Ringrazio il buon Dio per tutto ciò che mi ha donato!

Qualche settimana fa ho compiuto ottantadue anni. Per l’occasione avvertii la mia gente che avrei celebrato la messa di ringraziamento e, nel contempo, li invitai invece per “una spaghettata” un po’ goliardica.

Si presentarono in tanti per la messa e forse un po’ in più per la spaghettata!

In quell’occasione m’era dovere di fare un buon sermone; mi rifeci all’affermazione di Gesù: “chi lascia padre e madre, fratelli e sorelle, campi e quant’altro, riceverà il centuplo e la vita eterna”.

Per quanto riguarda la prima parte della promessa potevo garantire, per esperienza personale, che le cose vanno così ed in forza di questa parziale esperienza, penso che Gesù non venga meno neanche per la seconda parte, quella che riguarda la vita eterna.

Oggi mi pare che l’opinione pubblica, ed in particolare la nostra gente, non si interessi più di tanto al “mistero della vita del prete”, come è avvenuto nel passato, e di ciò fanno fede innumerevoli romanzi di ogni Paese. M’è parso però giusto confidare ai miei amici più cari che la mia vita è stata bella ed interessante, che ho fatto sempre quello che ritenevo giusto e doveroso, che ho sempre mantenuto la mia libertà di pensiero e di parola, ma soprattutto che mi sono sempre occupato degli uomini, che è la cosa più interessante di questo mondo! Ho continuato dicendo che non conosco preti che abbiano una vecchiaia più bella e interessante della mia, anche se vivo in un alloggio di 49 metri quadrati e sono impegnato da mattina a sera.

Inoltre penso che pochi preti siano circondati da tanta calda amicizia ed affetto quanto lo sono io. Per tale motivo ho invitato tutti ad aiutarmi a ringraziare il buon Dio.

Accuse di un sabato sera

Avevo appena terminato la messa prefestiva al “don Vecchi” e m’ero ritirato “in casa” dopo una giornata faticosa per impegni e discorsi. Speravo di potermi togliere le scarpe, cenare alla buona, per la qualità e la quantità del cibo, controllato severamente dalla “mia assistente sanitaria” preoccupata per il potassio, il colesterolo, la pressione, la gotta e per tutto il ricettario medico. Sennonché una suonata decisa del campanello, mi fece presagire una visita insolita perché al “don Vecchi” è “soft” perfino la premuta del campanello.

Si presentò una coppia: prima ancora che aprissero bocca, capii immediatamente che cosa volevano (purtroppo le barriere di protezione al “don Vecchi” sono assai fragili, per cui “l’assalto dei pirati” è sempre possibile). Mi chiesero un lavoro alle otto di sera di giorno di sabato, poi mi dissero che dormivano in un furgoncino al freddo ed erano perfino senza benzina.

Io tentai di dir loro che ci sono enti religiosi e civili preposti a queste cose, che io ero un vecchio prete ormai in pensione, che per quel che potevo mi occupavo di anziani poveri, che ero impegnato fino al collo per i sessantaquattro appartamentini del “don Vecchi” di Campalto e perciò destinavo ogni mia risorsa a quello scopo. Poi, ricordandomi di quello che mi disse un tempo una “piccola sorella di Gesù”, che un gesto di attenzione in ogni caso non fa mai male, dopo aver loro indicato quegli enti – che, compresi, loro conoscevano meglio di me – diedi loro cinque euro: certamente poco, ma erano degli sconosciuti mandati al “don Vecchi” da persone che, non sapendo come liberarsi, pensano che io sia giunto alla possibilità di far miracoli, pur godendo di una pensione di 756 euro mensili!

Lui li prese prontamente, ma lungo il tragitto per accompagnarli alla porta “apriti cielo!”, lei mi insultò sferzante e volgare, dicendo che noi preti ci approfittiamo dei poveri, che non aiutiamo la gente e soprattutto ha affermato che sarebbe andata al Gazzettino per denunciare queste malefatte.

Pensavo che l’aver scelto di vivere come i vecchi poveri, di impegnarmi ed espormi a rischi per offrire ad essi un tetto sicuro e possibile, mi liberasse da queste accuse. Invece no. Poi pensai a Cristo che visse “facendo del bene” e finì in croce. Mi rasserenai e chiusi in pace la giornata.

Cesarino Gardellin, un uomo che merita la stima di tutti!

Qualche giorno fa ho ricevuto una telefonata di un mio vecchio amico che mi ricordava che era tempo di cominciare a darsi da fare per ottenere il cinque per mille.

La voce di Cesarino era affannata e discontinua; purtroppo uno dei morbi, oggi tanto diffusi, ha fiaccato la forte tempra di questo combattente indomito su tutti i fronti. Però, pur attraverso quella povera voce incerta e stonata, m’è giunto il messaggio di un uomo che “ha dato tutto di sé” per gli altri e continua a farlo come gli è ancora possibile.

Cesarino è stato un bell’uomo, ricco di fascino e di una sottile ironia – o forse sarebbe meglio definirlo “humour” – per cui rendeva interessante ogni suo intervento. Parlava bene e scriveva ancor meglio. I libri sulla “sua guerra”, gli articoli sulla stampa cittadina e soprattutto sui periodici della nostra parrocchia, erano sempre brillanti, soffusi di sentimento e pieni di battute frizzanti, per cui si lasciava leggere con vero gusto.

Ma il capolavoro di Cesarino è stato il suo impegno per creare la cultura della donazione degli organi. Egli ha condotto avanti questa campagna assieme al professor Rama, al dottor Zambon, ad una schiera numerosissima di collaboratori ed aderenti che si lasciavano trascinare dall’entusiasmo e dalla generosità di questo concittadino sempre schierato a favore del prossimo.

Le iniziative di questo apripista della donazione sono state infinite e sempre positive: conferenze nelle scuole, la giornata del donatore, le targhe da apporre sulle tombe dei donatori, convegni, articoli e dibattiti, il periodico stampato in venti-trentamila copie.

Ora uno va in ospedale e riceve il trapianto della cornea come sia la cosa più scontata e tranquilla, ma pochi sanno quanto sia costata un tempo, in lotte e sacrifici, la legge che la supporta.

Cesarino è ora quasi invalido, non esce più di casa, non scrive, parla poco e male, comunque è rimasto un combattente indomito, tanto da ricordare al suo vecchio parroco, acciaccato pure lui, di non perdere l’occasione del cinque per mille.

Cesarino Gardellin non merita una rotonda o una strada a suo nome, ma l’ammirazione, la stima e l’affetto dell’intera città.

Donare è segno di amicizia e di calda solidarietà, meglio farlo ora!

Un paio di volte mi è giunta voce che qualcuno mi ha criticato perché chiedo di sovente aiuto ai concittadini per poter realizzare strutture e servizi per i poveri e perché suggerisco con una certa insistenza, a chi non ha parenti diretti o in difficoltà, di ricordarsi nel testamento di lasciare in eredità tutti, o in parte, i loro averi per enti, quale la Fondazione Carpinetum, che sono impegnati nella solidarietà.

Queste critiche mi spiacciono, mi addolorano, ma non mi fermano nei miei propositi. La carità per me non può e non deve esaurirsi in una predica dal pulpito, in un proclama di partito o una pia aspirazione, ma deve concretarsi in scelte precise ed efficaci.

Monsignor Vecchi, quando qualcuno gli faceva le stesse critiche, che oggi fanno a me, rispondeva sicuro: «Le persone alle quali rivolgo i miei appelli devono essermi riconoscenti e ringraziarmi perché le aiuto ad essere più nobili e più felici, ed in aggiunta li metto nella condizione di assicurarsi un posto in cielo!». Io la penso alla stessa maniera. Aggiungo che questo comportamento è lodevole, ma è ancora più lodevole e degno di ammirazione chi riesce a far del bene non dopo la morte – cosa che non costa niente – ma aiuta il suo prossimo mentre è vivo e lo fa pure con certo sacrificio e non donando soldi che gli sono superflui.

Mi hanno raccontato di un prete veneziano, colto ed amante dei libri, tanto da avere una splendida biblioteca personale, che ad un certo momento della sua vita ha cominciato a donare a destra e a manca i suoi volumi quanto mai preziosi. A chi gli chiese stupito “Come mai ti disfi di volumi che hai acquistato con sacrifici e che dici di amare tanto?” rispose: «Ora, quando dono un volume, dal quale prima o poi dovrò disfarmi, diventa un gesto di amicizia e di simpatia, perché è una mia scelta, mentre quello che resterà dopo la mia morte in ogni caso dovrà esser dato a qualcuno e perciò io non ne avrei merito alcuno, né potrei dimostrare affetto ed amicizia alle persone che mi vogliono bene».

Bello, nobile e giusto lasciare in testamento tutti o parte dei propri beni ai poveri, ma ancora molto più bello, più nobile e più giusto farlo in vita, perché così questo dono diventa segno di amicizia e di calda solidarietà.

Da vecchi si capisce che manca il tempo per vedere maturare le sementi gettate ora

Provo una strana sensazione nell’impegnarmi e nel lavorare per certe realtà che quasi certamente non avrò la possibilità e il tempo di vedere realizzate. Queste sensazioni non si possono provare se non quando si è vecchi. Però confesso che provo un po’ di malinconia nell’avvertire che non vedrò i fiori e soprattutto i frutti di certe “sementi” che ora con fatica e sacrifici sto buttando nel solco della vita.

All’ingresso del “don Vecchi” ho affisso alla parete un motto da cui vado ad attingere forza e coraggio quando la malinconia mi assale pensando che non avrò tempo per vedere realizzato il progetto sognato. Il motto, scritto su piccole tessere vitree di mosaico verdi e celesti, recita coraggioso: “In spem contra spem” (nella speranza contro ogni speranza). Talvolta mi sembra di essere nei panni di Mosè, il valoroso condottiero che, tra mille vicissitudini, condusse il suo popolo verso la Terra promessa e che dovette accontentarsi di vederla di lontano, sapendo di non riuscire a mettere piede in quella terra benedetta, nei fiumi della quale scorrevano “latte e miele”!

In questi giorni ho provato più acuto di sempre questo sentimento in due occasioni tanto diverse, ma legate da un seppur breve denominatore comune. Una cara signora mi ha offerto una dozzina di virgulti di palma. Ho fatto fare un’aiola circolare nel prato del parco del “don Vecchi” e piantare queste tenere pianticelle che ora ondeggiano al vento. Guardandole mi viene da sognare un bellissimo palmeto verde, ma so che non avrò certamente tempo di vederlo.

Un secondo evento molto più importante: sto aspettando, quasi con stizza per la lentezza, che la Regione approvi il bilancio, perché solo allora avrò modo di studiare con i dirigenti dell’assessore alle politiche sociali, Sernagiotto, un progetto pilota per accogliere, da “cittadini a tutto titolo”, anziani in perdita di autonomia”. Questo progetto mi affascina perché sono convinto che offrirà dignità ed ulteriore autonomia a persone che vivono l’avanzato tramonto della loro vita. Sono però certo che davanti a me non ci sono anni sufficienti perché questo progetto utile, ma anche ambizioso ed impegnativo, possa realizzarsi; non per questo voglio starmene con le mani in mano, sono invece determinato a lottare fino alla fine perché altri possano raccoglierne i frutti.

“L’apostolato per i gentili”

Le mie “strategie” pastorali si sono sempre rifatte alla “dottrina” dell’attacco, piuttosto che della difesa. Ho sempre ammirato i cristiani che, consapevoli di avere un messaggio quanto mai valido, si sono impegnati “a tempo e fuori tempo”, come afferma san Paolo, per donare ai fratelli la realtà più preziosa che avevano: il Vangelo, la lettura della vita fatta da Cristo.

Come confesso che mi hanno provocato sempre un senso di miseria quei credenti che si barricano dentro le parrocchie, in atteggiamento di difesa da non so quale “nemico” e passano la vita in interminabili discussioni tra di loro sul “sesso degli angeli”.

Io sono della scuola di san Paolo, che quando si trattò di dividersi il “campo di lavoro” disse a Pietro: «Voi occupatevi pure delle `pecore’ d’Israele, mentre io mi impegno a favore dei “gentili”, termine che oggi corrisponde ai cosiddetti “lontani”. Ma prima di san Paolo, lo stesso Gesù aveva affermato in maniera esplicita: «Il medico è fatto per gli ammalati, non per i sani», «Io sono venuto non per i giusti, ma per i peccatori!»

Debbo anche aggiungere che non mi sono mai rassegnato al pensiero che chi non osserva tutte le regole canoniche sia un “perduto” per sempre. Queste persone che “soffrono l’odore delle candele” non credo proprio che li dobbiamo pensare come ex cristiani, o cristiani irrecuperabili.

Ricordo un vecchio parroco di San Pietro di Murano, che durante un’assemblea di preti in cui si discuteva di queste cose, s’alzò e affermò con forza: «Questa gente che voi considerate lontani ha ancora la “grazia santificante” ricevuta col battesimo!» In merito a questi discorsi io ogni giorno di più scelgo sempre più convinto e sempre con più decisione “l’apostolato per i gentili”. Ai cosiddetti “lontani” dedicherò le forze residue per aiutarli a sentirsi, pure loro, amati dal Signore e per aiutarli ad essere coscienti che ci sono mille altri modi, fuori da quelli canonici, per amare e servire il buon Dio».  L’impegno sociale, l’autenticità, il perseguire la libertà e la verità ad ogni costo, l’amore alla giustizia e alla pace, penso che siano le “preghiere” certamente preferite dal buon Dio, che ha fatto dire a suo Figlio: «Non chi dice Signore Signore entrerà nel Regno, ma chi fa la volontà del Padre mio!».

Il Consiglio di amministrazione della Fondazione Carpinetum, un esempio per tutti

A settembre terminerà il suo compito il Consiglio di amministrazione che in questi ultimi cinque anni ha diretto i centri “don Vecchi”.

Il Consiglio della Fondazione Carpinetum è composto da cinque membri, tre di elezione da parte della parrocchia di Carpenedo e due da parte del Patriarcato. Per un gesto squisito di gentilezza sia la parrocchia che la diocesi hanno permesso che fossi io a designarli. Ho chiesto a persone capaci, oneste e generose di aiutarmi in questa fase d’inizio un po’ incerta e difficile della Fondazione appena costituita. La risposta è giunta pronta e generosa, nonostante ognuna di loro avesse impegni pressanti a livello professionale.

Il Consiglio ha lavorato non bene ma benissimo, mai un diverbio, mai un contrasto; ognuno, seppure di età e di impegno civile diverso, ha dato il meglio di sé con generosità, discrezione e saggezza.

La consapevolezza di adempiere un servizio verso persone anziane, bisognose ed indifese, ha prevalso in qualsiasi problema da affrontare. In cinque anni si è aperto il Centro di Marghera con i suoi 57 alloggi e la sua direzione quanto mai valida ed efficiente, si sono acquisiti diecimila metri quadri di terreno a Campalto e, prima della fine del mandato, saranno inaugurati altri 64 alloggi con una direzione già pronta a prendere le redini.

Nel contempo questo Consiglio s’è adoperato a sviluppare “il grande polo” di solidarietà cresciuto all’ombra della sede del “don Vecchi” di Carpenedo e che attualmente rappresenta il più consistente, il più moderno ed efficiente centro di solidarietà operante a Mestre e nel Patriarcato.

Ancora suddetto Consiglio ha già messo le premesse per una esperienza pilota, assolutamente innovativa nei riguardi degli anziani in perdita di autonomia.

Credo che se al Parlamento e al Governo si lavorasse in maniera così responsabile e disinteressata, le cose nel nostro Paese andrebbero infinitamente meglio. E allora “se non adesso quando?”. Credo che lo slogan delle donne potrebbe essere adoperato meglio, partendo da queste premesse e indirizzato a questi ideali.

La visita del Papa a Venezia

Il fatto che il Papa venga a Venezia mi fa molto felice, come credo che faccia felici tutti coloro che credono, per fede, che egli è il successore degli apostoli. L’apparato ecclesiastico sta facendo grandi preparativi per accoglierlo come si conviene. A questa gioia delle genti venete per la venuta del vicario di Cristo, secondo me si aggiunge anche molta “tenerezza” (mi si perdoni il termine che non vuol essere minimamente irrispettoso, ma vuole esprimere tutta la mia comprensione nel vederlo così fragile, indifeso e smarrito).

Il Papa, mi pare, abbia un paio di anni più di me e perciò posso ben comprendere il costo “delle chiavi così pesanti” e la fatica di tenere il timone della barca di Pietro in un mare per nulla tranquillo.

Qualche giorno fa leggevo, negli Atti degli Apostoli, l’attesa trepida con cui la prima comunità cristiana di Roma aspettò il vecchio apostolo Giovanni e l’emozione profonda con cui ha ascoltato la sua parola: “Figlioli, vogliatevi bene!” e poi ancora “Amatevi gli uni gli altri!” Spero che le nostre comunità e chi le guida non facciano di questo evento un qualcosa di portentoso, un qualcosa da cui possa derivare un non so qual miracolo di rinnovamento. Le parole che mi attendo dalle labbra e dal cuore di Papa Benedetto sono queste antiche e stupende parole che sono sempre nuove e sempre belle perché sono la vera ricchezza della nostra Chiesa.

Anche noi del “don Vecchi” abbiamo dato con prontezza e con letizia il nostro piccolo contributo per la festa della venuta del Papa tra noi, ma soprattutto gli doneremo idealmente i nuovi alloggi per gli anziani poveri della nostra città. Siamo certi, che lo venga a sapere o meno, che questo sarà il dono più gradito ed apprezzato dal Santo Padre, dono che ricompenserà la sua fatica e che farà felice il suo cuore di padre.

Una protesta che mi ha lasciato perplesso

L’oceanica accolta di donne che si sono recentemente riunite a Roma all’insegna del grido di guerra santa “Se non ora quando mai?” nella cornice variopinta e notevolmente goliardica – per non usare termini che sappiano di provocazione – mi aveva un po’ stordito e disorientato. Dopo gli ottantottani è tanto facile che questo avvenga di fronte ad eventi mai conosciuti durante tanti anni di vita, quindi credo che non ci sia da meravigliarsi della mia perplessità nel valutare questa enorme assemblea di donne.

Il fatto poi che i giornali, ma mi pare anche le protagoniste stesse, abbiano detto, per dritto e rovescio, che il tutto voleva bollare l’immoralità di Berlusconi e non nascondevano troppo che intendevano dare una spallata al governo per mandarlo a casa, mi aveva reso ancora più perplesso, tanto da costringermi a rimuginare questo fatto epocale. Infatti da un lato non capivo perché queste donne protestassero contro il libertinaggio di Berlusconi e, almeno contemporaneamente, non bollassero d’infamia, come si sarebbe dovuto, quelle altre donne che liberamente s’erano prestate a questo mercimonio e tutte le altre che per desiderio di lucro o di notorietà si prestano ad essere esche piuttosto che persone consce della loro dignità e non le chiamassero con i vocaboli che una lunghissima tradizione ha coniato per le donne che si prestano a queste indecenze!

Mi spiace per la suora e per chi s’è lasciato trascinare dalla “moda del momento” ma un po’ di onestà e di buon senso non fa male!

Quando ero ragazzino ho sentito più volte da delle donne adulte e perbene dire che “l’uomo è cacciatore”, ma non per questo penso che esse, almeno quelle che io conoscevo, si facessero beccare! A parer mio, prete che confessa da più di cinquant’anni, Berlusconi e la sua congrega sono peccatori, ma lo è altrettanto chi ha frequentato le sue ville. Dall’altro lato mi pare di ricordare i discorsi di certe donne femministe sul diritto di disporre a piacimento del proprio corpo, i discorsi sulla pillola, i discorsi sull’aborto e i discorsi a tutto campo delle femministe radicali, e allora mi pare di comprendere che l’immoralità e l’abiezione è un seme sparso in maniera sovrabbondante anche dalle stesse donne ed ora è cresciuto il fiore del male.

Ho l’impressione che anche in tutto questo ci sia molta di quell’ipocrisia che oggi impera sovrana.

Quanti manigoldi al mondo!

Io credo di non essere un buon parlatore, anzi mi reputo introverso e fin troppo riservato, ma mi riconosco la dote di saper ascoltare, per cui ricevo abbastanza frequentemente le confidenze personali anche della gente che incontro occasionalmente.

Spesso, venendo a contatto con questo vecchio prete, che tutti istintivamente chiamano “padre”, vengono a galla i piccoli drammi quotidiani, le angustie e le frustrazioni proprie di chi è dipendente.

Ad esempio quelle degli autisti delle imprese di pompe funebri, che mi accompagnano nei vari ospedali cittadini per l’ultima benedizione, prima che il legno copra per sempre il volto dei nostri cari defunti; pur non essendo essi miei amici, molto di frequente mi parlano delle loro cose.

Qualche giorno fa mi accompagnava all’Ospedale dell’Angelo un dipendente di una delle ventine di imprese di pompe funebri operanti a Mestre e nell’interland. E’ un “ragazzo” che conosco da tanti anni, lo reputo intelligente, onesto, serio lavoratore, uno che fa il suo mestiere con buona volontà e serietà. Quella mattina era un po’ rabbuiato perché un suo capo, che di certo non è né “signore” né corretto, ad una sua osservazione, pur pacata e rispettosa, l’aveva apostrofato con una frase irrispettosa ed incivile “Taci, operaio da mille euro al mese!”

Sto male, molto male, quando incontro tale arroganza! C’è ancora una vasta fascia di società che valuta gli uomini dallo stipendio che percepiscono e dal lavoro che fanno e non sanno neppure cosa significhi “persona”.

Noi abbiamo eminenti manigoldi che siedono in Parlamento, in banche importanti, in imprese ed istituti pubblici, che sono pagati con un sacco di quattrini però rimangono autentici manigoldi.

Speravo, prima di morire, di vedere un mondo in cui le persone siano valutate per quello che sono e non per quello che fanno o, peggio ancora, per quello che percepiscono!

Sono innamorato della mia comunità!

Sono sempre più innamorato della mia comunità. Con alcuni fedeli ci incontriamo ogni giorno per la preghiera comune, mentre tutti gli altri li incontro per l’Eucarestia del giorno del Signore che diventa il cuore e il momento più ricco della nostra fraternità e della calda amicizia.

Col tempo si è aggiunto al denominatore comune nell’ascolto della Parola di Dio, della lode al Signore e della frazione del Pane di vita, pure un ricco sentimento di simpatia umana. Nei nostri incontri s’avverte sempre il calore della nostra comunione e l’entusiasmo di avere la gioia di incontrare il Padre comune e i fratelli.

Per i fedeli della mia piccola comunità della “Madonna della consolazione” parlare di precetto festivo sarebbe usare un termine estremamente riduttivo, perché da noi c’è sempre l’attesa e la gioia di ritrovarci.

Io, ripeto, sono letteralmente innamorato della mia comunità, tanto da essere pure geloso ogni volta che mi sembra che manchi qualcuno!

Ho letto, molto tempo fa, un bellissimo volume che parlava della Chiesa come comunità di credenti, di fratelli e di figli di Dio. Di questo volume ricordo benissimo l’entusiasmo e la gioia con cui si parlava della Comunità di Cristiani fondata da Cristo, ma soprattutto ricordo il titolo: “La sposa bella”.

Il Signore m’ha fatto l’immenso dono di farmi incontrare ed innamorare pazzamente della mia sposa bella. Non è vero che la vecchiaia non è più un tempo per amare, anzi in questa “stagione” l’amore diventa più tenero, più delicato ed essenziale. Ogni volta che io incontro la “sposa” della mia vecchiaia il mio cuore batte forte forte e ringrazio Iddio d’avermi fatto un dono così bello anche per la mia tarda età.

Una bella verità da ricordare sempre

La ditta di pompe funebri “Busolin”, condotta da due giovani e cari amici, qualche anno fa mi ha commissionato una riflessione sull’evento della morte.

Fui felice di collaborare, a motivo della mia stima e della mia riconoscenza, ma anche perché il mio apporto mi dava modo di dare una lettura religiosa a questo triste evento.

Mi accadde però un guaio di impostazione, in quanto avevo capito che mi si chiedesse qualche indicazione di ordine pratico circa questo evento, mentre questi due giovani titolari dell’impresa di pompe funebri avevano pensato ad un volume contenente una ricerca da parte di una psicologa ed un’altra da parte di un sacerdote a livello religioso.

Quando mi si mostrò il contributo della psicologa, dottoressa Gardenale – uno studio ben fatto – compresi che la mia impostazione era sbilanciata perché povera e limitata ad aspetti solamente pratici. Tentai di rimediare offrendo una antologia di immagini, come tessere, di forma e di colore diverso, quale mosaico che raffigurasse una lettura positiva del triste evento, illuminato dalla fede.

Il mio discorso si presenta quindi nel volumetto, non come un approfondimento teologico, dotto e specifico, ma con una serie di immagini semplici e soprattutto facilmente leggibili a livello popolare. Non passerò alla storia come un teologo insigne, ma mi accontento di essere accettato come un modesto catechista che spera di farsi ascoltare.

Il volume ha avuto e continua ad avere un insperato successo, tanto che se ne sono stampate e diffuse quindici-ventimila copie e continua ad essere richiesto.

Qualche giorno fa pensai che se mi fosse possibile oggi aggiungerei un’altra bella tessera al mosaico sulla vita nuova. L’immagine mi è stata offerta da un film trasmesso in occasione della morte recente del famoso attore Paul Newman. Il protagonista del film interpretato da questo attore, racconta la storia amara di un ragazzo sbandato della periferia di una metropoli americana che trova la “salvezza” nel pugilato. Dopo alterne vicende il protagonista affronta un match dalla cui riuscita è in gioco la sua vita e quella della sua famiglia. Vince con immensa fatica e, prima di annunciare la vittoria a casa, guarda il cielo stellato e pronuncia la frase che offre la chiave di lettura di tutto il suo dramma: «Lassù qualcuno mi ama!» Quando cito questo pensiero durante il sermone dei funerali, avverto che i miei fedeli sono quasi sollevati e rincuorati da questa bella verità.

Situazioni che mettono in difficoltà

C’è un detto popolare che recita: “Il mondo è bello perché è vario!”. Sarà anche vero, ma a me questa varietà crea spesso dei drammi interiori.

Col tempo credo, come tutti, di essermi costruito una certa strutturazione nei riguardi della vita, di aver creato comparti, scala dei valori, criteri di valutazione. Ma il “quotidiano”, questo apparentemente monotono e terribile quotidiano, mi procura degli incontri, delle situazioni che spesso scuotono e talvolta sconvolgono questa sistemazione esistenziale costruita con tanta fatica e in tanto tempo.

Nel giro di una quindicina di giorni mi sono capitati due “casi” simili, che di primo acchito mi hanno sorpreso, poi irritato ed infine messo in crisi.

Una quindicina di giorni fa una buonanima di uno dei tanti “centri d’ascolto” che oggi vanno di moda anche nelle strutture ecclesiastiche e che risolvono i problemi scaricandoli sulle spalle degli altri, mi ha mandato una signora di mezza età un po’ “particolare”. Mi chiedeva, su indicazione del solito centro di ascolto, una stanza per dormire perché attualmente dormiva nella sua vecchia auto parcheggiata nel cortile del patronato di Spinea.

Le spiegai che non ne avevamo e soprattutto che la nostra scelta era quella degli anziani (purtroppo la gente in difficoltà non capisce la logica di queste scelte). Le indicai alcune possibili soluzioni ma, con notevole sorpresa, venni a sapere che aveva rifiutato una stanza calda della Caritas per solidarietà con la sua cagnetta che avrebbe dovuto rimanere al freddo in automobile perché non le permettevano di portarla a letto con lei. “Risolsi” il caso dandole 10 euro!

In questi giorni, sempre su indicazione delle assistenti sociali di un Comune limitrofo, che non sono diverse dai centri di ascolto, fui invece in grado di assegnare un alloggio ad una signora con mille drammi e con la risorsa di 320 euro mensili, somma che riceve, come alimenti, dal marito da cui è separata. Anche questa signora da mane a sera piagnucola perché non le permettiamo di portare al “don Vecchi” la sua gattina. Se lo facessimo il “don Vecchi” sarebbe già diventato lo zoo di Mestre! Occuparsi del prossimo è giusto e doveroso, ma purtroppo è tanto difficile!

Un prete che ha precorso i tempi

La mia lettura della vita di don Olindo Marella, il santo prete dell’isola di Pellestrina, tanto ammirato da Indro Montanelli, procede abbastanza veloce e sempre più appassionata. Mai avrei immaginato che questo concittadino della nostra laguna avesse una personalità così decisa, una carità senza limiti ed una fede così forte da reggere di fronte all’ottusità di certi comparti dell’apparato ecclesiastico che si sono accaniti nei suoi riguardi.

I cenni veloci del principe del giornalismo italiano su questo prete avevano creato in me una immagine bella, ma un po’ patetica, tanto che nella mia fantasia s’era formata l’immagine di un prete vecchiotto e molto pio che stendeva la mano all’angolo delle strette strade del paesino lagunare, elemosinando per poter pagare il latte e il pane ai suoi assistiti. Don Marella fu invece molto, molto di più, è stato un innovatore, un don Milani in anticipo. Promuovendo la culturazione per ragazzi ed adulti, fu una presenza attiva e coinvolgente nella scuola pubblica, un promotore di iniziative solidali di tutto rispetto, anticipando pure in questo campo il progetto di Nomadelfia (la città dei fratelli) di don Zeno Saltini, un realizzatore della città dei ragazzi, ben prima delle iniziative similari sorte dopo l’ultima guerra mondiale.

Don Marella fu un prete “libero e fedele”, come poi è stato don Primo Mazzolari, un prete che amò la Chiesa e vi rimase dentro nonostante che certi membri dell’apparato ecclesiastico, infastiditi forse per la radicalità evangelica di questo sacerdote da Vangelo, l’abbiano umiliato nella sua dignità di uomo e di credente.

Incontrare preti del genere, anche se solo tra le pagine di una modesta biografia, è una fortuna ed una grazia che ti sprona all’autenticità e all’impegno. Io mi reputo ben fortunato d’aver incontrato, seppur nella tarda età, un prete del genere che riesce a ringiovanire il mio sacerdozio.

Ancora un pensiero a suor Maria Luisa, per me “un garibaldino in convento”

Ultimamente è morta, dopo una lunga ed operosa vita, suor Maria Luisa delle canossiane di Mestre. Una suora “sui generis”, meravigliosa e stupenda per me, che tutto sommato tendo ad essere anticonformista, ma che credo, per quanto ne so io, possa aver creato almeno qualche problema per la sua congregazione e per il suo convento in particolare.

Suor Maria Luisa, donna non estremamente colta, ma estremamente intelligente, s’è interessata di tutto e di tutti, non c’era settore della vita o tipo di personalità o di dramma umano che non la coinvolgesse come donna e come credente. So che era laureata in lettere e che ha insegnato soprattutto nella scuola pubblica, ma anche i bambini, i poveri, la catechesi, gli ammalati e i drammi umani la coinvolgevano in maniera totale; era una donna che non si impegnava a risolvere i problemi in genere, ma era interessata soprattutto all’uomo, alla persona e all’individuo, che in realtà è l’unico soggetto non fittizio, ma vero.

Tante volte mi sono domandato “Ma come ha fatto a rimanere in convento per una vita intera, ove le regole, il carisma, la tradizione, la comunità, i superiori sono, in genere, più rigidi delle sbarre di una prigione e tutto tende ad appiattire, a standardizzare le persone costringendole a modelli preconfezionati, mediante un’ascetica che è esattamente opposta ai criteri del Padre eterno? Dio ci ha creati diversi, tanto che ogni creatura è assolutamente unica, perché a qualcuno è capitato lo sfizio di pretendere per tutti lo stesso abito, lo stesso modo di vivere, operare e pregare?”.

Alla notizia della morte di suor Maria Luisa, suora che nella mia fantasia ho sempre inquadrata come il titolo di un vecchio film “Un garibaldino in convento”, ho pregato perché il Signore mandi in ogni comunità religiosa di qualsiasi tipo, almeno una suor Maria Luisa che metta in crisi “il sistema”.