A proposito di scuola

M’è capitato di leggere su di un periodico genovese “Il seme”, una strana “particolare” notizia che riporto integralmente. Premetto però il motivo di questa pubblicazione: primo, perché il trafiletto m’ha dato modo di riflettere sulla situazione della scuola nel nostro Paese e sulle vicende della recente riforma, le quali hanno dato modo ai nostri studenti, all’inizio dell’anno scolastico, di prolungare, come ogni anno, le già lunghe vacanze estive; secondo, perché mi costringe a riflettere a voce alta anche su un altro grave problema nazionale ben bene occultato da un velo di ipocrisia e di stoltezza intollerabile.

Veniamo alla notizia de “Il seme” firmata da Massimo Gramellini.

Stamani la signora Francesca Merlo e suo marito manifesteranno con cartelli e striscioni davanti al Comune di Milano per chiedere al vicesindaco che la loro creatura quindicenne venga bocciata. Sono esasperati e un po’ esibizionisti, ma non pazzi. Non più di chi ha scritto la legge della scuola nell’ultimo mezzo secolo. La ragazza frequenta il liceo linguistico Manzoni ed è stata promossa in seconda con tre “debiti formativi”.

Una volta si sarebbe detto rimandata in tre materie. Ma erano tempi volgari in cui le parole cercavano ancora di dire la verità. Adesso che bocciare è maleducato, oltre che scarsamente utile alla carriera dei professori (chi perde alunni non sa insegnare, è una teoria in voga) i somari vanno avanti lo stesso, accumulando “debiti” che negli anni seguenti non avranno neppure l’obbligo di onorare: un ideale biglietto da visita per questa Repubblica fondata sui mutui. Proprio come certi strozzini che non mollano il cliente, la scuola promuove la ragazza “indebitata” ma le impedisce di cambiare istituto.

Per spezzare la catena servirebbe una bocciatura ed ecco spiegato il gesto a prima vista assurdo dei genitori. Il resto, la ragazza che vuole cambiare aria “perché non si sente capita”, mamma e papà che non comunicano con gli insegnanti della figlia e si schierano acritici al suo fianco, persino la minaccia di ricorrere al Tar, rientra invece in un contesto di rassegnata normalità.

Io non sono in grado di valutare i meriti e i demeriti della riforma Gelmini, però se fosse vero che questa riforma si rifà al criterio della meritocrazia, per me sarebbe già una riforma splendida.

E’ giustissimo che il Paese cerchi una culturizzazione generale, e lo faccia mediante insegnanti validi ed operosi, ma è altrettanto stupido e nocivo avere una scuola che appiattisce, continui a dare “voti politici”, ed incoraggi a salire i gradini del sapere a chi non ne ha le risorse.

La cultura di sinistra, in questo ultimo secolo ha collocato in alto delle creature che non hanno risorse per occupare posti che esigono intelligenza e preparazione adeguata. Per me merita altrettanto rispetto ed ha altrettanto valore per la collettività sia il professore universitario che l’ultimo spazzino, però c’è chi è idoneo e si realizza compiutamente a fare il professore universitario e chi invece a fare lo spazzino, guai a invertire i due ruoli.

Col crollo del muro di Berlino è crollata una impalcatura politica falsa e fallimentare, ma c’è ancora molto da fare per far crollare una mentalità altrettanto assurda e fallimentare ancora presente nella scuola e in tanti comparti della nostra società.

Una mamma tenace

Il figlio mi aveva tracciato un rapido e sommario ritratto della mamma a cui l’indomani avrei dato l’ultimo saluto. Come capita per le realtà importanti ed essenziali della vita, uno ha la sensazione di aver bisogno di tempo per delineare la vita e la personalità della persona cara dalla quale sta per distaccarsi. Poi, quando questo figlio prende la parola, finisce per balbettare qualcosa di confuso, mentre avrebbe il desiderio di trovare le parole più belle per incorniciare il volto dell’amata mamma.

Anche in questa circostanza dovetti esser io a fargli qualche domanda perché emergesse dal suo rimpianto e dall’amore un volto più definito di chi gli aveva donato la vita e l’aveva cresciuto con amore.

Quando poi, a conclusione di questo breve discorso, finii per domandargli se avesse qualche particolare da riferirmi, in modo che io potessi offrire ai partecipanti alla messa del commiato un aspetto positivo della testimonianza di vita di questa vecchia donna che tornava al Signore, farfugliando confuso mi disse che sua mamma era stata una donna “tenace”. Immaginai quindi una donna dalle linee consistenti, mentre invece, prima di darle l’ultima benedizione scorsi nella bara un corpicino minuto.

Nonostante questo compresi che lo spirito che abitava in un corpo ormai logoro dalla vita deve aver dato il coraggio, la forza e la volontà di affrontare la vita, compiendo il proprio dovere e portando a termine la sua missione senza deflettere.

Aveva ragione il figlio! Compresi che quella povera mamma era stata una di quelle tante e povere pietre, nascoste dall’intonaco, che nonostante la poca apparenza, reggono l’edificio della nostra società.

Guai se ci fossero nel mondo solamente capitelli elaborati che fanno fin troppa mostra di sé; la società regge ancora perché nel mondo ci sono, per fortuna, innumerevoli creature “tenaci” come questa che, nonostante tutto, reggono le pareti portanti del nostro mondo.

Nel mio sermone perciò le appuntai la “medaglia d’oro” della stima e della riconoscenza di tutti.

Il libro della natura ci offre una lezione magistrale di vita

Il sermone a commento del Vangelo della domenica mi impegna quanto mai. A parte il fatto che la “parola di Dio” dovrebbe essere sempre inquadrata ed offerta in una cornice d’oro massiccio, io in più ho la fortuna di rivolgermi ad una comunità così bella, a cui vorrei donare un qualcosa che veramente sappia di verità e d’amore.

Alla domenica, dopo la lettura del testo sacro, sogno di spargere nei cuori attenti dei miei carissimi fedeli dei semi di luce e di speranza veramente turgidi di vita, pronti ad attecchire immediatamente e a donare un frutto sostanzioso. Tutto questo mi comporta una riflessione prolungata che accompagno con una preghiera ardente perché il Signore fecondi il messaggio e, come dice la Scrittura, “la pioggia che cade dal cielo non cada mai senza portar frutto”.

Qualche settimana fa m’è capitato di commentare una delle pagine del Vangelo più ricche di poesia e di saggezza; era il brano che parla degli uccelli dell’aria che non seminano né raccolgono dai granai, eppure da mattina a sera danzano felici nel cielo, e dei gigli del campo che senza andare da Cristian Dior vestono meglio di re Salomone il quale incantava perfino la regina di Saba.

Dissi ai miei fedeli che se non avessimo altro testo dal quale imparare a vivere, basterebbe guardare in ogni stagione e in qualsiasi angolo della terra il Creato, per avere una lezione magistrale di vita.

Ricordo che, avendo io, giovane pretino un po’ presuntuoso, fatto osservare al mio vecchio parroco don Vecchi, che lo vedevo poco leggere ed aggiornarsi culturalmente, egli mi rispose: «Caro Armando, se alla mia età non avessi ancora imparato a leggere il libro della vita, sarei finito, alla mia bella età, senza aver capito proprio nulla!»

Il libro della natura, o quello della cronaca quotidiana, sono due volumi più che sufficienti per diventare veramente sapienti quanto Socrate o Aristotele!

“Lassù abbiamo qualcuno che ci ama!”

La frase con cui un famoso attore, morto lo scorso anno, conclude il film di cui era protagonista, è diventata per me una “citazione” quanto mai ascoltata durante i miei sermoni di commiato.

Paul Newman era un attore che io non conoscevo, ma che la stampa unanime, in occasione della sua morte, descrisse come un attore quanto mai valido.

Io ormai non guardo quasi mai i film alla televisione, mi sembrano ripetitivi, carichi di violenza e soprattutto mancanti di quella poesia che è il cuore di ogni opera d’arte. Ma non so come, e perché, in occasione della morte di questo attore, avendo la Rai messo in onda il film di cui era protagonista, finii per vedere tutto il film senza addormentarmi, come mi capita quasi sempre.

La trama si rifà a quel filone della tradizione americana che vuole che, nonostante tutte le difficoltà e traversie, il protagonista risulti vincitore. Volesse il cielo che le pellicole del nostro tempo si rifacessero a questa positività e a questo ottimismo, magari di maniera!

Ecco la trama. Un ragazzo di famiglia povera finisce per vivere un’infanzia e soprattutto un’adolescenza balorda finché, per grazia di Dio, finisce in una palestra di pugilato e, attraverso infinite vicende, ora liete ora tristi, emerge, si fa una famiglia ed ha dei bambini. Sennonché la sorte gli è avversa e pare che ritorni nel baratro, ma gli si offre l’opportunità di un “combattimento importante” e riesce, con sforzi inumani, a vincerlo.

Torna a casa per annunciare alla sposa e ai figli, che l’aspettano con ansia, la vittoria che finalmente risolverà anche i suoi problemi di ordine economico. Prima di salire le scale guarda in alto ed esclama: «Lassù c’è qualcuno che mi ama!»

Newman, anche senza saperlo, dice una grande verità, e quando io cito la frase di questo attore durante il commiato che celebro nella mia povera chiesa che ha le capriate a due spanne dalla testa dei fedeli, i presenti l’ascoltano con più attenzione e fiducia che se l’avesse detto san Paolo o sant’Agostino.

E’ bello e confortante sapere che “lassù abbiamo qualcuno che ci ama!”

E’ sempre vero il vecchio motto “bisogna fuggire le occasioni prossime di peccato!”

Circa un anno fa le assistenti del Comune ci avevano chiesto di accogliere al “don Vecchi” un loro assistito, per tentare un suo inserimento sociale nella normalità della vita. Assieme avevamo concordato qualche lavoretto semplice che quest’uomo, ancor giovane, poteva fare. Egli venne con puntualità, facendo del suo meglio, a tener in ordine il cortile, svuotare i contenitori delle immondizie.

Finimmo per affezionarci reciprocamente, tanto che alla fine dei tre mesi di prova tutti fummo contenti di “assumerlo” a tempo indeterminato. Il Comune gli garantiva una paghetta mensile di un paio di centinaia di euro, noi aggiungevamo delle mancette in occasione dell’arrivo delle bollette del gas o della luce.

Carlo mangiava dai frati, ma in occasione delle ferie di agosto, quando i frati chiudono, ci disse: «Vengo da voi a mangiare!» Così ci restò anche dopo le ferie.

Nel frattempo egli cominciò a socializzare e a rendersi utile, tanto che ai nostri vecchi non parve vero di poterlo utilizzare per l’asporto delle immondizie o per qualche altro lavoretto. In compenso gli regalavano qualche euro o, peggio ancora, gli pagavano qualche “ombretta” al bar.

Questo fu l’inizio della china, ma il colpo di grazia glielo diede un nuovo arrivato, suo commensale, che portava volentieri una bottiglia di quello buono a tavola, e il nostro collaboratore non si tirava indietro. Per qualche giorno continuò a lavorare barcollando, poi una “caduta” rovinosa, seguita da una breve ripresa.

La diga della continenza però, gia segnata, crollò disastrosamente come il Vajont. Quando tornerà lo metterò a tavola con delle nonnette assolutamente astemie e gli farò fare il voto di bere solamente “sorella acqua, umile e casta”.

In occasione della “caduta” di Carlo, mi sono ricordato dell’antico e saggio monito che ho imparato settant’anni fa al catechismo e che è tuttora valido per tutti i settori della vita, nonostante il parere contrario degli psicologi o dei radicali: “Bisogna fuggire le occasioni prossime di peccato!”. Questo vale per fratello Carlo del nostro convento, ma vale pure per tutti noi!

Don Olindo Marella

Ci sono certe immagini, certe esperienze ed anche certe letture che rimangono particolarmente impresse nella memoria e nella coscienza.

So di ripetermi, ma non riesco a non farlo. Più volte ho annotato in questo mio “diario” la mia sorpresa nell’aver letto quanto il famosissimo giornalista italiano, Indro Montanelli – l’uomo di cultura dalla parola essenziale e tagliente come una lama affilata, lui di matrice radicalmente laica – scrive con grande ammirazione del “santo” palestrinotto, padre Marella. Credevo che Montanelli fosse stato toccato dalla grande carità di questo prete, nato nella piccola isola di pescatori della laguna veneta. Montanelli ha scritto più volte di questo prete che amava veramente i poveri, il quale s’è perfino spinto a stendere la mano per chiedere l’elemosina per poter aiutare i suoi beneficiati.

Qualche tempo fa una cara creatura con cui ho condiviso per parecchi anni la splendida avventura de “Il Germoglio”, il centro polifunzionale per l’infanzia della mia parrocchia, avendo letto queste note con cui affermavo che non solo i laici, ma anche i miscredenti si inchinano di fronte agli uomini della solidarietà, essendo essi pur frati o preti, mi fece avere la biografia di questo prete, don Olindo Marella.

Sto leggendo con notevole interesse la vita di questo prete isolano, vissuto all’inizio del secolo scorso, ed ho scoperto finalmente un motivo supplementare dell’ammirazione di Montanelli: don Marella non fu solamente un uomo della carità, ma anche un uomo di cultura, un prete libero ed anticipatore del Concilio e del risveglio della Chiesa e del pensiero dei cattolici moderni, un uomo che seppe pagare in umiltà e in silenzio l’arroganza e la chiusura mentale di qualche membro della gerarchia.

Per fortuna don Marella incontrò l’arcivescovo di Bologna, mons. Nasachi Rocca, che lo accolse a braccia aperte riscattando col suo gesto la “categoria” che a suo tempo non brillò per ricchezza umana, coerenza evangelica e rispetto della persona e della coscienza altrui.

Credo che anche ai nostri giorni, nonostante la secolarizzazione, chi si nutre di libertà, di verità e di Vangelo, si impone all’ammirazione e alla stima della gente del nostro tempo, sia credente che laica.

La tragica vicenda di Enzo Tortora

L’ho già detto: “Rai storia”, offertami dal digitale, mi sta rubando i dopo cena. Finalmente mi pare d’aver scoperto il meglio della televisione. Anche se talvolta mi lascio andare a qualche pisolino, dovuto alla stanchezza e all’età, seguo con estremo interesse i programmi che questo canale sforna giorno dopo giorno. Sembra un flusso inesauribile di note e di filmati che mettono a fuoco avvenimenti e personaggi che avevo conosciuto fuggevolmente dalla cronaca, ma che ora i redattori del programma inquadrano in maniera approfondita e con dovizie di particolari.

La mia televisione, oltre ai notiziari, è ormai suddivisa tra la storia, l’arte e la natura. Mai avrei immaginato di poter “visitare” un’Italia così bella e così ricca di monumenti e di opere d’arte, mai avrei neanche minimamente sognato di poter scoprire mari, coste, boschi, lagune e paesaggi così belli e diversi. Sto letteralmente scoprendo il volto più bello del mio Paese.

Non tutto però quello che scopro è idilliaco; purtroppo la macchina da presa è spesso impietosa e talvolta riprende e ti mette di fronte agli occhi gli aspetti più crudi della cattiveria umana e i drammi più struggenti degli uomini del nostro tempo.

Qualche sera fa ho seguito la tristissima vicenda di Enzo Tortora. A suo tempo avevo sentito parlare delle accuse, della condanna del prestigioso presentatore televisivo, ma mai avevo sentito dalla viva voce il dolore, l’impotenza, la ribellione e la disperazione di Tortora e della sua famiglia.

La magistratura italiana, che dovrebbe rappresentare la coscienza, l’attenzione all’uomo, la sete di verità e di giustizia, credo che mai sia caduta tanto in basso nella stima del Paese.

Io non posso parlare perché non conosco i problemi della separazione delle carriere, del processo breve, della responsabilità del giudice e delle intercettazioni, però ho l’impressione che l’avere in mano il potere di decidere sulla sorte degli uomini induca facilmente all’arroganza e allo sprezzo del dolore umano, della dignità. Non ho motivo di dire che i magistrati assomiglino ai despoti, ma di certo credo che almeno ne abbiano le stesse tentazioni. Non vorrei aver mai visto il servizio su Enzo Tortora, esso mi pesa troppo sul cuore.

Da oggi pregherò ogni sera per gli innocenti e per chi deve giudicare l’uomo.

La primavera e l’autunno

Quando sono venuto via dalla parrocchia ho dovuto regalare, vendere o buttare la biblioteca che m’ero fatto in mezzo secolo di vita da prete. Sono stato costretto a farlo perché nel mio minialloggio al “don Vecchi” o ci mettevo i libri o il letto per dormire e il tavolo da mangiare! Ho optato necessariamente per questa ultima soluzione.

Di tutti i volumi ho conservato solamente quelli che abbiamo sfornato con l'”Editrice Carpinetum”. Pensavo che in pensione mi avrebbe fatto piacere ritornare ai “bei tempi andati”, sfogliando i numerosi volumi che raccolgono le mie innumerevoli riflessioni, prese di posizione, sogni e speranze. Un capiente armadio di noce custodisce ora i cinquantacinque anni di vita della parrocchia: dagli articoletti romantici dei Gesuati agli articoli più maturi nati a San Lorenzo e a Carpendo, alla “storia di un ottuagenario” prete in pensione.

Tutto questo lungo passato rimane ben custodito nell’armadio di noce.

Ben raramente trovo il tempo di sfilare un volume per ricordare tante vicende che portano il segno del tempo in cui le ho scritte. Talvolta però, seppur fuggevolmente, rubo qualche momento a ciò che mi impegna attualmente, per lasciarmi andare alla memoria e alla nostalgia.

Qualche giorno fa, terribilmente angosciato perché mi pareva che il mio scrivere stesse diventando sempre più involuto e banale, ho preso il secondo volume dei miei “diari”. E mi sono trovato tra le mani un volumetto compatto di 240 pagine stampate in 2500 copie dall’editrice “Il prato” di Padova e curato da Giovanni Stefani, caporedattore della Rai TV di Venezia. Dopo la cara prefazione del noto giornalista televisivo, la prima pagina porta la data del 3 gennaio 1990, ventun anni fa, e termina col 29 settembre 1998.

Leggendo qua e là le note di qualche giorno, ho scorto la stessa differenza che passa tra l’immagine, matura si, ma non ancor vecchia di allora, e quella cadente e logora di oggi. Ho capito che debbo assolutamente rassegnarmi ad accettarmi anche nello scrivere, come ora sono.

L’autunno non potrà mai pretendere d’avere il volto della primavera e neanche dell’estate. Voglio perciò essere almeno contento d’aver vissuto con intensità tutte le stagioni della vita.

Religione e libertà

Ho scoperto tardi, ma fortunatamente ho scoperto che in ogni tempo ed in ogni categoria di persone c’è sempre qualcuno di intelligente, onesto e coerente, che con la sua dirittura morale fa da contrappeso alle meschinità del tempo e degli uomini.

Recentemente s’è celebrato l’anniversario della morte dell’Abbé Pierre, il famoso francescano che prima si converte, poi si fa frate, quindi entra nella resistenza, viene eletto deputato ed infine fonda quella splendida associazione denominata “Emmaus” per la redenzione dei barboni e dei senza fissa dimora.

Ho letto recentemente che il confessore dell’Abbé Pierre, che era il famoso teologo francese De Lubac, suggerì, il giorno dell’ordinazione sacerdotale del suo penitente: «Nel momento in cui sarai prostrato a terra, di fronte al vescovo che sta per importi le mani, chiedi allo Spirito Santo la grazia di concederti la virtù di un sano anticlericalismo!»

Quando ho letto questo discorso, di primo acchito sono rimasto un po’ sorpreso, ma poi ho ben capito quanto fosse saggio ed opportuno questo suggerimento. L’Abbé Pierre credo che abbia detto con fede questa preghiera ed abbia sicuramente ottenuto la grazia perché visse con pienezza la libertà di figlio di Dio.

Cristo è venuto in questo mondo perché l’uomo prendesse coscienza della sua dignità, della sua libertà e dell’originalità della sua persona e perciò è antireligioso non chi non accoglie e vive con ebbrezza questo dono, ma chi pretende invece di limitarlo o mortificarlo.

Io ringrazio Dio di tutto cuore di vivere in questo tempo in cui questa libertà è garantita anche al più umile dei cristiani e chiedo perdono per tutti coloro che, in nome di non so quale dottrina, l’ha terribilmente cancellata fino ad un recente passato.

La violenza nelle rivolte di questi mesi

Non so chi abbia inventato l’affermazione che il mondo è ormai un “villaggio globale”, ossia una realtà tanto vicina ed intima per cui veniamo a conoscenza un po’ di tutto e siamo coinvolti in ogni vicenda. I mezzi di comunicazione di massa rendono ogni giorno più reale tutto questo. Tragico perciò rimane il fatto che stampa, televisione ed internet siano contrassegnati dal “peccato originale” di essere più sensibili agli aspetti crudi ed amari della realtà e meno propensi a proporre ciò che c’è di più propositivo.

In queste ultime settimane alla ribalta dell’informazione campeggiano le rivolte, a domino, dei Paesi della costa settentrionale dell’Africa.

Le varie rivoluzioni che si stanno susseguendo a ritmo incalzante sono ormai le protagoniste in assoluto della televisione e della stampa di tutto il mondo. Con modalità diverse, con più o meno violenza, queste rivoluzioni, a carattere popolare, stanno mettendo sotto gli occhi di tutti il marcio che stava sotto a regimi che, fino all’altro ieri, si presentavano con un certo perbenismo.

Pare che l’allargarsi di queste rivoluzioni di piazza stiano però caratterizzandosi con un crescendo di violenza e di sangue.

Inizialmente avevo sperato che la gente dei vari Paesi si rifacesse alla “non violenza” di Gandhi o di Martin Luther King e che finalmente i popoli avessero imparato la lezione stupenda di questi grandi testimoni del nostro tempo i quali, pur pagando con la vita la loro dottrina, hanno insegnato che con la resistenza passiva si ottengono risultati migliori che non con l’uso della forza. Ora però temo che “l’uomo delle caverne” finisca per prevalere e si affidi alla violenza innescando quella catena di sangue e di odio che finisce per sporcare anche la sola “guerra” degna di essere combattuta, che è quella della libertà!

Il Vangelo deve essere messo in pratica!

Qualche domenica fa il mio sermone dovette incorniciare uno degli aspetti che caratterizzano il discorso cristiano e che ne sono la componente essenziale: il discorso di Gesù sull’amore e sulla solidarietà.

Cristo è categorico e netto, pare che non sia disposto a concedere deroghe o interpretazioni riduttive: “E’ stato detto … ma io non vi dico!” e poi snocciola una casistica che si rifà ad esempi concreti: “Se uno ti percuote sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, se uno ti chiede il mantello tu mettigli a disposizione anche la tunica, se uno ti chiede di accompagnarlo per un chilometro, tu stagli accanto per due, se uno ti chiede un prestito tu non voltargli le spalle!”

Credo che questo sia veramente il “manifesto” dell’utopia cristiana, la bandiera al vento della rivoluzione cristiana, rivoluzione radicale che sovverte il disordine costituito e che non fa sconti a nessuno. Ma l'”amen” di questo discorso, che mozza il fiato, arriva quando Gesù conclude: “Se appressandoti all’altare per fare l’offerta ti ricordi che un fratello ha qualcosa nei tuoi riguardi, lascia l’offerta e, prima, va a riconciliarti con lui”.

Fu, il mio, un sermone particolarmente deciso, tanto che quasi dovetti prendere la rincorsa per pronunciare queste parole così roventi, che mi penetravano nella carne come spade affilate, così da sembrarmi d’essere come quella immagine, in verità un po’ spagnolesca, della Madonna col cuore trafitto da sette spade.

Finita la messa, venne in sagrestia una giovane donna a dirmi, quasi preoccupata: «Don Armando, ho avuto il timore che, terminata la sua predica, fossimo tutti spinti a prendere la via della porta!» E’ vero! Noi abbiamo fatto ormai orecchio alle parole del Vangelo, ma non possiamo continuare a farlo perché, o tentiamo di mettere in pratica ciò che Cristo ci dice, altrimenti è meglio che ce ne stiamo a casa a fare un pisolino!

La ricetta per il vero benessere

Non è certamente una novità del nostro tempo, comunque pare che una delle preoccupazioni della gente dei nostri giorni sia quella dello star bene, anzi dello star sempre meglio. Il benessere, perseguito talvolta perfino in maniera esasperata e maniacale, è sempre relativo ad ogni fascia sociale, per cui i benestanti, che dovrebbero essere quelli meno impegnati a star bene, perché lo stanno già anche troppo, sono invece quelli più avidi di crescita economica e finiscono quindi per accaparrarsi la fetta preponderante della ricchezza presente nella società e a ridurre così la disponibilità per le classi con minor reddito.

Il problema di creare una società più giusta rimane come un obiettivo primario da perseguire con ogni mezzo, però se tutti, indipendentemente dal reddito, non cambiamo mentalità, il problema rimarrà sempre aperto ed irrisolto. Per questo motivo l’invito di Cristo alla conversione rimane l’unico modo per risolvere alla radice ogni problema, anche di ordine sociale.

La proposta cristiana non è marginale come molti sono convinti, e meno che meno è una proposta per il dopo vita, ma rimane la più saggia ed è la più efficace anche per la società attuale.

Il Manzoni che, a suo modo, è stato anche un sociologo quanto mai valido, autore di quel volume che prima di essere un romanzo di altissimo livello culturale, è un catechismo che espone, in maniera suadente ed efficace la dottrina cristiana, alla fine dei “Promessi sposi” afferma, a proposito di questa avidità insaziabile ed irrazionale: “Si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene, e così si finirebbe a star meglio!”

Gesù, da vero maestro, ci offre quindi una medicina apparentemente “amara”, ma che ci guarirebbe da un male subdolo ed infamante se la prendessimo più frequentemente.

“Amate anche i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”

Don Roberto, il più piccolo dei sette fratelli della mia famiglia, da vent’anni fa il parroco a Chirignago. Non ci assomigliamo molto, perché quanto io sono solitario ed introverso, tanto lui è vivace e aperto. L’unico denominatore comune è forse l’impegno, il darci senza misura, il dire pane al pane e non accettare compromessi con la nostra coscienza per la carriera.

Io ammiro e invidio alcune doti che credo don Roberto abbia in abbondanza e di cui invece io scarseggio. Non mi lamento però e mi accetto come sono, compresi i miei limiti, perché sono convinto che “il Signore ha fatto bene ogni cosa” e che il colore e la forma dei miliardi di tessere delle quali è composta l’umanità sono creati per far emergere il meraviglioso disegno di Dio, per cui è bene che ognuno si accetti com’è ed esprima al meglio le sue qualità, certo che esse sono importanti quanto le qualità degli altri, per realizzare una società serena e propositiva.

Don Roberto parla molto bene e scrive ancor meglio, ha una straordinaria capacità di essere conciso, immediato e concreto, per cui si legge molto volentieri e con molto interesse quanto scrive. “Gente Veneta”, il settimanale della diocesi, quando è a corto di commentatori del Vangelo della domenica, ricorre molto volentieri a lui. Io lo leggo spesso e sono edificato dai commenti di mio fratello.

Qualche settimana fa sono stato colpito da una “confidenza” che egli ha riportato sul giornale, in merito al monito di Gesù: “Ma io vi dico: amate anche i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”.

Don Roberto scrive:
«Andavo a trovare il vecchio Patriarca Marco già in pensione, alcuni anni fa. Per strada avevo trovato un parrocchiano che con la Caritas parrocchiale avevamo aiutato con tantissimo denaro perché non perdesse la casa. E, lo confesso, avevo sperato che per gratitudine avrebbe ricominciato a frequentare la Chiesa. Niente. Il Patriarca, a cui dicevo la mia rabbia, mi rispose con una sapienza che ancora mi risuona nelle orecchie: noi dobbiamo solo fare come il Padre che manda il suo sole per i giusti e per gli ingiusti, e con la pioggia fa altrettanto. Il resto non è più affar nostro. Aveva ragione. Ragionava come Gesù».

Le parole del vecchio Patriarca hanno aiutato anche me, che dovrei essere più saggio e più santo di mio fratello perché sono più vecchio di vent’anni; quelle sagge e sante parole m’hanno aiutato a perdonare, compatire e pregare per una mia coinquilina del “don Vecchi” la quale, pur dovendo sapere quanti sacrifici m’è costata questa struttura, qualche tempo fa, in occasione della visita e “benedizione delle case” del don Vecchi, mi ha rifiutato. Ora, ogni sera, c’è una preghiera anche per chi m’ha “sbattuto la porta in faccia”.

Suor Maria Luisa Cicogna

Lina è stata per anni la mia carissima e dolce direttrice de “Il Germoglio”, il famoso centro polifunzionale per l’infanzia. Mille volte mi ha fatto sognare per il suo popolo meraviglioso di bimbetti con le magliette rosse e le “salopettes” grigie alla Geppetto, e mi ha reso orgoglioso per questa soluzione d’avanguardia nel campo dell’infanzia. Poco tempo fa la signora Lina mi ha riferito della morte della sua insegnante, suor Maria Luisa Cicogna.

Suor Maria Luisa è stata una canossiana che ho incontrato durante la mia vita in parrocchia e che, mossa da uno zelo straripante, per molti anni si è offerta di fare catechismo alle elementari e di visitare gli ammalati. Era una donna a modo suo eccezionale, entusiasta, capace di affascinare anche i ragazzini più scatenati, di parlare loro di Gesù ed entusiasmarli tanto che perfino ambivano di andare al suo catechismo.

Suor Maria Luisa era nata nei primi decenni del Novecento, ma il suo cuore e il suo modo di vivere faceva certamente parte dell’avanzato terzo millennio. Era una suora libera, dalla vita un po’ zingaresca; aveva appuntamenti con le persone più disparate, aperta al dialogo e ricca di calore umano.

E’ stata certamente brava a vivere fino a novant’anni in convento e morire ancora in una comunità religiosa. Credo che debba essere stata una spina nel fianco della sua comunità in cui, quasi sempre, le “sante regole” sembrano fatte per appiattire la personalità e mortificare e sgorbiare l’estro che Dio manifesta nel creare l’individualità e l’unicità di ogni sua creatura. Penso però che, pur con qualche disagio e con sofferenza, né regole, né superiore siano riuscite a snaturare una personalità così originale e così ricca qual’è stata quella di suor Maria Luisa.

Questa sera ho detto messa per lei, o meglio l’ho ringraziata per quello che è stata e soprattutto l’ho pregata di chiedere al buon Dio che la faccia sostituire con una suora che le assomigli.

Ogni comunità religiosa, piccola o grande che sia, avrebbe bisogno di quel lievito e di quello spirito di libertà dei quali suor Maria Luisa era tanto, o fin troppo, ricca.

Il concerto degli uccellini, un inno alla vita e alla sua primavera!

Al “don Vecchi” ci sono anche delle soluzioni architettoniche felici, ma altre lasciano proprio a desiderare. Sono intervenuto più volte, durante questi ultimi anni, per rimediare o talvolta per mascherare qualche sgorbio che non riuscivo proprio a tollerare. Il mio senso estetico non mi permette proprio di sopportare per lungo tempo qualcosa che risulta sgradevole al mio sguardo.

La custodia delle biciclette, che poi non ha mai preteso di essere un’opera d’arte, era uno di quegli angoli sull’ingresso che mi faceva “soffrire” da un punto di vista estetico. Finalmente, con la consulenza e l’aiuto di qualche amico, sono riuscito a mascherare il lato principale con dei gelsomini rampicanti, il retro con una barriera di oleandri.

La vicinanza degli alberi del parco e il selciato, su cui spesso si trovano i frammenti di pane che escono dalla cucina, ne fanno un luogo ideale per gli uccellini. Questo pomeriggio, di ritorno dalla messa celebrata in cimitero, sono stato attratto da un concertino eseguito da un gruppetto di uccelli. Ho avuto un tuffo al cuore perché suonavano un pezzo allegro di musica da primavera! Un cinguettio vivace, suonato su tutte le corde del pentagramma, diretto da un maestro certamente brioso, m’ha fatto capire che è ormai aperta la loro stagione musicale.

Mi sono ricordato immediatamente le osservazioni di Gesù: «Guardate gli uccelli dell’aria, non seminano, non hanno granai, ma cantano felici alla vita». Se al mondo non potessi contemplare altro di bello, se non la danza classica degli uccelli in cielo e le loro corali fresche e melodiose esse sarebbero più che sufficienti per lodare e ringraziare il Signore per la vita.