni più evidenti che i germi seminati da sua madre e da sua nonna erano tutti in fiore pronti per la spiga.

Una parola che Renzi non ha ancora detto

La strada dello scout del Mugello, diventato capo del governo, si fa ogni giorno sempre più in salita. Ritengo che i nervi di Renzi siano ben più saldi dei miei e che la sua ambizione di governare l’Italia sia molto più alta di quella che avrebbe un comune mortale perché altrimenti, come farei io al suo posto, prima o poi direbbe: “Me ne ritorno al mio paesello ad educare i ragazzi piuttosto che pretendere di governare questa banda di matti!”.

Non passa giorno che i grillini non lo attacchino “all’arma bianca” coprendolo di insulti e di insinuazioni, che “Fratelli d’Italia”, “Sel” e compagnia cantante non lo invitino a mollare perché incapace, ma soprattutto che la minoranza del suo partito non pretenda di dettare le regole come fosse la maggioranza, non gli tirino trabocchetti e non treschino contro di lui per farlo scivolare su una buccia di banana. Io sono decisamente preoccupato perché, non vedendo altre maggioranze attualmente possibili e constatando quanto il nostro Paese sia pericolante e rimanga il fanalino di coda del carrozzone europeo, temo vedendo che i sindacati, arroccati da anni su posizioni conservatrici, lo combattono accanitamente, che i magistrati, ormai abituati a condizionare la politica italiana pontificando da intoccabili, lo mettono in difficoltà nei momenti cruciali, temo, ripeto, che prima o poi Renzi si stanchi e lasci o venga costretto a lasciare.

Allora sono propenso a suggerire a Renzi: “Sappi Matteo che in Italia c’è un precedente significativo che può offrirti una via d’uscita nobile e dignitosa. Ti ricordi che alle elementari ti hanno insegnato che ai tempi di Roma un certo Cincinnato, trovandosi pressoché nella tua stessa situazione, disse ai romani: “Torno a lavorare nei miei campi e se avrete bisogno di me venitemi a chiamare”? Allora, caro Matteo, non potresti fare un discorso simile alla televisione a reti unificate: “Cari italiani tutti sono contro di me, tutti mi accusano di sbagliare ogni cosa, tutti affermano di possedere una ricetta miracolosa per cui ho deciso di ritirarmi nel mio paese a educare i ragazzi a crescere onesti e se un giorno l’Italia avesse ancora bisogno di me venitemi a chiamare!”. Penso che otterresti molto di più con i tuoi scout perché certi tuoi amici ed avversari, sono convinto, siano proprio irrecuperabili”.

La sorpresa degli irlandesi

Un tempo mi avevano raccontato che una buona metà degli irlandesi andava a Messa tutti i giorni, mi avevano anche raccontato che gli irlandesi d’America erano la punta di diamante dei cattolici americani. Avevo anche appreso però che questi signori erano inclini al bere, ma soprattutto ho appreso direttamente che, pur avendo molte ragioni dalla loro parte, non si erano fatti scrupoli di combattere i protestanti dell’Irlanda del Nord con gli attentati e la guerriglia urbana promossi dall’IRA.

Ora poi questi isolani sono saliti alla ribalta dell’opinione pubblica mondiale per il referendum sulle nozze gay. In questo paese nonostante il capo del governo sia cattolico, e la popolazione continui a professarsi cattolica, la maggioranza si è espressa a favore delle nozze omosessuali nei confronti delle quali, finora, la Chiesa ufficiale si è espressa in maniera decisamente negativa. La prima reazione della gerarchia ecclesiastica di quel Paese mi è parsa fin troppo cauta e rispettosa, senonché è arrivata prima la dura presa di posizione del “Vice Papa” cardinale Parolin con la sua dichiarazione perentoria: “Il referendum irlandese è un fatto nefasto per l’umanità” seguita subito dopo da quella, non meno dura, del cardinal Bagnasco.

Io sono un povero cristiano e non pretendo di ergermi a maestro di nessuno ma mi pare doveroso offrire la mia pur modesta opinione. Premetto che sono arciconvinto della concezione cristiana della famiglia, che sono pure convinto che lo Stato debba regolare con leggi opportune le unioni omosessuali, unioni che si possono però chiamare in qualsiasi modo ma non certamente con il termine “famiglia” perché in realtà non hanno nulla a che fare con essa e quindi è sia stupido che meschino volerle definire e regolare legalmente come l’istituto familiare. Sono anche convinto che noi cristiani, e soprattutto noi cattolici, dobbiamo offrire una testimonianza limpida, coerente, coraggiosa ed entusiasta della nostra concezione della vita e della famiglia però, proprio a motivo della nostra fede, non dobbiamo e non possiamo imporla a nessuno. Almeno da questo punto di vista mi pare che ci sia qualcosa di positivo anche nella presa di posizione del popolo d’Irlanda.

La madonna “da miracoli”

A fine maggio, noi del Don Vecchi, abbiamo chiuso la stagione primaverile dei nostri mini pellegrinaggi. Queste uscite pomeridiane le chiamiamo mini pellegrinaggi non solamente perché durano solo un pomeriggio ma anche perché dedichiamo metà del tempo all’aspetto religioso e l’altra metà alla merenda e alla passeggiata turistica. Il successo di queste iniziative, che stanno tra il pastorale e il turistico, penso sia dovuto non solo alla formula, certamente indovinata, ma anche al costo: dieci euro tutto compreso.

La meta dell’ultimo mini pellegrinaggio è stato il santuario, costruito dal Sansovino nel 1500, dedicato alla Madonna dei Miracoli a Motta di Livenza. La gita è ben riuscita anche se il cielo è stato sempre imbronciato e minaccioso di pioggia. Questo pellegrinaggio però ha posto un piccolo dramma a me vecchio prete che mi preoccupo dell’obiettivo spirituale da raggiungere. Il problema mi è sorto perché la precedente uscita ha avuto come meta un piccolo ma grazioso santuario in quel di Monastier dedicato ad una piccola Madonna Nera che non ha mai fatto miracoli. Questo fatto allora mi ha dato l’opportunità di sviluppare il pensiero di un grande e santo pastore protestante fatto impiccare da Hitler, il quale afferma che “Dio non accetta di fare il tappabuchi delle piccole difficoltà che l’uomo normalmente incontra, perché gli ha dato la capacità di sbrigarsela da solo”.

Questo discorso mi è parso molto opportuno per quei cristiani che si aspettano di ricevere tutto o quasi tutto dal Cielo. A Motta di Livenza però quella Madonna è proprio una “Madonna da miracoli!” e il discorso è diventato complementare al precedente perché mi ha dato l’opportunità di affermare che la Vergine, come una vecchia e saggia Madre, accontenta i suoi figli solamente quando hanno veramente bisogno e quando se lo meritano. Mi sono quindi ispirato a Sant’Agostino che afferma che Dio non ci ascolta, non solo quando non ce lo meritiamo perché siamo cattivi o pretendiamo in modo arrogante il suo intervento, ma anche quando chiediamo cose che Lui sa che ci farebbero male. Nonostante questo, penso che la Madonna di Motta di Livenza un “miracoletto” quel giorno lo abbia fatto, perché tutti i pellegrini sono tornati a casa molto contenti!

Dove posso trovare Dio?

Sono certo che tutti, prima o poi durante la vita, facciano degli incontri un po’ strani diversi dal solito, incontri particolari che fanno riflettere. Penso però che un prete, per il suo ruolo, ne faccia più degli altri ma soprattutto faccia incontri particolarmente densi di umanità.

Qualche giorno fa, avevo appena aperto la mia “cattedrale tra i cipressi”, erano le sette e un quarto e in sagrestia stavo verificando l’agenda per dispormi agli incontri del giorno quando ho udito i passi decisi di una persona che veniva verso la mia porta. Subito dopo è apparsa sulla soglia la figura di un giovane trentenne che mi ha detto senza tanti preamboli: “Padre può dedicarmi due minuti?” e senza interrompersi mi ha confidato: “ho un posto di responsabilità in una grande azienda che fattura sessanta milioni all’anno”. Pareva mi volesse dire: “Non sono il solito mendicante che tenta di spillare qualche soldarello”, vestiva infatti alla moda d’oggi con blue jeans sbrindellati ed una semplice camicia, cosa che facilmente poteva far pensare che fosse tale! Poi è andato dritto al bersaglio: “Come posso incontrare Dio?” ed ha continuato quasi a giustificare quella domanda che non dovrebbe risultare insolita per un prete ma che in verità lo era: “Sono caduto nel vortice della droga e non riesco ad uscirne!” poi in silenzio, guardandomi negli occhi, ha atteso la mia risposta.

Mi sono ricordato di un’affermazione della Bibbia a cui tante volte mi sono aggrappato nei momenti più difficili della mia vita: “Dio si fa trovare da chi lo cerca con cuore sincero!”. Era evidentemente disperato e d’istinto capiva che solamente Dio lo avrebbe potuto salvare. Mi è sembrato però che egli avesse scarsa dimestichezza con il Signore! Gli ho consigliato di rivolgersi ad un mio amico prete che è esperto in queste cose e gli ho assicurato che lo avrei ricordato ogni giorno a quel Dio a cui si era rivolto. È poi uscito rituffandosi nei ritmi della sua vita. Forse non lo rincontrerò mai più ma spero tanto che non smetta di cercare il Signore. Da parte mia, per quanto posso, chiederò al buon Dio ogni giorno di avere per questo ragazzo un supplemento di attenzione.

La soglia minima

Tanto tempo fa mi sono imbattuto per caso in un’espressione un po’ paradossale di San Francesco di Sales, il santo vescovo di Ginevra. Questo santo francese è stato nominato dalla Chiesa patrono dei giornalisti per aver adoperato, in maniera egregia, la penna per contrastare le tesi delle Chiese protestanti assai agguerrite ai suoi tempi e fortemente anticattoliche e per aiutare le anime a vivere un cristianesimo autentico. Ebbene San Francesco di Sales ebbe a dire che “la verità che non è trasmessa con carità non è neppure verità!”.

Io, ispirandomi a questa sentenza, penso di dover dire soprattutto al vasto mondo del volontariato che “la carità che non è fatta con cortesia, garbo, pazienza e tolleranza non è neppure carità anche se sta distribuendo tonnellate di frutta e verdura, altrettante in generi alimentari e in vestiti per i poveri”. Nel mondo laico i titolari di attività, o chi li rappresenta, sono soliti affermare che il cliente va rispettato e trattato con cortesia e normalmente i dipendenti, per non perdere il posto di lavoro o per migliorare la loro posizione, si attengono fedelmente a questo principio. Nel mondo del volontariato invece le cose spesso vanno diversamente. I volontari frequentemente si sentono benefattori dell’umanità e spesso sono portati ad usare un atteggiamento tanto determinato da sconfinare nell’arroganza, caratteristica purtroppo abbastanza diffusa in questo contesto.

Premetto che trattare con una “clientela” proveniente da culture diverse non è la cosa più semplice di questo mondo perché molti ritengono che tutto sia loro dovuto, perché hanno sempre il sospetto che li si tratti guardandoli dall’alto in basso ma soprattutto, poiché da noi tutto si “paga”, anche quando il tributo richiesto è semplicemente simbolico ed irrisorio, c’è sempre il tentativo di tirare sul prezzo. Detto questo però credo che noi cristiani e noi volontari, per coerenza e per essere testimoni credibili, non dobbiamo mai dimenticare che fare la carità è un privilegio che ha un prezzo elevato, prezzo che però è giusto pagare senza protestare!

I balletti del dialogo

Qualche mese fa ho scritto d’aver “partecipato”, un po’ in disparte, al funerale di un maomettano. La bara era stata posta nel giardino antistante alla “mia cattedrale tra i cipressi” di fronte al fazzoletto di terreno coperto di ciottoli di fiume tra cui desidero vengano disperse le mie ceneri quando il Signore chiamerà in cielo la mia anima.

Sono stato colpito dalla compostezza di un folto gruppo di uomini attenti alle parole del loro Imam. Sapendo che anche i mussulmani credono in una vita ultraterrena, che anch’essi ritengono più bella e più felice di quella presente, penso che il loro ministro del culto abbia richiamato questa verità di fede ed abbia chiesto per tutti l’aiuto del profeta Maometto.

Domenica mattina, mentre salivo in macchina dopo la Messa, mi sono accorto che nello stesso giardino, tra un verde fresco di primavera e sotto un sole dolce e accattivante, si stava svolgendo un altro funerale. Ho supposto, osservando i tratti somatici dei partecipanti al rito, che si trattasse di un cinese o di un giapponese ed ho osservato la stessa scena composta e serena del funerale maomettano che avevo in precedenza seguito. I giovani che vi partecipavano erano vestiti bene e tenendosi per mano, ragazzi e ragazze compivano una sorta di girotondo silenzioso attorno alla bara coperta da un cuscino di fiori bianchi. C’era tra loro un uomo più anziano che ho supposto guidasse il rito funebre. Non mi pare che recitassero preghiere, però mi sembravano sereni di fronte al mistero della morte.

Mi è venuto spontaneo confrontare quel rito con il commiato cristiano ed ho sognato che, prima o poi, riusciremo a scambiarci opinioni circa la fine della vita, convinto di poter offrire le nostre belle verità ma anche desideroso di apprendere le loro. I due funerali si sono svolti in una bella cornice però sarei stato più felice se anche loro avessero potuto salutare i loro cari e pregare nella mia chiesa. Ora è presto ma verrà pure il giorno in cui metteremo finalmente assieme le preghiere e le speranze.

L’ecumenismo che mi piace

Fino ad una ventina di anni fa ero convinto che fosse un impegno di noi cattolici convertire alla nostra Chiesa non solamente i pagani e gli uomini che appartengono ad altre religioni quali l’Islam, il Buddhismo, il Confucianesimo ecc. ma pure i fedeli di altre confessioni cristiane come i Luterani, i Battisti, i Mormoni, i Calvinisti e l’infinito arcipelago di confessioni protestanti e di Chiese ortodosse.

Poi, a Dio piacendo, nella Chiesa Cattolica si cominciò a parlare di rispetto, di tolleranza ed infine di ecumenismo cioè della ricerca per trovare un minimo comune denominatore tra tutti i credenti nella comprensione e nel rispetto reciproco. Per molto tempo però questo discorso è rimasto confinato agli esperti e agli specialisti di teologia che, credo, se lasciati discutere sulle loro questioni di lana caprina non basterebbero i millenni a venire. Per grazia del Signore questi temi hanno cominciato a interessare dalla base il popolo di Dio iniziando a trovare comprensione, intesa e collaborazione.

In questi giorni ho toccato con mano quanta strada abbia fatto questo movimento non solamente tra i cattolici ma anche nelle altre confessioni religiose. Eccovene una prova! Accanto al don Vecchi di Campalto i cristiani copti egiziani hanno costruito una chiesa secondo i canoni della loro tradizione, edificio che alcune persone, poco esperte, scambiano per una moschea! Fin dai primi passi della nostra avventura sociale abbiamo trovato in questi fratelli di fede una collaborazione calda e fraterna tanto che ci hanno messo a disposizione l’area per il cantiere e ci hanno colmato di molte attenzioni. Qualche giorno fa è venuto a Campalto il loro “Vice Papa”, il vescovo ortodosso che presiede tutte le comunità copte d’Europa. Quest’uomo di Dio ci ha accolto con grande fraternità, ci ha fatto visitare la sua chiesa quasi pronta, ci ha proposto di recitare assieme il Padrenostro ed infine, con mio grande stupore e sorpresa, ci ha comunicato di averci riservato l’altare di destra perché potessimo celebrare la Messa festiva in un luogo degno e sacro.

Raramente ho incontrato un “confratello” tanto generoso e disponibile! Mi auguro di tutto cuore e, per quanto mi riguarda, farò l’impossibile affinché la Fondazione metta a disposizione dei cristiani copti un terreno che serve loro per creare un seminario. Sono convinto che l’incontro e la comunione si trovino in questi gesti piuttosto che nelle discussioni dei nostri teologi.