Voglio vivere fino all’ultimo la vita come una bella avventura!

Ai miei scout ho detto mille volte che la vita va vissuta come una bella avventura e talvolta ho proposto la variante, ancora più ricca di fascino, “scegliere di vivere la vita come un bel gioco”.

Se qualcuno poi mi chiede se io pratico questa visione del vivere, debbo confessare, con una certa amarezza, che non sempre ci riesco, talvolta mi dimentico la scelta fatta mille volte e talaltra scivolo nel pessimismo, però posso sinceramente affermare che, ripensandoci, ci riprovo sempre.

Non vale la pena che enumeri le avventure pregresse, potrebbe sembrare che voglia autoincensarmi, però devo ammettere che più di una volta, trasportato dall’entusiasmo, ho fatto centro. Così è stato per la casa di montagna per i ragazzi, “La malga dei faggi”; così è stato per le vacanze estive ed invernali dei miei anziani con “Villa Flangini”, la magnifica struttura settecentesca sui colli asolani; così è stato per la Galleria “La cella”; così per i vari periodici della parrocchia, per il “Ritrovo”, il club per i vecchi; così per mille iniziative meno eclatanti ma altrettanto belle, quali il gruppo dei cento chierichetti, quello dei duecento scout, di “Radiocarpini”, ecc.

Ora le avventure che mi fanno sognare e, pur procurandomi più di una difficoltà, mi appassionano, sono per prima cosa il “don Vecchi” di Campalto – e qui la sfida è quasi vinta perché a ottobre taglieremo il nastro. Poi la “Galleria san Valentino”, tra le vecchie fabbriche in disuso di Marghera e il relativo quartiere dormitorio; per ora siamo arrivati ad un primo concorso triveneto ma ci sono altrettante prospettive e, se va tutto per il meglio, in un paio d’anni sono certo che saremo tra i primi in classifica. La terza prospettiva è la struttura per gli anziani in perdita di autonomia.

Per un ottantaduenne può sembrar certamente un azzardo pensare ad un progetto pilota per mantenere gli anziani della quarta età ancora “padroni di casa”. Forse non andrò più in là della prima pietra o delle fondamenta, comunque credo che valga sempre la pena tentare e magari morire sognando!

Un buco nell’acqua!

Il lunedì e il venerdì mi sento un po’ dipendente dalle Messaggerie venete, perché sono i due giorni in cui mi sono assunto il compito di rifornire di giornali “i chioschi” dell’Ospedale dell’Angelo. In assoluta autonomia dalla filiera della pastorale ospedaliera, e da essa inosservato ospite, porto centinaia di copie de “L’incontro”, de “Il sole sul nuovo giorno”, delle “Principali preghiere e verità della nostra fede” e del volume “L’albero della vita” che riguarda l’esperienza del lutto, letta dall’angolatura della fede.

Comincio col grande espositore posto sulla parete esterna della cappella, caricandolo per ben due volte la settimana delle variopinte copertine dei periodici dell’editrice de “L’incontro”. A me piace l’ordine e la simmetria, per cui l’espositore lo concepisco come una tela dipinta “alla De Chirico”. Passo poi al primo piano, ove scarico “la buona stampa” nei banconi vicini alle sedie in cui sostano i pazienti in attesa che il loro numero compaia negli schermi appositi per la visita.

Ormai ho acquistato il monopolio degli spazi, perché tutta la concorrenza laica e soprattutto quella religiosa è assolutamente scomparsa dalla scena; in verità quest’ultima non è mai stata purtroppo presente.

Infine scendo al tormentato ed affollato Pronto soccorso, ove carico un piccolo espositore. Quindi prendo la mia “Punto”, pago il biglietto, perché mi è stato concesso questo “favore”, ed imbocco la strada che passa davanti alla sempre deserta stazione ferroviaria. Alla prima svolta a sinistra non manco mai di dare un’occhiata al campo arato di fresco, ove doveva sorgere la struttura di accoglienza per i famigliari degli ammalati, a somiglianza di quanto avviene ad Aviano, Padova, Belluno e tanti altri ospedali d’Italia.

Povero “Samaritano”!, così l’avevo chiamato il progetto relativo.

Presto sul campo arato spunterà il granturco, ove Cacciari, Padovan, Vecchiato e tutta la “compagnia cantante” mi avevano promesso il terreno prima, e poi perfino la struttura costruita. Un’altra delusione della politica e dell’amministrazione civica veneziana! Tanto fu grande la Serenissima, altrettanto è piccola la Venezia dei nostri giorni. L’offerta furba e vuota di Causin è ora vuota ed incolta, quella di Cacciari è invece arata.

Guardando questi due appezzamenti dei miei sogni mi viene perfino da pensare che la delusione sia stata provvidenziale, perché pare che siano ormai così pochi gli ammalati che vengono da lontano, ma anche da vicino, che il “Samaritano” sarebbe un buco nell’acqua.

L’alternativa al nucleare è anche un tenore di vita più sobrio per l’umanità

Nota della redazione: come tutti i post di questo blog, anche queste note di don Armando risalgono a svariate settimane fa.

Chi non guarda con sempre maggior preoccupazione gli sviluppi tragici della centrale nipponica? Inizialmente pareva che fosse sotto controllo, ma ogni giorno che passa aumenta l’incubo di un disastro nucleare.

Ad un quarto di secolo di distanza i bambini di Cernobil ritornano ancora ogni anno nelle nostre terre per disintossicarsi respirando “l’aria buona” della nostra città.

Il nucleare presenta ancora oggi dei grandi pericoli e pare che la scienza non sia ancora in grado di controllarlo con sicurezza. Non è detto però che le altre fonti energetiche, quali il carbone, il petrolio siano tanto meno innocue; forse i danni che recano sono meno appariscenti, ma altrettanto letali.

Ricordo il primario di pneumologia del vecchio “Umberto I”, che in una conferenza al Laurentianum forniva i dati delle polveri sottili o meno, prodotte dalle industrie di Marghera, dalle automobili e dalle caldaie di riscaldamento, che si contavano a Mestre a decine di tonnellate ed erano capaci di corrodere perfino le lamiere delle carrozzerie delle automobili; figurarsi quindi quali danni arrecano ai polmoni, ben più fragili di quelle lamiere!

In questa situazione davvero drammatica, tutti cercano le alternative, ma quasi nessuno, se non la Bibbia, ha il coraggio di dire che bisogna vivere più sobriamente se vogliamo tutelare la nostra salute. Chi forza il disegno di Dio e l’ordine della natura, fatalmente va verso l’autodistruzione.

Ricordo sempre una sentenza quanto mai saggia: “Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, ma la natura mai”. Il rimedio unico ed efficace per vivere una vita più sicura è quello di rispettare il progetto sapiente di Dio nel creato.

Radio Londra

La rubrichetta “Radio Londra” del dopocena, mi riporta ai tanti ricordi dei tempi lontani e drammatici dell’ultima guerra mondiale. Ben raramente a casa mia si trovava il coraggio di sintonizzarci sulla frequenza dei “nemici”.

Anche ora mi capita di rado di ascoltare “Radio Londra”, tenuta dal grosso e barbuto Giuliano Ferrara, il comunista “folgorato sulla via di Damasco”, perché l’orario della sua rubrica coincide per me con quello in cui recito il rosario con le mie anziane coinquiline residenti al “don Vecchi”.

Per certi versi ho anche piacere di non lasciarmi condizionare dalla dialettica tagliente del direttore de “Il foglio”.

Ferrara appartiene di certo a quella schiera di oratori dalla parola facile e feconda che incanta e convince. In Italia, nella casta dei politici, sono molti i personaggi che parlano con una dialettica degna della miglior causa: da Bocchino a D’Alema, da Alfano a Fini, da Franceschini a Bertinotti, gente forbita nel linguaggio, ma talvolta priva di coerenza umana e sociale.

C’è poi la casta dei parlatori rozzi, ma non meno efficaci, come Di Pietro o Bossi, personaggi che paiono appena usciti infangati dai campi o unti dall’officina, ma sempre caustici ed incidenti.

Temo Ferrara perché ho paura che mi influenzi troppo, mettendo in luce in maniera brillante una sola facciata del problema, mentre qualsiasi tipo di evento è sempre poliedrico e con mille sfaccettature, motivo per cui, quando ascolto “Radio Londra”, mi impongo di ascoltare anche “Ballarò”, che suona l’altra campana.

Confesso che, nonostante questi reciproci antidoti, rimango sempre un po’ stordito e confuso e perciò mi rifugio nel Vangelo per sentire aria pulita e disinteressata. Da questo frastuono e da questa cacofonia di voci tento che emerga la mia piccola verità, incerta, traballante, timida e paurosa per poterla offrire agli amici, ma sempre preoccupato che non sia preconcetta e faziosa.

Le caste sociali ci sono anche da noi!

Qualche anno fa è venuto, ospite in parrocchia, un sacerdote indiano. A Carpenedo, tra le tante altre belle realtà, operava uno splendido e numeroso gruppo di persone che si interessava ai problemi dei poveri del mondo.

Ai miei tempi, cioè fino a sei anni fa, questo gruppo per il terzo mondo, mediante le adozioni a distanza, faceva studiare centinaia di ragazzi ed inoltre ha fatto costruire una grande struttura di supporto alla scuola la quale. come i colleges inglesi, vecchi dominatori dell’India, ospitava centinaia di alunni.

La permanenza in canonica di questo sacerdote, che fungeva da direttore della scuola, il quale era venuto in Italia per conoscere il mondo dei suoi benefattori, e semmai per sensibilizzare maggiormente circa i bisogni della sua gente, mi diede modo di porgli domande sul suo mondo lontano, che io conoscevo soltanto attraverso la lettura dei romanzi. Chiesi se era vigente ancora l’uso che le vedove si facessero bruciare sulla pira assieme al marito e cose del genere, ricevendo la risposta che erano ormai tristi tradizioni del passato, però che in qualche modo c’erano ancora degli strascichi del passato nella mentalità corrente a proposito delle caste, in cui avevo letto che si suddivideva la popolazione di quel Paese, caste che andavano dalla più alta, quella dei bramini, a quella più bassa, dei paria.

Mi disse quel prete che suo padre apparteneva ai paria e quando andava in città doveva portarsi dietro un barattolo perché se gli veniva da sputare doveva servirsi di quello. La cosa, come è immaginabile, mi sorprese e mi inorridì, ma poi mi venne da pensare che pure da noi, nell’Italia dei 150 anni dall’Unità, persistono le caste e sono ancora ben definite e presenti: la casta dei politici, dei magistrati, dei liberi professionisti, degli intellettuali, dei calciatori e degli attori, e via dicendo. E ci sono pure i paria: operai, badanti, addetti al commercio, ecc.

Ciò che poi sorprende è come noi, italiani del terzo millennio, accettiamo supinamente queste divisioni e i privilegi vistosi ed assodati delle caste alte! Ho l’impressione che la democrazia sia più che altro un sogno, o peggio ancora una illusione, perché i soliti privilegiati esistono ancora e, bontà loro, se permettono a noi, “povera gente” di sopravvivere.

L’incontro con l’IRE offre nuova speranza per un cammino teso al bene comune

Ho incontrato i dirigenti dell’IRE, l’ente veneziano che gestisce un immenso patrimonio derivante dalla Congregazione della Carità che, a sua volta, ha incamerato la gran parte dei beni che i veneziani avevano messo in mano della Chiesa, durante i secoli passati, perché li adoperasse a favore dei poveri.

La presidente dell’ente, accompagnata da due giovani ed intelligenti funzionari, ha voluto visitare il “don Vecchi” e confrontarsi sui problemi degli anziani in perdita di autonomia. L’incontro m’è parso estremamente positivo e ci siamo ripromessi di operare in modo che la Regione recepisca le istanze di chi opera sul campo e non ha pregiudizi di carattere ideologico e politico.

M’ha fatto molto piacere questo scambio di esperienze e di proposte, avvertendo negli interlocutori non solamente estrema competenza tecnica, ma anche vera passione per gli anziani e senso civico, teso a trovare soluzioni possibili, economiche e soprattutto rispettose della dignità della persona, che va difesa fino all’estremo limite del possibile.

Da molti anni, e più volte, ho suggerito e proposto anche agli enti di ispirazione religiosa, o comunque gestiti dalla Chiesa veneziana, di dar vita ad una federazione o comunque a momenti di confronto. Le mie proposte sono sempre cadute nel vuoto; il mondo veneziano è da sempre individualista, ma il mondo veneziano di ispirazione cristiana lo è certamente più ancora.

Mentre parlavo con questa cara gente in ricerca di soluzioni innovative, mi tornavano nel cuore le parole di Gesù alla samaritana: «Credimi, donna, è giunto il tempo ed è questo, in cui i veri adoratori di Dio non lo adorano in questo o in un altro monte, ma in spirito e verità!».

Mi fa felice che sbiadiscano, anzi scompaiano certe etichette fasulle ed ininfluenti per camminare assieme a tutti nella ricerca del bene comune.

Il bellissimo gesto solidale della signora Vendrame

Il ragionier Candiani, che dirige il “don Vecchi” da quindici anni ma che, seguendo la sua vocazione contabile, controlla soprattutto gli aspetti finanziari della Fondazione, mi ha telefonato perché aveva una cosa importante da comunicarmi. Infatti, sul conto corrente dell’Antonveneta erano stati accreditati ben cinquantamila euro. «Cinquantamila!» mi ripeté, pensando che non avessi capito.

La “scoperta” l’aveva lasciato perfino dubbioso, tanto da sentire il bisogno di chiedermi se io non ne sapevo niente. In realtà, qualche giorno prima, mi aveva telefonato una voce giovanile dicendomi che la dottoressa Vendrame voleva fare un’offerta per il “don Vecchi” di Campalto e perciò mi chiedeva il codice IBAM. Poi passarono i giorni e non avevo avvertito niente di nuovo; capita talvolta che qualcuno, in un momento di generosità, prometta una sovvenzione e poi, per motivi che rimangono sconosciuti, la cosa non abbia alcun esito.
Questa volta non fu così!

Chiesi al ragioniere di fare ricerche per avere il nome e l’indirizzo. Non appena avuto e trovato il numero di telefono corrispondente, telefonai. Mi rispose una vocina nitida, che io ho pensato fosse quella della presunta segretaria che mi aveva chiesto il codice bancario, mentre poi ho appreso che essa era invece l’impiegata della banca. Chiesi alla presunta segretaria: «Potrei parlare con la signora Vendrame?» «Sono io» mi rispose. Rimasi un po’ senza parole ed imbarazzato, come mi capita spesso. «Vivo sola, e siccome ho ottantaquattro anni, ho pensato che lei ha bisogno adesso del denaro, non quando non ci sarò più!». Soggiunse che mi ricordava ancora dai tempi di San Lorenzo e che seguiva da lontano le mie “avventure benefiche”.

Ringraziai per l’offerta, per la fiducia e per la testimonianza di generosità e soprattutto di saggezza. Neanche io però aspetterò per dedicarle un padiglione del “don Vecchi” di Campalto quando lei non ci sarà più, perché credo giusto che si sappia, fin da oggi, che a questo mondo ci sono ancora creature belle e generose che credono alla solidarietà e la signora Vendrame è certamente una di queste.

Due bellissimi incontri in un mattino: Agostino e il Pope

Stamattina (alcune settimane fa, NdR) sono andato al cantiere del “don Vecchi”. Era da tanto che non vedevo una squadra di operai intenti al lavoro: muratori, idraulici, elettricisti e fabbri, ognuno esercitava il proprio mestiere con una serietà tale che sembrava quasi un’équipe in sala operatoria. Mi guidò nella visita Agostino, un capomastro intelligente, cordiale e capace. M’è sembrato, pur sporco di malta dai piedi ai capelli, un capitano sulla tolda di un transatlantico, che tracciava la rotta con assoluta sicurezza.

Sono ormai certo che anche la nuova struttura, per cui sto mettendo da parte mobili, quadri, tappeti e lampadari, sarà bella e funzionale, degna dei nostri anziani.

Prima di tornare, mi venne voglia di fare una visita al pope della chiesa copta che sorgerà a pochi passi dal “don Vecchi”. Fortunatamente l’ho trovato in casa; egli è un monaco di mezza età con la sua veste nera fino ai piedi ed una specie di copricapo con bordature dorate che tanto assomiglia al camauro che Benedetto decimo sesto ama portare d’inverno.

Questo “parroco” di nazionalità egiziana, segue pastoralmente una comunità di diecimila cristiani copti a Milano e quella molto più piccola di Venezia. Si è dimostrato già fratello concedendoci lo spazio per il cantiere e, più ancora, nel colloquio cordiale e caro. Si è preoccupato di dirmi che avevamo quasi tutto in comune a livello di fede, ma di questa informazione m’ero già convinto, tanto che gli ho detto che ci aiuteremo in ogni modo, e se non riuscirà a riempire le sua nuova chiesa, gli anziani del “don Vecchi”, che non hanno una cappella, andranno a pregare nostro Signore da lui.

Se costruiranno il carcere, come è previsto, e il centro per gli stranieri a Campalto, faremo concorrenza a piazza Ferretto e a San Marco.

Padre Marella, un profeta moderno

Ho terminato di leggere la biografia di padre Marella, il sacerdote che durante l’ultima guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra ha dato una sublime testimonianza di carità cristiana. Io avevo conosciuto don Marella per caso e marginalmente attraverso certe affermazioni di ammirazione del giornalista Indro Montanelli. Ora però ritengo quella testimonianza di solidarietà del sacerdote di Pellestrina qualcosa di prima grandezza: egli fu un intellettuale preparato e docente di filosofia in vari licei, sacerdote libero ed anticipatore per molti aspetti del Concilio, cristiano umile e coerente, apostolo dei poveri, realizzatore di un’opera veramente notevole, la città dei ragazzi di Bologna.

Sfortunatamente quest’uomo ha lasciato poco di scritto e quel poco che lasciò segue uno stile di inizio secolo che sa più di ottocento che del terzo millennio e, peggio ancora, di lui si sono occupati due biografi prolissi e poco incidenti, che hanno impiegato quasi trecento pagine per presentare una figura sfocata e poco incisiva di un prete che meritava invece pennellate forti e decise.

La lettura, nonostante questi limiti, m’ha fatto molto bene e m’è rimasta impressa decisamente nella mente la figura di questo intellettuale ed uomo di Dio innamorato dei poveri che passava molte ore al giorno seduto su un gradino in un angolo di una via principale di Bologna a raccogliere offerte, presentando il suo cappellaccio nero.

In un momento di difficoltà ho fatto anch’io un’esperienza che, in definitiva, era una brutta copia di quella di don Marella, scrivendo che, essendomi munito della bisaccia da frate da cerca, avrei bussato ogni giorno ad una ventina di case di Mestre per chiedere l’elemosina per pagare la casa dei vecchi di Campalto. In realtà mi limitai a scrivere delle lettere e già questa povera imitazione della testimonianza del sacerdote di Pellestrina mi mise a disagio e mi fece arrossire.

Ringrazio veramente il buon Dio che manda ancora queste belle figure di profeti a metterci in crisi.

Un “grazie” quanto mai gradito!

A volte mi capitano degli incontri che non soltanto mi sorprendono, ma che mi risultano quanto mai graditi ed incoraggianti.

Un tempo vi erano dei lavori che si chiamavano “servili” perché destinati solamente alla servitù, quale il cambiare l’acqua ai fiori, scopare la chiesa e cose del genere. Qualche giorno fa me ne stavo tutto intento a pulire le ceriere dalle sbavature delle candele votive, perché nella mia vita di prete vi sono i momenti sacri e sublimi, ma anche quei lavori “servili”, quando mi si avvicinò una signora di aspetto ancor giovanile che, senza tanti preamboli, mi ringraziò per il consiglio che le avevo dato.

In verità non ricordavo né la signora né tanto meno il consiglio. Questi incontri con persone che pensano che io le conosca mi capitano di frequente, però succede che io, fortunatamente, incontri sempre tanta gente. Poi mi capita di parlare ad assemblee più o meno numerose, ma mentre il mio volto è al centro dell’attenzione, io che poi parlo quasi sempre ad occhi chiusi, vedo solo i visi indistinti dei fedeli. Da ultimo sono ormai anche un po’ smemorato, così mi succede che non ricordo nulla.

Senza “scoprirmi” troppo riuscii a intuire che questa signora non aveva figli, era rimasta precocemente vedova e per di più era andata in pensione, trovandosi così il vuoto davanti. Di certo le avevo suggerito di dedicarsi agli altri mediante qualche gruppo di volontariato. Da sempre sono convinto che una persona non può vivere per nulla, non può lasciare inaridire il suo cuore e buttar via la sua ricchezza umana per cose futili ed effimere.

Quella signora mi ha ascoltato e per di più m’è venuta a dire che era contenta! Il grazie di questa cara “sconosciuta” m’ha fatto molto bene perché mi aiuta a trovare il coraggio di proporre ancora soluzioni positive.

Una volta ancora Gesù ha ragione quando ci invita a seminare sempre e generosamente, perchè prima o poi una semente trova il terreno buono che la fa fruttificare al trenta, sessanta e perfino al novanta per cento.

Io chiedo coerenza e gesti concreti

Lo scorso anno il professor Simionato che tra le tante, forse troppe altre deleghe, ha anche quella della sicurezza sociale, ossia di quel settore dell’amministrazione del Comune di Venezia che si occupa, o che dovrebbe occuparsi, di quella fascia di cittadini che versa in condizioni di disagio economico, mi ha chiesto un incontro per dirmi che provava la sensazione che io non avessi una buona stima di lui.

In quell’occasione ebbi modo di chiarire che a livello personale non avevo motivo di sorta per nutrire sentimenti avversi e sfiducia personale, ma che la mia insofferenza, o peggio la mia delusione, o forse peggio ancora la mia esasperazione, riguardava il mio rapporto a livello istituzionale.

Io mi reputo un operatore del privato sociale, ossia una componente di quei cittadini che, a livello di scelta volontaria e personale, sente il dovere di occuparsi dei problemi sociali; lo faccio a livello di cittadino, di prete, di presidente della Fondazione Carpinetum, dell’associazione di volontariato “Carpenedo solidale” e di membro del comitato direttivo dell’associazione, sempre di volontariato, “Vestire gli ignudi”. Queste sono realtà vive ed operanti nel territorio, quindi credo di avere tutto il diritto di parola e di critica.

Chiesi all’assessore che potessimo gestire direttamente le ore di assistenza che il Comune assegna agli anziani in disagio: nessuna risposta! Chiesi più volte che si impegnasse per ottenere i cibi in scadenza degli ipermercati: nulla! Chiesi un contributo per il “don Vecchi” di Campalto: ancora niente! D’ora in poi mi sforzerò in ogni modo di portare a conoscenza dell’opinione pubblica l’inerzia del Comune in questo settore; credo che questo sia per me, prima che un diritto, un sacrosanto dovere civico e morale.

Simionato si è offerto di svolgere questo servizio, ha chiesto il nostro voto, milita in un partito di sinistra e per di più dice di condividere i valori cristiani; credo perciò sia un dovere pretendere coerenza e gesti concreti che dimostrino il suo impegno civile.

Non sopporto più la violenza, l’ipocrisia, l’oppressione su tanta povera gente!

Capisco fin troppo bene che una persona non possa caricare la sua coscienza e la sua umanità di tutti i mali del mondo, perché bastano le piccole traversie a turbarla e toglierle la serenità. A livello razionale questo mi è ben chiaro, ciononostante non riesco, ed anche non voglio, scrollarmi di dosso la consapevolezza dei grossi drammi che affliggono la nostra terra in questi ultimi tempi.

Da sempre peno per i nostri ragazzi che obliamo in quell’Afghanistan selvaggio, crudele e senza legge. E’ vero che sono stati loro a voler andare laggiù ed è anche vero che chi sceglie di fare il soldato di professione non può né sperare né pretendere che lo mandino ad acchiappar farfalle e perciò il rischio è già previsto nella professione scelta e nella paga, ma è anche purtroppo vero che ogni giorno di più ci rendiamo conto che essi mettono a rischio la vita non avendo alcuna prospettiva che questo serva a qualcosa. Ci han provato un po’ tutti a mettere ordine in quel dannato Paese, senza cavarci un ragno dal buco; probabilmente solamente il tempo li aiuterà a uscir fuori dalla barbarie.

Anche i tecnici giapponesi delle centrali atomiche mettono a repentaglio la loro vita, ma essi lo fanno per uno scopo possibile e senza mettere a repentaglio la vita degli altri, mentre la permanenza dei nostri soldati in Afghanistan non ha neppure questi supporti ideali.

Ora a quell’incubo s’aggiunge quello della Libia. E’ purtroppo vero che Gheddafi è un satrapo, ma è anche vero che per eliminarlo mezzo mondo sta impegnando uomini, capitali e soprattutto mette a repentaglio equilibri internazionali fragili e pericolosi, oltre a provocare rovine immani e sofferenza a molta gente che ha il solito torto di abitare in un Paese infelice, che prima ha conosciuto il dominio di noi italiani, poi l’oppressione di un connazionale ed infine possiede il petrolio che è ambito dalla Francia e dai suoi colleghi.

Non riesco proprio più a sopportare la violenza, l’ipocrisia, l’oppressione su tanta povera gente che ha il diritto sacrosanto di vivere in pace una vita più felice possibile!

Le scelte dell’Italia e degli alleati varranno per tutti?

Napolitano, il nostro Presidente, arrischia di passare alla storia per un suo intervento di questi ultimi mesi in cui è scoppiato il tormentone nei Paesi arabi dell’Africa settentrionale e in particolar modo in questi giorni per quanto riguarda la Libia. C’è però una qualche incertezza perché il Presidente ha usato una frase già sentita da tempo e che egli ha riciclato adattandola alla situazione contingente: “Non possiamo rimanere insensibili ai moti dell’attuale risorgimento degli arabi della sponda settentrionale dell’Africa”.

Napolitano non solamente ha pronunciato queste parole incoraggianti alla libertà e alla democrazia, ma pare che si stia adoperando con decisione per favorire il nostro Governo che, nonostante i suoi recenti ammiccamenti con Gheddafi, s’è prontamente schierato con “i liberatori volonterosi”.

Mi auguro tanto che prima o poi non venga fuori che questo intervento sia stato dettato dalla preoccupazione di non perdere i vantaggi sul petrolio e sul gas della Libia, vantaggio precedentemente pagato con gli aiuti economici, le motovedette e le umiliazioni fatte patire dal dittatore arabo.

Le parole e le scelte di Napolitano mi fanno piacere perché finalmente mi rassicurano che la sua conversione al metodo democratico è sicura e definitiva; comunque quanto lui ha detto è bello, giusto e condivisibile. Vorrei però che le scelte dell’Italia e dei Paesi che sono partiti baldanzosi in armi per la nuova crociata per la democrazia e per la libertà, non valessero solamente per i piccoli Paesi e soprattutto per quelli che posseggono l’oro nero, ma fossero altrettanto decise anche se riguardassero i grandi popoli nei quali la democrazia sembra solamente di nome e piuttosto formale.

Bisogna dare un senso compiuto al Crocifisso in classe

Un paio di anni fa è nata una querelle infinita per la sentenza della Corte Europea che affermava che era lesivo della libertà dei cittadini mettere il crocifisso nelle aule delle nostre scuole. S’è versato un fiume d’inchiostro in proposito; il mondo cattolico, ma soprattutto le gerarchie ecclesiastiche e i politici, che sperano di ottenere i voti dei cattolici, hanno fatto infinite dichiarazioni a favore della permanenza del crocifisso nelle scuole e nei luoghi pubblici.

Anch’io ero d’accordo che era ben poco opportuno che l’Europa s’arrogasse il diritto di sentenziare sui fatti interni dei singoli Paesi. Oggi vogliamo a tutti i costi il federalismo, perché le singole regioni facciano le scelte che ritengono più opportune per non mortificare le identità e le ricchezze della cultura e delle tradizioni locali; mi sembra perciò assurdo che quegli organismi europei s’impiccino in tutto questo.

Ora finalmente abbiamo il crocifisso in classe e certi insegnanti faziosi ed altrettanti genitori radicali dovranno, loro malgrado, sopportare che i loro figli vedano questo simbolo di fraternità e di pace che dovrebbe essere comunque ricercato e benedetto in questo nostro mondo così rissoso ed irrequieto!

Il problema di fondo però rimane, non è stato ancora risolto, perché la presenza di Cristo nelle scuole ha senso solamente se al Crocifisso “diamo la parola” per precisare il suo messaggio e questo lo possono e lo debbono fare i docenti, gli alunni e i genitori, che sono consapevoli dell’assoluta necessità della proposta cristiana nella nostra società. D’ora in poi questo dovere deve essere esercitato se non vogliamo essere doppiamente ipocriti.

L’Italia, Gheddafi e i compromessi che non avremmo dovuto fare

E’ vero che se vogliamo dialogare, trovare un punto d’incontro, cercare soluzioni condivise, bisogna che scendiamo a qualche compromesso a livello di concretezza, questo però senza barare con la nostra coscienza, perdere la dignità personale per perseguire qualche vantaggio di ordine economico. Questo vale per le singole persone ma dovrebbe, anzi deve valere, anche per gli Stati.

Soltanto pochi mesi fa l’ultima visita in Italia di Gheddafi. E’ stato ricevuto con tutti gli onori con i quali solitamente si riceve il rappresentante di una nazione. Comunque c’è modo e modo nel trattare certi personaggi. Credo che tutti sapessero che quell’uomo era un despota, che non si rifaceva minimamente ai criteri della democrazia, neppure la più rozza ed elementare, nel governare i suoi sudditi.

Meglio di noi cittadini lo sapevano certamente i nostri governanti; nonostante ciò gli è stata permessa ogni stravaganza, comportamenti non solo istrionici, ma profondamente irrispettosi nei riguardi del nostro Paese e della dignità del nostro popolo.

E’ vero che l’Italia nel passato ha commesso delle colpe nei riguardi della dignità della sua gente, ha invaso la sua terra e l’ha governata nella maniera poco corretta come sempre i conquistatori usano nei riguardi dei vinti. Ma questo appartiene al passato. Se ci rifacciamo sempre alle colpe pregresse non sarebbe più finita!

I nostri capi si giustificarono nell’indicare i vantaggi economici che derivavano, sopportando tutte le stramberie e le smargiassate di quel despota. Purtroppo la ricchezza, l’economia, i vantaggi economici finiscono sempre col prevalere, costringendo così a scendere a compromessi umilianti.

Sarebbe ora che, con coraggio e forse anche con qualche sacrificio in più, ci abituassimo a vivere secondo le nostre possibilità reali, non pretendendo di condurre una vita al di sopra delle nostre possibilità.